A MOON APPAREAD IN
THE NIGHTSKY
CAPITOLO
II:
CON
QUELLE SCARPE
/solo
un addio/
-
non cedete!-
“Due
parole. Le ultime da capitano. Capitano. Rimbombano nel silenzio
quasi mortale della palestra. Il quintetto base del Kouzu, il primo
serio quintetto della storia di questa scuola, esegue
l’ultimo
abbraccio da squadra. Una squadra che ha saputo vincere e crescere
dal nulla.
Un
abbraccio che si scioglie e con esso anche la carica di Capitano di
Yamazaki e di Vice di Kanemoto.
Loro
non sono più del Kouzu Basket Club.
Un
messaggio muto con gli occhi ad ognuno. L’ho percepito come
immagino tutti. Le braccia di Akane da una parte e di Harumoto
dall’altra hanno cercato di infondermi coraggio per
l’importanza
inevitabile che assumerò da qui.
Non
importa. Sono abituato a portare pesi, ma ormai non sono più
solo.
Ora
ci sono i ricordi di cui devo occuparmi.
Ricordi
di allenamenti, di incontri, di partite, di esercizi, ritiri,
sacrifici, litigate, pazzie e gioie.
Ne
abbiamo passate tante, eh?
-
mi raccomando la squadra!-
la
sua voce composta e pacata, matura, mi arriva ancora dal silenzio
generale. Nessuno riesce a reagire e dire nulla. Li guardano uno di
fianco all’altro, davanti a noi con la luce alle spalle e una
penombra pomeridiana estiva che non ci crea sollievo.
Sospiro
impercettibilmente.
La
vostra squadra non tramonterà mai, almeno finchè
ci
sarò io nelle sue fila. È una promessa, non solo
un
dovere.
Hanno
dato tanto questi due, tutto, ma non esistono ancora parole per
salutarli degnamente.
C’è
chi piange, chi fa il volto triste, chi invece ha l’aria
serafica e
concentrata come la mia e quella di Tachibana.
Eppure
deve esserci qualcosa che dimostri la nostra gratitudine, il
rispetto, la stima, l’immensità di ciò
che ci hanno
insegnato.
Potremo
fare veramente a meno di loro?
In
realtà c’è. È solo un
piccolo ed
insignificante gesto che solo a lui poteva venire in mente,
perché
è solo da lui.
Non
so se è una casualità o meno ma è in
mezzo a
tutti noi messi in fila che guardiamo le loro spalle che si
allontanano.
E
lui fa l’inchino di saluto che mostra profondo rispetto visto
l’angolo che arriva a 90°. Non 45 come viene normale
e comune,
no. Quello riservato alle persone importanti.
Sta
così per alcuni minuti senza mostrare segni o espressioni.
Ma
io le sento le sue espressioni. Dentro ha qualcosa che non sa nemmeno
come esprimere. Quello stupidotto…è solo un
idiota…
/
stupide scarpe/
Di
quell’allenamento ricordo solo che voleva che io mettessi una
delle
maglie che dimentica sempre a casa mia. Si, aveva detto che se lui
metteva le mie scarpe come gli avevo suggerito ed io la sua maglia,
avremmo vinto di sicuro. Il collegamento non lo so, ma ero certo che
le mie scarpe sui suoi piedi potessero funzionare per farlo saltare
meglio, la sua maglia addosso a me non ero molto convinto potesse
farmi muovere in modo più preciso!
Poi
per il resto il solito allenamento dove dopo eravamo andati a
mangiare qualcosa insieme con la squadra, ovvero lui ad ingozzarsi e
gli altri a mangiare normalmente. In serata invece si era trattenuto
con me a casa mia.
Non
era ne teso ne nulla per la partita che era alle porte, solo un
po’
moscio per l’assenza definitiva del capitano e del
vice…ormai non
più tali, ma semplicemente Yama e Kanemoto…me ne
aveva
parlato un po’, ma non c’era stato bisogno di
spiegazioni, era la
medesima cosa che provavo io. Era stata la vicinanza sua per me e la
mia per lui a rilassarci e a darci la carica. Poi avevamo finito come
al solito per fare l’amore.
Ora
mentre lo aspetto qua in stazione col resto della squadra non so
perché mi ricordo esattamente le parole a proposito di
quelle
mie scarpe delle quali lui si è appropriato!
Associate
ad esse una sensazione.
Cos’è?
Stiamo
giocando e quell’idiota non è ancora arrivato. La
Minefuji
ha detto che la Yoshikawa ha telefonato dicendo che Tachibana era
tornato indietro per prendere le scarpe che aveva
dimenticato…quelle
nuove! È facile per me capire che sono le mie e che le aveva
dimenticate, ma visto che era già tardi perché
diavolo
non le ha lasciate perdere? Quello scimmiotto è troppo
attaccato alle cose simboliche a volte. Dovrebbe essere più
cinico e realista quando serve! Ora mi tocca far tutto da
solo…ok
che ci siamo rafforzati molto dopo il campionato, ma se ci fosse
stato lui…un ultima occhiata alla porta per vedere se si
apre
facendolo entrare…e le pupille mi si dilatano mentre un
battito del
cuore viene a meno…il respiro torna dopo che non mi ero
nemmeno
accorto essersene andato. Dopo questo attimo in cui mi fermo senza
seguire il gioco vedo agitazione nella panchina e la Minefuji che
corre fuori dalla palestra indicando alla manager di rimanere
lì.
/la
luna non splende/
Palpiti.
Stupidi palpiti cardiaci che non accennano ad andare più
piano. Così non mi fanno sentire quel che dice.
-
cosa gli è successo…?-
la
mia voce trema e capisco che è meglio non parlare. Sto
sudando
non per la corsa o la partita appena finita. Questo è sudore
freddo.
La
Yoshikawa piange e sembra disperata, Hori invece è molto
agitata ma Hatumto supera tutti…sono dettagli, cose,
persone,
situazioni che non colgo, che non vedo. Le so ma non le vedo.
Io
voglio sapere. Ansia. È dall’inizio della giornata
che mi
attanagliava. C’era qualcosa in questo sole che non mi
permetteva
di essere rilassato. Respiro a fatica e ascolto…ascolto quel
che
spero sia solo illusione.
-
la gamba sinistra si è fratturata all’altezza del
femore…-
sento
questo. Poi altre parole, ancora dettagli, precisioni ed
imprecisioni, incertezze. Le vene alle tempie cominciano a battere
sempre più forte. Non sento, per un momento il mondo si
oscura. Sono impietrito e gelido.
Cosa
dico, cosa faccio…cosa farò se…?
-…qualora
subentrasse un infezione…ripercussioni per tutta la
vita…oltre la
possibilità di giocare a basket…in un caso del
genere la sua
gamba sinistra…verrebbe amputata!-
sudo
copiosamente e ascolto il discorso solo a tratti. Mi avvicino alla
porta semiaperta della sua camera, lui è lì
disteso che
dorme con un volto contratto dal dolore. È anestetizzato ma
soffre…quanto vorrei capire…sentire quello che
sente lui…ma ora
sento solo il mio di dolore. Mi fa male, impressione, vederlo
così…i-io…non…no…non
ci credo…merda…quello non è
Akane…
-
no…-
tremo
ancora, più di prima, la mia voce è lontana e
ovattata.
Non capisco se mantengo la mia piega fredda, il suo stampo
naturale…oppure se…se cosa?
-
…-
cosa
penso? Cosa faccio? Cosa dico?
-
non può essere vero…-
sento
i miei muscoli facciali assumere un espressione, finalmente. Le gocce
di sudore arrivano sugli occhi che mi bruciano. Si. Mi bruciano per
quelle, per il sudore…non per…quello
che…vedo…
-Tachibana…-
lo
dico io oppure è qualcun altro?
Respiro…devo
respirare….se respiro io forse riesco a trasmettergli la
voglia di
farlo anche a lui.
Lui
è lì disteso in un letto d’ospedale,
addormentato con
smorfie di dolore sul volto pieno di lividi…e una gamba che
rischia
di essere amputata…lui è lì e forse
non potrà
più saltare con me, per me…potrebbe cambiare per
sempre…e
tutto…per…delle scarpe…le mie
scarpe…le nike…no…mi
rifiuto di crederci. È lui quello che non accetta la
realtà,
non io. Io accetto, prendo subito atto e porto il peso dei miei
sentimenti e delle responsabilità di tutti.
Cazzo.
Cosa faccio?
Svegliati
che non capisco nulla.
E
loro parlano sul dafarsi, su organizzare i turni per andare a
trovarlo, su cosa dirgli, su come comportarsi, sulle
possibilità
che aspettano ora Tachibana…su chi porta a casa lei, lui e
quell’altro…pensano a queste cose
loro…io non ci riesco. Sto
solo in un angolo e anche quando tornano a casa sto indietro rispetto
a tutti. Guardo in basso, non riesco ad alzare lo sguardo.
L’ultima
cosa che ho visto è stato il viso di Tachibana addormentato,
non voglio guardare altro. Impresso nella mia mente.
Impresso…cosa
c’è?
Mi
fermo. Mi sono fermato?
-
Hiragi…-
la
voce di Harumoto mi pare lontana, mi chiama, credo sia preoccupato
per la mia espressione inespressiva. Mi giro. Non do retta a nessuno,
lui mi aspetta mentre gli altri avanzano. Almeno mi pare.
Alzo
lo sguardo. Cerco Akane…lo cerco in cielo…la luna
non c’è,
è tutto nero e buio. Come la finestra della sua camera
d’ospedale.
Nelle
orecchie musica da lontano, da un locale notturno che manda a tutto
volume note azzeccate per una serata simile. Una donna con la voce
tipica di quelle di colore canta arrivando ad acuti con quel suo
timbro speciale….pian piano recupero i
particolari…ma mi sembra
triste anche lei.
Forse
sono i miei sensi che vedono tutto così.
Cosa
posso fare io per lui?
-
io vado….ci vediamo, Harumoto…-
credo
di dire così prima di iniziare camminare come un automa.
Seguo
la voce di quella cantante e giungo senza accorgermene in un locale
dove fanno live music. Non è molto grande ed è
per
questo che la musica si sente bene anche da fuori. Entro e ammetto
che c’è poca gente.
È
una serata qualunque senza luna con un caldo che non soffoca e non
raffredda.
Mi
appoggio alla parete in fondo alla sala e guardo in direzione della
cantante. Era come immaginavo di colore, ha neri capelli corti con
del gel che le stanno in su, sono rasati ai lati, un taglio da punk,
credo, non lo so. Vedo ancora particolari, ascolto dettagli e lento
riprendo possesso del mio corpo, di me stesso…e la mia mente
quando
torna a me?
Lei
è brava, canta bene, deve essere sulla trentina, non ne ho
mai
sentita una cantare così bene. Arriva a picchi altissimi e
riesce ad imprimere una malinconia e disperazione alla sua voce che
non credo di aver mai sentito. Anche se io la musica comunque non
l’ascolto.
Sento
anche il mio respiro tornato regolare. E i battiti del cuore sono
calmi. Ora i pensieri fluiscono in me chiari e netti, freddi e
pacati.
Cambia
canzone e mentre lei si sfoga cantando io penso a come mi dovrei
sfogare…non lo so. Ma voglio fare qualcosa per lui. Cosa
posso
fare?
Tutti
hanno organizzato un po’ i turni per stare con lui in modo di
non
lasciarlo mai solo, stanno pensando a come parlargli, come
trattarlo…pensano a queste cose, ma io non riesco. Non
riesco ora.
Mi
riempio gli orecchi della voce e della musica così forte
mentre la chitarra elettrica esplode facendo tremare i vetri e lei
sfumata e delicata ma decisa e graffiante riesce ad ammutolire tutti
che la guardano silenziosi ed ammirati.
Particolari
che non sono miei.
Ho
bisogno di non pensare.
Giuro
che da domani lo faccio. Mi sfogo e penso a qualcosa di concreto per
lui. Ora…ora…Dio, non ce la faccio. Vorrei
sfogarmi e piangere, o
correre, o giocare a basket…o qualunque cosa, ma non mi
viene nulla
se non spaccarmi i timpani. Solo adesso vedo che ho le casse
amplificatorie accanto agli orecchi e la gente mi fissa
perché
mantengo aria e volto lontano, distante.
Una
statua di marmo scolpita da un artista del rinascimento che adora la
bellezza sopraffina e sovrannaturale. Una tristezza intangibile sulla
pelle di ghiaccio levigato.
Non
me ne importa.
Questa
musica non deve farmi attivare ancora la mente.
Ancora
per stanotte.
/concretizzazione/
È
l’alba. Sono tornato a casa, mi sono cambiato e sono uscito
subito.
Fuori piove ed era quello che desideravo. Non ce l’avrei mai
fatta
a vedere il sole. Nemmeno la luna questa notte c’è
stata. Mi
sono messo una tuta nera e tirato su il cappuccio ho iniziato a
correre. Correre. Correre e basta. L’unica cosa che riesco a
fare.
Non
piango, non vado da nessuna parte. Corro.
E
penso. Finalmente ce la faccio a reggere il peso dei miei pensieri.
E
dei miei sentimenti.
Lui
ha aperto gli occhi. Lo sento. È così. La pioggia
cade
non molto forte ma basta per bagnarmi del tutto subito, le
scarpe…le
mie scarpe…fanno rumore sulle pozzanghere che calpesto,
schizzi si
aprono al mio passaggio.
Così
mi riapproprio del mio corpo. Sfogo. Posso magari chiamarlo tale, ma
non credo. Non è mio. Non mi sento sollevato, non mi aiuta.
Corro più forte di prima, sempre più forte, in
una meta
sconosciuta, lontana dalla città, dall’ospedale.
Non voglio
più vederlo in quel modo. Non lo aiuterei, non serve. Devo
mettere da parte me stesso, gli egoismi e le emozioni. Devo pensare a
lui. Cosa posso fare io ai fatti per aiutarlo? Non credo che cose
banali come una visita gli faccia bene. Sul momento ok, ma poi? Devo
pensare più avanti. Più grande. Di
più. Perché
nessuno si è preoccupato per lui in questo modo. Come fare
per
lui? Lui non accetterà mai di non tornare a giocare a
basket.
Io senza di lui nel campo per sempre. Non devo essere egoista ma se
penso a quello che sto per fare si riduce tutto a
questo…egoismo.
Lo faccio perché lui stia bene e se lui sta bene poi sto
bene
anche io, quindi lo faccio per me. È la natura umana. Il
fiato
mi viene sempre meno e corro più veloce. Lui sta male e non
accetterà mai la sua situazione. Devo accettarla io per lui
e
per tutti e far si che…che lui…possa andarsene e
guarire. Se non
gli rendo la situazione tale che lui senza rimpianti se ne
vada…devo
dargli quella sicurezza che a lui manca. Lui non lo mostrerà
mai ma gli mancherà, ne sono certo. La devo avere io per lui.
Non
mostro apertamente quello che voglio fare, non mi spiego.
Perché
dovrei?
Se
lui va da quell’amico di mio padre e guarisce se ne va da qua
per
molto tempo. Se non gli presento le condizioni adatte lui non se ne
andrà. Io voglio che vada perché guarisca. Non mi
basta
che la gamba riprenda a farlo camminare. Voglio che torni a giocare a
basket, a saltare, a correre…a volare… e se non
fa così
non ce la farà. Io voglio tutto. Non mi importa quando. Lui
non deve rinunciare.
Io
lo aiuterò come posso. Le uniche cose che posso fare sono
queste.
L’unica…non
ho tempo per me, per altro.
Affinché
lui guarisca con ogni sua volontà, che se ne vada, che ce la
metta tutta, che ci creda, che lo voglia veramente io devo rafforzare
il Kouzu.
Devo
farlo diventare così forte che l’assenza di
Tachibana non
peserà.
Solo
io ci posso riuscire.
Solo
così lo posso aiutare.
Devo
parlare con mio padre.”