Capitolo
7 :
Fredda pietra pazza
”E
soffi pure il vento,
ormai
si gonfino i flutti e balli il legno!
La
tempesta è in atto e tutto è affidato al caso.”
”Cosa
guardano questi miei occhi fugaci e sguscianti, sguscianti come la mia
anima che scappa senza farsi prendere mai da nessuno.
Dove
va il mio sguardo? Verso confini remoti e lontani. Verso persone
sconosciute. Verso facce mai viste. Verso orizzonti lontani.
Cambiamenti
nella mia vita. I cambiamenti dettati da qualcun altro hanno innescato
altri cambiamenti dettati da me, cambiamenti visibili, o così sembra.
Sembro
diversa, lo devo sembrare ma soprattutto esserlo.
Sono
diventata un uomo, un uomo nel cuore e nell’aspetto… mai più donna.
Questo è quel che devo ricordare a tutti.
I
miei occhi materiali ora stanno guardando ciò che riesco a creare con
il mio umore. Cielo e cuore uguali. Tempo e anima un'intesa
all’unisono, in sincronia andiamo avanti e solo insieme continuiamo.
Sono
qua, in un altro giorno di pioggia. Pioggia che crea il mio cuore. La
mia anima. Il mio intimo.
Sono
qua in questo giorno di pioggia a guardarlo passare, a provare a vedere
la luce che dicono il sole possa portare, ma il sole non verrà perché
come può venire con questi sentimenti che porto nel cuore? Il mio cuore
che piange e urla. Dovrei sforzarmi di farlo uscire, il sole, ma non
riesco nemmeno più ad immaginarlo. La mia vita è stata distrutta e
tutto quel che posso fare è il nulla, vivere passivamente la mia vita
senza far penetrare nessuno in questa mia difesa.
Potrei
provare a guardare attraverso le nuvole ma non succede nulla, perché
vedo solo quello che voglio vedere. In questo momento solo quel cielo è
l’unico mio amico... e questa pioggia. La mia mente è grigia come il
tempo lassù.
Questo
è quello che fa un giorno di pioggia? Quello che faccio far fare io ad
un giorno di pioggia? Un altro di una lunga serie. Un altro seguito da
altri uguali. A me va bene così, mi piace la pioggia e spero che possa
piovere per sempre. Dipende solo da me. Dovrei dirmi che il sole sta
per iniziare a splendere, però non succede perché sono io stessa a
soffocarlo come faccio anche con la mia femminilità. È strano quello
che in un giorno di pioggia posso pensare.
Il
mio sguardo continua a vagare nel cielo scuro che butta giù pioggia. Mi
strappa un amaro sorriso. Posso far succedere quel che voglio al cielo,
ma non a me stessa. Che ironia, sembra che io non possa decidere il mio
destino e la prova ce l’ho dentro di me. Non la mia femminilità che
nascondo diventando ogni giorno uomo. Non la mia vera anima che nego a
tutti, perfino a me stessa. Non il mio cuore protetto da una morsa di
filo spinato per non soffrire più. Non è quella la prova dell’ironia
del destino, bensì la della vita che c’è dentro di me, quella di un
altro esserino, un intruso voluto da nessuno e nonostante ciò, si forma
ugualmente nella mia pancia. Questa piccola vita inutile, odiata già
ancora prima di nascere, non l’ho chiesta e non la desidero, non la
voglio ma posso ucciderla? Chi vincerà? Chi?”
Lo
specchio rimandava la sua immagine vestita da uomo. I capelli corti e
neri, viso dai lineamenti duri e inespressivi, corpo magro e sottile,
la maglia all’altezza dello stomaco era scoperta.
Dymond
si guardava l’addome con sguardo imperscrutabile.
Quell’addome
che a mesi si sarebbe gonfiato sempre più per far posto ad una nuova
creatura di questo mondo, una creatura che sarebbe stata da amare e
proteggere, una creatura attualmente odiata e abbandonata dai pensieri
della madre. Una madre che non si accettava per quello che era e
nemmeno per quello che faceva vedere. Una madre non contenta di sé, che
aveva sofferto per cui ora quel bambino in grembo era solo la prova
concreta e materiale delle sue sofferenze.
La
porta improvvisamente si spalancò mostrando la figura imponente di
Karl, il suo patrigno… questa volta sembrava sobrio. O forse era un
impressione? Dymond si coprì la pancia e lo fissò negli occhi,
quell’uomo aveva uno sguardo diverso dal solito. Uno sguardo che
metteva paura perfino a lei, uno sguardo mai conosciuto prima. Non era
quello del solito omaccione ubriaco e scontento della sua vita che si
buttava sul bere, ma troppo vigliacco per far del male anche ad una
mosca… Non era il Karl conosciuto.
-
Sei incinta. -
Come
avesse fatto a saperlo era un mistero. Un altro mistero unito a tutto
il resto. Anche la voce era irriconoscibile, bassa e penetrante,
arrivava dritta al cervello.
Non
si affannò a negare e nemmeno a pensare a cosa le fosse successo, era
stufa di ogni cosa e non gli interessavano più le conseguenze delle sue
sconsiderate azioni. Lei era sola e nessuno l’avrebbe rimpianta,
pensando così si poteva vivere una vita diversa da quella della gente
comune, senza lacrime e rimpianti. Una vita vera.
-
Si. -
Semplice
e diretta. Lo sguardo non lo abbassava. Non la minima paura di nulla,
per che cosa, poi? Non aveva nulla da perdere.
Un
lampo strano negli occhi. Pericoloso. Occhi spiritati.
-
PUTTANA! VATTENE DA QUESTA CASA! NON TI VOGLIO! VATTENE VIA! IO TI HO
DATO UNA VITA E UN TETTO E TU MI RINGRAZI COSI‘? VAI A FARTI SCOPARE DA
TUTTI GLI STRONZI CHE INCONTRI! NON SEI PIU’ NESSUNO! VATTENE DA QUESTA
CASA, TROIA! LURIDA CAGNA! CHI SEI? NON TI CONOSCO PIU’. NON SEI
DYMOND! SEI UN ALTRO TRAVESTITO DA LEI! VATTENE! -
Non
l’aveva toccata. L’aveva solo sovrastata in tutta la sua altezza e
prestanza fisica. Non era in sé, non sapeva se l’avrebbe uccisa, non
sapeva fin dove sarebbe potuto arrivare, ma sapeva fin dove poteva
arrivare lei e quello era il limite. Parole ingiuste che però anche lei
le credeva nel profondo, anche se non le ammetteva. Era una puttana,
dunque? Cosa era diventata la sua vita? Cosa sarebbe diventata da ora?
Voleva credere di essere un uomo ma in realtà era una donna e il
bambino in grembo ne era la prova.
Lei
dalla vita poteva ricevere solo sconfitte e sofferenze.
Lei
che non aveva più dato significato alla sua vita.
Lei
perché continuava a vivere?
Parole
dure sparate nel momento sbagliato.
Lei
non voleva vivere.
Non
l’aveva chiesto lei, non aveva chiesto nulla eppure le veniva dato
tutto quel dolore… perché? Quello che doveva fare lo sapeva e non ne
aveva paura. Poteva comandare il suo destino una volta per tutte e
porre fine a quello strazio.
Uscì
di casa senza prendere con sé nulla, così com’era, senza voltarsi,
senza guardare niente e nessuno.
Nell’oscurità
della notte scesa da qualche ora, nella pioggia che cadeva leggera.
Quelle parole non l’avevano toccata, non aveva aumentato l’intensità
della pioggia, non aveva mutato il tempo, nulla la toccava più
nell’anima, nulla poteva più farle male.
Lei
non era più viva internamente.
Era
morta quando quei bastardi l’avevano violentata ripetutamente, era
morta quella volta, sicuramente. Quello che si ostinava a vivere era il
suo fisico… per di più con un'altra vita dentro… cosa voleva
dimostrare, il destino, in questo modo? Che non poteva ancora farla
finita? Che non poteva decidere del suo avvenire? Bè si sbagliava
perché era stufa e nulla avrebbe più parlato e mosso i fili al suo
posto. Una piccola, fastidiosa ed insignificante vita non aveva nessun
valore per lei. Non era ancora niente e comunque non le importava
diventare un assassina uccidendo quel bambino.
Scese
in strada camminandoci in mezzo, sotto la sua amica pioggia e il suo
fratello vento, in mezzo all’asfalto che odorava di bagnato. Il mondo
si confondeva con il buio della notte, pochi lampioni illuminavano quei
posti. Lei camminava senza far caso a dove andasse, era stata cacciata
e tanto meglio: da ora non aveva più legami. Perché continuare a fare
una cosa che a nessuno importava, per prima a lei? Perché continuare a
vivere? Non era una vigliacca.
In
lontananza il rumore di una macchina si avvicinava sempre più verso di
lei. Si fermò. Era arrivato il momento di comandare il suo destino così
che la smettesse di decidere al suo posto. Il destino non esisteva, se
lo creava lei e se era vero che era sola, allora il suo intento di
morire sarebbe riuscito. Ne era sicura.
Si
fermò girandosi verso la macchina che veniva sempre più vicina, non
chiuse gli occhi, rimase ferma immobile con gli occhi a fessura. Gli
occhi neri come i capelli e il cielo e la sua anima. Neri più
dell’universo se possibile!
Urto.
Impatto.
Sbalzo.
Dolore
improvviso ma lontano.
Il
nulla.
Non
sentì né la macchina che sbalzava il corpo non troppo violentemente
contro l’asfalto, né la frenata, né l’individuo che scendeva
preoccupato, né la sua voce. Perdere il contatto con la realtà era ciò
che voleva… morire.
Lì
per lì non sapeva se era esattamente morta o cosa stesse succedendo, ma
le piaceva, a momenti si sarebbe sentita anche più sollevata di sempre.
Non
sapeva che stava succedendo intorno a lei, non sapeva che l’individuo
che l’aveva presa sotto era una persona a lei conosciuta e che sempre
lui si era preso la libertà di portarla in ospedale di corsa per
cercare di salvarla. Non doveva essere grave, probabilmente era
indebolita, chissà da quanto tempo non mangiava del resto.
Cosa
aveva tentato di fare?
Cosa
voleva fare quella sciocca?
Era
tanto disperata da cercare il suicidio?
Lui
non poteva saperlo, almeno non fino a quel momento. Ora non avrebbe più
permesso che ritentasse una cosa del genere, con tutte le sue forze
l’avrebbe aiutata, a qualunque costo. Si sentiva di dover pronunciare
quei pensieri a sé stesso.
Quel
ragazzo dagli occhi smeraldo e i capelli raccolti in una bassa coda
mezza sciolta era proprio Kuon.
-
La signorina non ha nulla di grave, solo qualche contusione. Anche il
bambino non correrà rischi, è tutto regolare. Può star tranquillo. -
L’infermiera
aveva detto proprio così. Poi se ne era andata lasciandolo solo nella
stanza di Dymond che riposava, al braccio aveva una flebo per ridarle
le forze e le energie. Effettivamente ultimamente si era trascurata
molto non mangiando e per una donna incinta non era bene, ma dormiva
veramente oppure no?
Questo
Kuon non se lo chiese nemmeno. Aveva confusione in testa. Molta
confusione. Confusione riguardo molte cose e una parola che gli
rimbombava nella mente:
‘
il bambino’
che
diavolo significava? Dymond era incinta? Se era così tornava anche il
fatto di cosa ci facesse in mezzo alla strada in piena notte sotto la
pioggia. Quando lei aveva perso i sensi la pioggia si era leggermente
intensificata, come a volerla proteggere inconsciamente. Ora erano
entrambi bagnati e i capelli castani di lui gocciolavano a terra
creando piccole pozze d’acqua. Bè, con una violenza subita era anche
facile rimanere incinta, figurarsi se quei bastardi erano così svegli
da usare preservativi… ma… non era solo questo il punto. Un moto di
rabbia lo invase improvvisamente mentre guardava la ragazza distesa. i
capelli erano tornati momentaneamente argentei e lunghi, solo quando
lei perdeva i sensi questo accadeva. Ma la rabbia derivava dal pensiero
di coloro che avevano avuto il potere di ridurla così.
Doveva
certo sfogarsi in qualche modo… perché no…. quei bastardi dovevano
ancora pagare, forse… lentamente si immaginò il sorriso che Dymond
doveva avere avuto prima di quegli attimi di non ritorno. Distruggere
vite era facile, ma per rifarle interamente ci voleva tantissimo ed era
un percorso difficile e delicato. Certe riflessioni attualmente non
erano per lui, quel che lui sapeva era che non ci voleva certo un genio
per capire quel che era successo nella testa di lei e cosa l’aveva
spinta a quel gesto. Perché lui non era stupido e sapeva che non era un
caso che si trovasse in mezzo alla strada.
Dymond
era incinta e disperata tanto da tentare di farsi prendere sotto da una
macchina. Anche senza che lei glielo dicesse, lui ci arrivava. Qualcuno
doveva avere la sua vendetta. Adesso più che mai!