Fade To Black
CAPITOLO
4:
E
ADESSO BASTA
L’ampio
giardino verde era il luogo ideale per un po’ di privacy e
intimità, proprio quella che cercava Genzo. Era sgattaiolato
fuori da quella villa così grande che ricordava tanto la sua
d’infanzia. Sarebbe stata un’occasione per tornare
al vecchio
quartiere. Ma non subito. No.
Cominciò
a camminare distratto senza godersi veramente la natura che lo
circondava fatta di alberi, viottoli, siepi, laghetti e aiuole
fiorite nonché molti roseti. Tutto ciò era sul
davanti,
come per un’accoglienza ai visitatori, sul retro vi era
invece un
grande parco con panchine costeggiato da qualche albero, per stare
più in tranquillità, era provvisto di un piccolo
campetto di calcio e di tennis, molto più in là
si
notavano anche le stalle dei cavalli, non numerosi, probabilmente
erano giusto per il gusto dei ricchi di avere quelle povere bestiole.
Ci si poteva immaginare Misugi perdersi fin da piccolo in tutta
quell’enormità, naturale che passasse tutto il
tempo col
calcio!
Non
si fermò, il bel moro, deciso a continuare il suo percorso
in
quell’ampio esterno.
Tirò
fuori il cellulare e su di esso puntò il vero e proprio
interesse: schiacciò subito il tasto verde che gli
mostrò
l’ultima chiamata effettuata, avvenuta solo la sera prima, al
momento di dormire. Tornò a schiacciare lo stesso tasto ed
attese di prendere la linea. La distanza era molta e sapeva che
nonostante la scheda speciale che aveva avrebbe speso un capitale in
quel periodo, vista la quantità di chiamate che faceva in
Germania ad una persona specifica.
Quando
la voce dall’altro capo telefonico gli risuonò un
po’
lontana e fredda nell’orecchio, Genzo si trovò a
respirare
di nuovo sentendosi già meglio.
-
Karl, sono io…-
L’ennesima
chiamata al fidanzato.
-
Ciao. Come va’? -
Glielo
chiese pur sapendo la risposta, in poche ore non poteva certo essere
cambiato qualcosa.
-
Come ieri.-
-
Già…-
Che
altro avrebbe potuto dire? Lui stesso sapeva che Genzo era un tipo
che non mostrava bisogni particolari ma in realtà ne aveva
eccome, aveva bisogno di sostegno e poche persone potevano
darglielo…ormai veramente poche. Ma anche Karl non era un
gran
conversatore, specie per telefono, non amava
quell’apparecchio e se
fosse uno che si innervosiva, sarebbe successo solo in quei momenti,
ma così non era e controllandosi alla grande, riusciva a
mantenersi distaccato e telegrafico, non si poteva pretendere troppo
da lui, in fondo.
-
Andrai a trovarlo?-
-
Ne ho parlato con Misaki, dice che è meglio se ci prova lui
da
solo, io gli ho suggerito di beccare un momento in cui è
solo
senza la madre, di entrare senza chiedere il permesso e piazzarsi
davanti a lui costringendolo ad ascoltarlo e farsi
aiutare…ma
conoscendolo non è tipo da porsi in questo modo!-
Aveva
iniziato la conversazione molto tirato ma proseguendo si era
rilassato un po’, essendo la voce di Karl, a detta sua, molto
rilassante. Gusti personali!
-
Immagino piuttosto che solo tu faresti una cosa simile!-
Voleva
distrarlo un po’ ma era difficile riuscirci e poi non voleva
sembrare indelicato, anche se uno come lui, di norma, non aveva tutte
queste attenzioni. Genzo lo sapeva ed infatti apprezzò molto
il tentativo.
-
Non sta a credere: c’è Hyuga che farebbe di
peggio, si è
trattenuto fin ora solo perché chiunque prova riguardo per
Tsubasa in quelle condizioni, altrimenti sarebbe solo uno spettacolo:
lui che viene rifiutato? Non si è mi visto accettare simili
affronti! -
Parlare
di lui l’aveva tirato un po’ su, magri per Hyuga
era più
difficile, da quel che ne sapeva non aveva una dolce metà su
cui appoggiarsi e vedere il proprio diretto ed eterno rivale ridotto
in quello stato, poteva essere devastante, conoscendo il tipo.
-
Genzo, sai che puoi dirmelo. Se hai bisogno di me io arrivo. -
La
frase di Karl era stata improvvisa incisiva, l’aveva colto di
sorpresa e non aspettandoselo era rimasto un po’ di sasso
anche il
portiere, poi aveva come sorriso, un sorriso innaturale e
malinconico, nostalgico, e aveva risposto semplice e sottovoce:
-
Grazie…ma lo sai, mi conosci…certe cose le devo
affrontare da
solo. Va bene così. Mi basta la tua voce.-
Poi
era arrossito, non era affatto tipo da certe parole, seppur col
fidanzato, ma in alcuni stati d’animo ci si lascia andare di
più.
Solo in alcuni, però.
Dall’altra
linea un sospiro di consapevolezza, non si sarebbe aspettato nulla di
diverso da lui. Gli piaceva per questo.
-
Lo so, ma volevo dirtelo. -
Sembrava
poco eppure poteva bastargli veramente, a Genzo, sentire la sua voce,
immaginare le parole che lui avrebbe detto e vederselo davanti a
sé
mentre scrollava freddamente il capo come per dire che lui era sempre
il solito! Sarebbe stato troppo facile stare lì ad aspettare
il rinsavimento di Tsubasa insieme a Karl. Troppo facile.
Così
non doveva essere.
La
chiamata andò avanti ancora a lungo.
Frustrazione
e rabbia erano palpabili nella stanza. Un senso non solo
d’insoddisfazione ma anche di contrarietà verso
ogni cosa lo
circondava, Tsubasa era steso nel proprio letto d’ospedale,
si
muoveva poco e niente, ma non era quello ciò che gli pesava,
quello che per lui era ormai diventato insostenibile era il non
sentire.
Non
sentire il proprio corpo dalla vita in giù.
Non
sentire la vita che scorreva.
Non
sentire un domani positivo per se stesso.
Non
sentire nessun dolore.
Convivere
con la consapevolezza di non avere più nessuna speranza per
tornare alla vita che lui voleva, alla SUA vita, non era facile per
nessuno, figurarsi per uno come lui.
Basare
un intera esistenza su una singola cosa effimera e fragile che
può
sfuggire da un momento all’altro, è pericoloso,
perché
può non succedere nulla e andare tutto bene ma anche il
contrario, può anche accadere proprio quello che strappa
dalle
mani quella cosa importante e quindi l’esistenza.
Questione
di priorità?
Stupidità?
Incoscienza?
O che altro?
Chiederselo
col senno di poi era facile per chiunque ma più stava fermo
e
andava avanti, più la sua mente si rifiutava di rimandargli
immagini del suo felice passato.
Era
cresciuto credendo in quello che faceva, amando quello che faceva,
dando tutto se stesso in quello che faceva, aveva imparato dei
principi e dei valori su quel campo di calcio che per molti potevano
essere sciocchezze, era sempre stata una persona corretta che si
limitava a vivere la sua vita nel modo che riteneva opportuno,
basandosi su quello sport che da piccolo l’aveva salvato
dalla
morte.
Una
morte che a quanto pare non poteva essere inevitabile per sempre.
Forse
aveva sbagliato ad interpretare il proprio destino, quel giorno il
calcio non l’aveva salvato, Quel giorno il calcio gli aveva
dato un
messaggio importante che lui aveva travisato: quello sport non gli
avrebbe dato una vita ma gliel’avrebbe tolta.
Fu
unicamente questa la sua conclusione.
Girando
e rigirando il capo sul cuscino con espressione inquieta,
cominciò
a maledire mentalmente tutto quel che gli stava intorno, per la
millesima volta, lanciò un occhiata all’esterno,
attraverso
le saracinesche abbassate si poteva intravedere il solito sole che
splendeva, quella stanza ormai era priva di aria pulita e perfino sua
madre aveva diminuito le visite perché aveva aumentato le
lacrime.
Era
perfettamente cosciente di tutto, ogni cosa che lo circondava e
proprio per questo ormai non sopportava più niente. Erano
venuti Wakabayashi e Misaki. Solo fino a giorni prima li avrebbe
accolti felice abbracciandoli, ora…ora il solo pensiero di
farsi
vedere steso senza più la possibilità di
camminare, lo
mandava in bestia, era sicuro di non farcela ad andare ancora avanti
così. Ne era sicuro.
Loro
due avrebbero continuato la loro vita con quello che era il SUO
sogno. Il SUO.
Non
avrebbe voluto la pietà di nessuno. Tanto meno sarebbe
riuscito a sostenere lo sguardo dispiaciuto e compassionevole nei
suoi confronti.
Tsubasa
era sempre stato forte, ora non lo era più, ora non era
più
il campione fuoriclasse fanatico del calcio, non era più
nessuno, steso in quel letto, senza poter più camminare e
non
stava così male solo perché non avrebbe
più
giocato a calcio ma anche perché senza potersi muovere, per
lui nulla valeva la pena di essere vissuto ancora.
Più
in là di lì la vita non esisteva.
Era
un tipo assoluto capace di dare tutto se stesso per un gioco, come
aveva fatto fin’ora e poi non credere più in
niente, non
conosceva vie di mezzo. Guardandolo non sembrava uno così ma
poi conoscendolo bene lo si capiva perfettamente. Non si trattava di
ottusità o ingenuità, solo di troppo sentimento
per
un'unica cosa.
Era
un misto di rabbia, frustrazione, insoddisfazione, incertezza,
dolore, odio, rifiuto, contrarietà.
Come
avrebbe vissuto?
Si
poteva vivere anche così?
No,
non lo credeva. Era sicuro di no.
Avrebbe
saputo i suoi compagni andare avanti lo stesso nel modo che lui
avrebbe voluto per sé, avrebbe percepito il loro finto
dispiacere verso di lui, internamente magari avrebbero esultato per
non avere più un rivale come lui fra i piedi, loro avrebbero
vissuto, lui avrebbe appena sopravvissuto e non era questo
ciò
per cui era nato.
Con
un gesto di stizza prese il cuscino sotto la testa e lo premette
sulla faccia senza particolari intenzioni, non voleva sentire tutti
quei pensieri che fluivano, quelle sensazioni negative ed
insopportabili, il sole e l’aria, il mondo che proseguiva il
suo
cammino, non voleva procedere in quel modo.
Non
voleva.
La
rabbia aumentava immaginando Hyuga sempre più forte, Misugi
che ugualmente poteva fare qualcosa nel calcio, Matsuyama che tirava
fuori nuovi assi, Wakabayashi ormai imbattibile, Misaki perfetto.
Non
avrebbe più gareggiato con Hyuga e Matsuyama, non avrebbe
più
ascoltato le nuove tattiche valide di Misugi, non avrebbe
più
potuto tentare di far goal a Wakabayashi….non avrebbe
più
potuto….giocare con Misaki.
Fu
questo che gli provocò maggiore dolore. Averlo lontano,
sempre
più lontano, irraggiungibile, distante ed inarrivabile. Quel
sentimento che provava per lui era imparagonabile ed ora sicuramente
si sarebbe sporcato o chissà….sarebbe tutto
cambiato. Perché
queste cose cambiano la vita.
Cominciò
così a schiacciare sempre di più il cuscino sulla
faccia dove una smorfia di ira lo deformava.
Non
era partito con nessuna intenzione ma sentendo la fatica a respirare
capì che continuando sarebbe soffocato.
Il
senso di soffocamento, l’idea di andare completamente
dall’altra
parte, improvvisamente non gli parve così orribile e
spaventoso, improvvisamente gli parve allettante, la cosa migliore
con cui era venuto a contatto in quei giorni.
Improvvisamente
credette che la morte non era peggio del non poter camminare
più
e subire tutte le inevitabili conseguenze.
“Disperato.
Sprofondo
nell’oblio.
Il
vortice si apre sotto di me.
Mi
lascio cadere senza forze.
È
quello che voglio.
Quello
che desidero.
Abbandono.
Voglio
morire.
Senza
ragione di vita non voglio vivere.
Morirò.
Mi
libererò.
Chiudo
il sipario su di me.
Abbracciato
al dolore.
Schiacciato
dalla consapevolezza.
È
tutto andato.
I
giochi sono finiti.
Ed
io non posso far altro che questo.
Per
quanto tempo avrei potuto resistere.
Separato
dall’altra mia parte?
Non
credo più sia male togliermi la vita.
È
tutto ciò che voglio.
Addio.
Lasciatemi
morire.
Non
è questa la vita che volevo.
Che
ho vissuto.
Che
voglio vivere.
Adesso
basta”
Si
sentì appena un bussare dalla porta e subito si
aprì,
giusto per le regole dell’educazione. Aveva seguito un
po’ il
consiglio di Wakabayashi ed era entrato senza attendere permessi, si
sentì un po’ un ladro maleducato ma capiva che non
poteva
fare in altro modo. Lui teneva a Tsubasa più che a se
stesso,
sapeva che il sentimento che provava per lui andava oltre
l’amicizia
e saperlo in quello stato era insopportabile, tanto che
l’unica
cosa a cui riusciva a pensare era lui e come doveva sentirsi, cadeva
spesso in un altro mondo e in perenne assenza con la testa, si faceva
chiamare dagli altri in continuazione. Ma sapeva che non era una
reazione definitiva, quella vera…quella vera sarebbe
arrivata a
breve.
Quando
fece capolino nella stanza in penombra subito una nota gli parve
stonata.
Percorse
con lo sguardo la camera spoglia e si soffermò sul letto
pieno.
Tsubasa
era lì steso con le gambe coperte ed immobili
e…il volto
nascosto nel cuscino…a dire il vero non solo nascosto, le
mani
premevano l’oggetto morbido in modo poco equivocabile,
tremavano
quasi dalla rabbia e dalla forza che esercitava e la mente
elaborò
all’istante la peggiore delle ipotesi, come una qualsiasi
persona
avrebbe fatto sapendo la situazione dell’amico.
-
Oh mio Dio…-
Mormorò
solo questo, poi con prontezza e impulsività, senza pensare
molto si fiondò da lui prendendogli il cuscino e
strattonandolo con forza, non si era nemmeno accorto della sua
presenza e vedendo il colorito del viso capì che aveva fatto
appena in tempo e che non aveva capito male.
Tsubasa
aveva tentato di soffocarsi, non trovando altri modi plausibili per
togliersi la vita. Certo, per uno immobilizzato a letto non era una
passeggiata.
Non
volle nemmeno capire i motivi profondi, erano così chiari,
per
lui tutto quel che riguardava Tsubasa era semplice e limpido,
cristallino, ed ancora una volta lo comprese, senza però
condividerlo.
Taro
era una persona semplice, dolce, gentile ed educata, riflessivo ed
internamente molto profondo, con una pazienza che aveva
dell’incredibile, aveva passato molti brutti momenti e li
aveva
affrontati tutti col sorriso, ma quella volta riuscì a
perdere
il controllo di se stesso.
-
Tsubasa…tu…tu…-
La
voce era bassa e tremante, non si capiva se fosse sull’orlo
delle
lacrime o di una sfuriata colossale. L’ex numero 10 appena
sentì
la sua voce non aprì nemmeno gli occhi, iniziò
solo a
respirare e mantenendo una smorfia di rabbia si girò dalla
parte opposta a lui.
Il
moro rimase in piedi davanti al suo letto e mentre mille flussi fra i
più diversi gli percorrevano il cervello, insieme alle
emozioni che invece trafiggevano il suo cuore, si portò le
mani ai lati della testa, coprendosi gli orecchi, popi gli occhi, ed
infine sulla fronte, prendendosi i capelli della frangia tirandoseli.
Riprese
con lo stesso tono di poco prima che andava in crescendo:
-
…sei solo un viziato.-
All’udire
ciò l’altro si voltò di scatto verso di
lui, aveva
un’espressione arrabbiati e colpiti da quanto Taro gli stava
dicendo, Ad alta voce chiese accusatorio:
-
COME? IO SAREI VIZIATO?! LO DICI PROPRIO TU? CREDEVO CHE CI
CONOSCESSIMO!-
Ma
Taro non si fece colpire da queste parole e nemmeno dai suoi occhi
neri che sembravano più scuri di sempre, non riusciva
più
a trovare lo Tsubasa che aveva lasciato tempo prima.
-
Non provarci. Sono IO che credevo di conoscerti. Non sei solo
viziato…ma anche capriccioso, prepotente, patetico,
infantile…-
Gli
provocava dolore più a se stesso che a Tsubasa ma non poteva
risparmiarsi. Non si era mai sentito così in vita sua:
angoscia, ira, disgusto…ma non solo. Si sentiva ferito.
Ferito
dalla persona che amava. E non ce la faceva più.
Tsubasa
si alzò sui gomiti e fissandolo con astio irriconoscibile,
disse:
-
COME PUOI DIRMI QUESTO? NON VEDI COSA MI è SUCCESSO? NON LO
VEDI? NON POTRò Più CAMMINARE, MAI
Più, MAI Più
E TUTTO QUELLO CHE SAI DIRMI SONO INSULTI!-
La
goccia uscì e il vaso cadde rompendosi, Taro aveva passato
il
suo limite e come fosse tutt’altra persona prese per il
colletto
della maglietta leggera il compagno e avvicinando il viso al suo
urlò
come mai aveva fatto:
-
E ADESSO BASTA! SMETTILA! SMETTILA DI COMPATIRTI! NON SEI UNA
VITTIMA! NON SEI IL PRIMO CHE GLI CAPITA UNA DISGRAZIA E NON SDARAI
L’ULTIMO! SEI SOLO UN FALSO! UN BUGIARDO”! TUTTE LE
TUE BELLE
PAROLE SULL’AMICIZIA, LE TUE ATTENZIONI VERSO CHI TI STAVA
ACCANTO,
COME HAI AIUTATO GLI ALTRI, HAI RIPORTATO ALLA LUCE GENTE COME HYUGA,
SCHNEIDER E CHISSà QUANTI ALTRI. SEI SOLO UN VIGLIACCO,
FINTO,
SUPERFICIALE, STUPIDO! COME DIAVOLO SI FA A PENSARE DI ESSERE AMATI
DA UNO COME TE? COME FACCIO IO A PROVARE QUESTO PER TE?”
PENSO CHE
FIN’ORA HO VOLUTO BENE QUALCUN ALTRO, NON TE! OH, AL DIAVOLO!
UCCIDITI PURE! FAI PROPRIO PIETA’!-
Dopo
di ciò lo mollò nel letto e senza fare altro se
ne andò
di corsa sbattendo la porta mentre le lacrime, le stesse che gli
erano scese durante la sfuriata, gli rigavano le guance nello stesso
modo in cui il suo cuore gli stringeva nel petto.
Questa
volta non ce l’avrebbe fatta.
Ne
era sicuro.