Fade To Black

CAPITOLO 3:

Ciò CHE CONTA

- Chiudi quella finestra!-
La voce cavernosa proveniente dall’ennesima notte insonne, raggiunse la madre che era andata ad aprire i vetri alzando le saracinesche per far entrare la luce del sole alto e caldo. Lei si fermò voltandosi verso il figlio sdraiato nel letto, aveva il busto nudo, fasciato da diverse bende mediche, appoggiato alla spalliera del letto, la testa dritta con uno sguardo scuro perso nel vuoto, il viso sciupato con ancora dei lividi residui dall’incidente, era coperto da alcune ciocche di capelli che ormai non pettinava più lasciandoli crescere come meglio volevano. Le mani abbandonate in grembo, un grembo che non avrebbe mai più sentito vivo.
Le gambe erano entrambe fasciate sotto le lenzuola ed alzate il necessario per facilitare la circolazione. Non poteva nemmeno dire di sentire dolore fisico, non ne provava affatto se non per le costole rotte e le altre ammaccature dalla vita in su.
Non sentiva nulla sugli arti inferiori.
Nulla.
- Ma Tsubasa…oggi è una bellissima giornata e qua dentro c’è odore di chiuso, bisogna far prendere aria. Fuori c’è un sole così allegro, sai che ti fa bene il sole, il medico ha detto…-
- Non mi importa!- La interruppe incolore, continuando a non guardarla, poi proseguì: - Non mi piace la luce, il sole, l’aria, i rumori estivi, la gente allegra che parla spensierata di cose che solo loro possono godere. Non c’è nulla d’allegro qua dentro. Voglio silenzio e buio!-
- Ma comincia a far caldo anche qua dentro, non si respira bene e poi il medico…-
- NON ME NE IMPORTA NIENTE DI COSA DICE IL MEDICO! SE HAI CALDO VA’ FUORI E FATTI UNA CORSA! TU PUOI FARLA, NON SEI OBBLIGATA A STARTENE CHIUSA QUA! QUESTA è LA MIA VITA E DECIDO IO SE VIVERLA ALLA LUCE O AL BUIO! TU NON SEI COME ME E NON DEVI FARE QUELLO CHE FACCIO IO! NESSUNO DEVE! BASTA CON QUESTA STORIA!-
La donna si mortificò molto dopo la sfuriata di Tsubasa, aveva alzato la voce e adirato si era voltato verso di lei guardandola in faccia, nemmeno vedendo il viso addolorato della madre l’aveva fermato, nessun effetto. Le lacrime le premettero per uscire così col nodo alla gola che premeva sempre più, tremante e quasi nel panico, non attese un minuto di più uscendo dalla stanza di corsa, chiudendosi la porta alle spalle e pensando solo un'unica cosa coerente:
E’ un incubo, io non ce la faccio più da sola!”
Tsubasa all’interno della stanza era tornato al suo punto morto, con occhi spenti e la bocca serrata, non gli era nemmeno dispiaciuto l’averla maltrattata, non provava più nulla. Assolutamente nulla. Il vuoto albergava in lui.
Ma era veramente vuoto?
L’odio verso il sole era l’odio verso la vita e se c’è odio non c’è indifferenza, né vuoto.
Dunque lui provava ma reprimeva con forza e testardaggine.
Era solo convinto che la vita per lui si fosse fermata definitivamente e aspettava deciso la fine dei suoi giorni in quel letto. Una fine che pregava sarebbe arrivata presto.
Senza le gambe non esisteva più nulla. L’unica cosa che riusciva a pensare, che ammetteva nella sua mente.
Senza le gambe tanto valeva morire, poiché tutto quello per cui era nato gli veniva strappato con esse.
Tuttavia questo reprimere una vita che volente o nolente avrebbe dovuto affrontare, questo soffocare le emozioni, i sentimenti, la disperazione ed ogni devastante reazione, lo gettava sempre più in una voragine dove per lui tutto ciò che prima era stato importante, non esisteva più.
Ci sono poche cose che cambiano la vita delle persona ed una percentuale non molto alta che queste accadano, ma se succede ci si deve preparare al mai visto e pensato!

Il gran via vai della folla incuteva quasi timore, c’era un numero spropositato di Giapponesi e gente anche straniera che andava e veniva nell’aeroporto. Misaki prese un profondo respiro e con il borsone in spalla si diresse verso il passaggio dei taxi per prenderne uno.
Era appena tornato nella sua madre patria.
Aveva un aria piuttosto sciupata, due occhiaie scure sotto gli occhi ed un pallore che non passava inosservato, per un espressione inequivocabilmente preoccupata. Non vi era più l’eterna e sincera serenità con cui affrontava ogni cosa ed i pensieri che albergavano nella sua testa erano tutti rivolti a Tsubasa e a come avrebbe dovuto affrontarlo, ogni volta che ci pensava finiva come per sentirsi male, la sua mente rifiutava quasi di mandare quella realizzazione, tuttavia il moro non era tipo da scappare dalla realtà, sapeva bene che doveva accettarlo e così sarebbe stato.
Diversa l’aveva presa Wakabayashi che con grande rabbia si mangiava in continuazione tutti quelli con cui aveva a che fare!
- Misaki?-
L’aveva riconosciuto subito quasi sperando di vederlo prima degli altri e con sollievo l’aveva chiamato senza pensarci.
L’altro si voltò di scatto spaventato, era soprappensiero e tutto il resto del mondo gli scivolava intorno come acqua, il contrario del portiere che gli arrivava ogni cosa amplificata, non riusciva a fare a meno di sentire e fare attenzione al resto che lo infastidiva fino quasi a farlo impazzire. La testa gli doleva, lo stomaco era sottosopra e l’intontimento generale dovuto alle ore di sonno mancate, si facevano vedere e sentire anche su di lui, tuttavia nel complesso manteneva il suo bell’aspetto su un espressione che sembrava ancor più tenebrosa ed aggressiva del solito.
- Wakabayashi! Sei arrivato anche tu! Immaginavo che avremmo potuto incontrarci a Narita, ma non pensavo che sarebbe successo veramente!-
Genzo lo guardò scrutandolo a fondo, come faceva a parlare lo stesso come se nulla fosse? Poi capì.
No, quello non è il solito Taro. È ben altra persona quella che mi sta ora davanti…lo può capire solo chi lo conosce un po’ meglio rispetto agli altri.”
Così pensando, gli tese la mano ma questa volta senza il suo perenne sorrisetto enigmatico a tratti, strafottente ad altri. Non aveva il cappellino che si portava sempre dietro e mostrava un aria molto adulta e seria, dovuta anche all’espressione imbronciata e grave che non sapeva nascondere. In lui la preoccupazione era così accesa e viva che non serviva conoscerlo bene per comprendere il suo reale stato d’animo. Certe cose nemmeno lui riusciva a mascherarle, anche se di norma se voleva ci riusciva!
- Già…una coincidenza d’orari incredibile…-
Fu tutto qua quello che riuscì a dire, cercava di essere più gentile che poteva ma meglio di così non ci riuscì. In condizioni ottimali gli avrebbe chiesto come andava e cosa faceva, era da un bel pezzo che non si vedevano più pur essendo così vicini rispetto agli altri compagni di nazionale. In condizioni ottimali anche Taro avrebbe parlato molto di più, spigliato e allegro come sempre, con quella dolcezza che lo caratterizzava…una dolcezza matura. Erano caratteristiche rare da trovare in un ragazzo, chissà se sarebbero rimaste tali anche ora.
Taro strinse a sua volta la mano dell’amico e provò quasi del sollievo a stare con un amico in una situazione così difficile.
- Si…-
Rispose a sua volta l’altro cercando disperatamente qualcos’altro da dire, senza però trovare nulla di soddisfacente.
Ma non è forse così anche per me?”
Terminò così il pensiero precedente, il bel tenebroso. Sprofondò le mani nelle tasche dopo essersi sistemato con cura il borsone in spalla, con aria sfuggente distolse lo sguardo dall’amico e si guardò in giro per trovare qualcos’altro di più utile da fare, vide il taxi che stava per prendere Taro quando l’aveva visto e decise subito senza perdere altro tempo:
- Facciamo la strada insieme?-
L’altro fu come se si svegliasse e gentilmente accettò con quella sua aria svanita che sapeva non sarebbe andata via facilmente. Si sistemarono nell’abitacolo e pur essendo due vecchi amici che non si vedevano da molto, non spiccicarono parola alcuna, il silenzio che calò dall’inizio alla fine fu pesante ed imbarazzante e se per uno come Genzo poteva essere normale, non lo era per Taro, abituato sempre a discorrere con chiunque si trovasse in compagnia. Ora era lì a guardare distratto fuori dal finestrino con aria malinconica, assente, persa. Faceva un certo effetto vederlo così e Genzo non se la sentì di violare quel suo stato d’animo così particolare.
Dio, sta così male?”
Questo altro pensiero gli salì alla mente durante il viaggio cercando di domare il fastidio che provava per ogni cosa gli capitasse e lo toccasse: il silenzio gli seccava, il parlare gli seccava, la gente gli seccava, la solitudine gli seccava, i cambiamenti gli seccavano, le stabilità gli seccavano, non c’era nulla che gli stesse bene, per questo stava solo zitto e guardava a sua volta fuori…anche se odiava pure quel sole così alto e felice!
Tirò fuori il cellulare dalla tasca e lo fissò con intensità come fosse una bella donna, ma visti i suoi gusti sessuali forse è meglio dire un uomo. Visualizzò il numero di Schnaider e la tentazione di chiamarlo fu grande, ma si trattenne, non l’avrebbe certo fatto in quel momento davanti a Misaki!
Quest’ultimo dal canto suo non sentiva nemmeno la presenza dell’altro accanto, si era dimenticato immergendosi nel suo mondo dove non vedeva e non captava nulla se non i propri pensieri e a volte nemmeno quelli. La notizia di Tsubasa l’aveva shockato e non era sicuro di essersi ancora svegliato da quella perdita di sensi, per quanto ne sapeva poteva essere ancora in Francia con Pierre…e forse lo sperava.
Si fecero portare direttamente all’ospedale centrale di Tokyo e sempre in silenzio arrivarono davanti alla stanza che gli avevano indicato. Non avevano avvisato nessuno del loro ritorno, sarebbe stata una sorpresa ma improvvisamente pensarono che forse non era stata un buonissima idea. Al di là di quella porta c’era Tsubasa con le gambe ingessate ed immobilizzato a letto, o chissà in quali condizioni. Fecero un profondo respiro ma senza prendere l’iniziativa, quando Genzo finalmente stava per bussare, una voce lo interruppe e ne fu quasi grato, come se il ritardare il loro incontro potesse servire a farli sentire meglio.
Si voltarono in contemporanea e videro arrivare loro incontro la madre di Tsubasa.
- Signora…-
La salutarono e lei fece altrettanto con un sollievo negli occhi e nello sguardo che sembrava più gratitudine che altro:
- Misaki, Wakabayashi…come sono felice che siate qui. Vi hanno avvertiti di…-
Non riuscì a finire la frase, non avrebbe mai avuto il coraggio di dirlo.
- Si…mi ha chiamato Hyuga…pensavo scherzasse…-
Disse Genzo con sforzo per mantenere la sua sicurezza. Se ne sarebbe stupito il compagno se non si fosse incantato a guardare la porta chiusa della camera del suo migliore amico.
- Misaki, caro…tutto bene?-
Lo scosse la signora con fare materno e lui sbattendo gli occhi la guardò come fosse la prima volta che la vedeva, poi fece mente locale e si ricordò di cosa si stava parlando, rispondendo a sua volta sempre con un tono vago:
- Oh, a me hanno mandato un telegramma, è stato Misugi…-
Lei fece loro una carezza ciascuno per ringraziarli, li aveva visti che erano piccoli, giocavano a calcio col figlio, erano diventati suoi amici e poi avevano preso ognuno la propria strada, ma voleva loro bene e le dispiaceva che vedessero Tsubasa in quello stato.
- Vi ringrazio di essere venuti, ma devo avvertirvi. Tsubasa non è più lo stesso. I medici dicono che non ci sono speranze per lui di tornare a camminare ed ora è completamente diverso da come lo ricordavate. -
Taro trattenne il respiro mentre spalancava gli occhi come avesse il terrore dentro, Genzo strinse i pugni e contrasse la mascella indurendo il volto dai lineamenti decisi.
- No, non potrà più camminare. Ha rotto le gambe e quel che basta della spina dorsale per non poter più alzarsi in piedi…dovete essere forti. Ve lo chiedo perché io…le mie forze…le ho già esaurite…-
Annuirono ma non furono molto convincenti, poi entrò e subito dopo uscì con un espressione molto dispiaciuta e le lacrime che volevano uscire:
- perdonatelo…non vuole vedere nessuno…nemmeno voi. Dice che non…non vuole avere a che fare con alcuno al mondo…-
Infine si scusò andandosene. Li lasciò soli e dalle espressioni shockate non credevano a quanto sentivano, l’impulso di Genzo fu di entrare lo stesso e a denti stretti, con rabbia sempre più crescente, sbottò:
- Me lo deve dire di persona!-
Aveva già messo la mano sulla maniglia ma fu fermato da Taro che finalmente aveva reagito, non lo toccò, solo la voce, tremante, strana…sull’orlo del pianto:
- No, Wakabayashi…no…-
Avrebbe voluto dire che non era il caso, che era troppo presto, che dovevano lasciargli più tempo, avere pazienza…ma riuscì a dire solo ‘no’ e lui si fermò, aveva tutti i muscoli del corpo tesi e avrebbe preso volentieri a pugni qualcuno, l’impotenza e la frustrazione erano grandi in lui e l’idea di stare per impazzire lo sfiorò! Era un tipo d’azione, che faceva sempre qualcosa, non stava mai fermo ad aspettare ed ora era addirittura rifiutato e costretto.
Però Misaki glielo aveva chiesto e non poteva non ascoltarlo.
- Ragazzi…?!-
La voce alle loro spalle era distinta ma incerta, come se volesse assicurarsi di avere davanti le persone che credeva.
Era Misugi.
Li vide lì davanti alla camera di Tsubasa, entrambi scossi e Misaki con gli occhi lucidi, se non fosse arrivato forse avrebbe pianto, mentre Wakabyashi pareva a dir poco adirato, sull’orlo di una sfuriata, si passava nervoso le mani fra i corti capelli mossi e cercava di non lasciarsi troppo andare. Dentro di sé si chiese se anche lui, Jun, sarebbe riuscito a mantenete a lungo quello stato fermo di maturità e calma, anche lui come tutti era sotto pressione ma fra tutti era quello che riusciva più a controllarsi, trattenersi e rimanere con la sua aria sicura come solo un aristocratico poteva riuscire.
- Siete giunti insieme…è un piacere vedervi, l’occasione non è altrettanto piacevole…-
Si salutarono scacciando quello stato pesante e doloroso in cui si trovavano, fu un attimo di consolazione poi Jun prese in mano la situazione come era consueto per lui.
- So che non ha intenzione vedere nessuno, ma nutrivo la speranza che almeno voi lo avreste aiutato. Avremo tempo per parlare con lui. Ora è più opportuno che vi riposiate. Se volete posso ospitarvi a casa mia per il tempo che desiderate. Abito accanto a questo ospedale e non esistono problemi se rimarrete con me. Che ne pensate? -
Lo ammirarono per la dimestichezza col linguaggio che aveva anche in quelle situazioni, non si smentiva mai, non si agitava o allarmava, rimaneva padrone di se e non si perdeva per nessuna ragione. Lo invidiarono senza immaginare lo sforzo che in realtà facesse e lo scoppio di pianto che aveva avuto quella famosa sera con Hyuga.
Alla fine accettarono, avevano bisogno di sapere meglio come erano andati i fatti e di stare un po’ tranquilli con una persona altrettanto tranquilla. Sembrava che lui fosse sicuro che tutto sarebbe finito per il meglio.
Ma spesso le apparenze ingannavano.
Soprattutto nel suo caso.

- Dovresti andare da lui. Non ci sei ancora andato.-
Aveva detto così Sawada prima di separarsi per andare a casa sua. Lui gli aveva scorbuticamente chiuso la bocca liquidandolo dicendo che nemmeno lui era ancora andato, ma poi gli aveva giustamente ribattuto con un frase che l’aveva fatto pensare:
- Ma io non ho lo stesso legame che hai tu con lui. Ci andrò quando si sentirà meglio, non ha senso che ci vada ora…-
Hyuga allora aveva risposto subito brusco e seccato:
- Quale legame? Non sono legato a nessuno!-
- Avete un rapporto…-
- Non sono fidanzato con nessuno, io…specie con quella capra!-
Lo scambio di battute poi era diventato sempre più veloce e serrato con uno che si divertiva e l’altro che si innervosiva sempre di più:
- Rapporto, non relazione!-
- è la stessa cosa!-
- No…-
- Si…-
- Ma non è questo il punto! Tu e Tsubasa siete amici!-
- Non dire scemenze romantiche!-
- Non serve che lo ammetti. Ma devi andarci!-
Così ora era lì, in ospedale, a maledire se stesso e la sfiga che ci vedeva sempre bene. Aveva pensato molto in quel periodo. Aveva vissuto secondo certi ideali e principi, facendo in modo di non pentirsi di ciò che faceva, affrontando la vita come una tigre e non come una gallina, tuttavia ora ciò che credeva solido era crollato lento insieme a Tsubasa e si chiedeva cosa fosse veramente importante nella vita, cosa rimanesse se tutto quel che credi importante, un giorno se ne va. Cos’è che non se ne andava mai?
Lo sguardo più scuro e arrabbiato del solito non guardava in faccia nessuno e si dirigeva verso quella che doveva essere la camera di Tsubasa, conscio che probabilmente non sarebbe riuscito ad entrare o che lui non l’avrebbe voluto vedere.
Andiamo, che ci faceva lui, cioè: LUI, lì? Uno come lui non andava a fare visite di cortesia, non si preoccupava dei rivali, non calcolava chi gli aveva sempre messo i bastoni fra le ruote.
Poi però a convincerlo a fare una piccola marcia indietro sulle sue convinzioni, era stata la frase più significativa di Sawada, alla sua uscita sempre più scocciata:
- Io e lui siamo solo rivali, nemici…-
L’altro aveva risposto sicuro e soddisfatto:
- Si, ma siete l’uno dell’altro il miglior nemico!-
Sospirò spazientito.
Si sentiva solo un idiota!

Ecco, lo sapevo! Non era una buona idea! La prossima volta cucio la bocca a quell’impiccione sentimentale!”
Hyuga non era nemmeno riuscito ad entrare in quella stanza, la madre l’aveva mandato gentilmente via dicendo che non voleva vedere nessuno e che gli altri erano tutti da Misugi.
Si era chiesto chi fossero gli ‘altri’ ma aveva deciso che avrebbe scoperto di persona l’arcano mistero. Quel che lo infastidiva veramente non era che il suo amico Sawada si fosse impicciato facendogli fare la figura della femminuccia, non era nemmeno che non si sentiva molto tigre o le domande che si faceva in continuazione dall’incidente…quel che l’aveva urtato dal profondo ed in modo pericoloso tanto da spintonare un povero sventurato che gli era venuto addosso per sbaglio, era stato il fatto che Tsubasa non l’avesse voluto vedere! Allora non erano più niente. Nessuno contava nulla, funzionava così, per lui. Le belle parole, i bei sentimenti che propinava, i principi e le palle varie che sventolava erano tutte falsità e bugie, sciocchezze insomma. Tsubasa era uno così? Che faceva finta di valorizzare un sacco di cose ma in realtà non gli importava di niente e nessuno?
Senza accorgersene era giunto davanti alla mega villona di Misugi. Non ci era mai stato di persona, ma sapeva com’era e dov’era, tutti lo sapevano. Era veramente vicina all’ospedale, l’ideale luogo di ritrovo per chiunque avesse bisogno di farsi forza per via di Tsubasa.
Lui non ne aveva bisogno, voleva solo vedere chi erano gli ‘altri’!
Con un muso lungo tre metri si fece condurre da Jun e quando sentì la sua voce parlare si fermò subito. Stava dicendo una cosa che lo lasciò non solo di sasso ma anche gli fece chiedere se per caso quel principino non fosse un veggente:
- Alla fine è vero. Ciò che permane e che è utile nella vita sono solo i sentimenti e le relazioni. Può accadere qualunque cosa e sottrarti quello per cui hai vissuto fin ora e ti rimangono solo i sentimenti, quello che hai provato, gli amici, gli affetti. Non ha peso cosa fai e come lo fai, ma se quando lo facevi eri felice. Anche smacchiare un pavimento o consegnare dei giornali può portare felicità, è lo stato d’animo e come affronti le cose che importano. -
Rimase a bocca aperta la tigre e per un attimo gli parve non solo che gli avesse letto nell’animo i dubbi, ma anche che se era stato lui e non un altro a dare risposta, un motivo c’era, ma questo lo confuse maggiormente e così decise di scacciare il pensiero e concentrarsi sulla veridicità delle parole che aveva sentito.
Aveva ragione, in fondo, gli seccava ammetterlo e non glielo avrebbe detto, però era così.
Sospirò di nuovo questa volta un po’ più rilassato, difficile per lui, ed entrò. Solo lì sentì e vide chi c’era in quella stanza.
E quasi gli venne un colpo.
Wakabayashi e Misaki erano qua.
Allora tutto sarebbe andato a posto, di sicuro loro avrebbero aiutato Tsubasa e tutti, Misugi per primo, sarebbero tornati a respirare leggeri.
Forse.