Fade To Black
CAPITOLO
2:
SOGNI
INFRANTI
La
palla esercitò un perfetto rettilineo nell’aria
finendo il
suo viaggio fra le braccia forti del portiere, era un tiro mediamente
potente ma nulla di speciale, confrontato a quelli dei suoi diretti
rivali. Agilmente tornò al centro della propria porta
sistemandosi il cappellino perennemente calato con la visiera sul
volto, per coprire meglio lo sguardo penetrante e sicuro, si potevano
notare solo i lineamenti orientali del viso solo dal naso al mento,
le labbra piccole erano inclinate in un sorrisetto ironico e
soddisfatto, il corpo atletico e muscoloso tornò dritto e
distinto. La visione di quel ragazzo in fiore che diventava sempre
più bello, merito anche dei suoi capelli neri che fra tutti
quei biondi erano sempre più apprezzati, piacque alle
ragazze
che erano accorse quel pomeriggio ad assistere agli allenamenti della
squadra di calcio giovanile a loro preferita, se era per ammirare i
loro calciatori prediletti si faceva quello ed altro! I calciatori in
questione erano Wakabayashi e Schneider. Al primo, Genzo, non gli
andavano fastidio ma non gli facevano nemmeno troppo piacere, si
poteva dire che con la più totale indifferenza le sopportava
e
a onor del vero il suo ego si gonfiava pur non ne avesse effettivo
bisogno. Al secondo, Karl, invece urtavano profondamente, riteneva
seccante sorbirsi quei gridolini fastidiosi ma non sarebbe mai stato
da lui lamentarsi o mandarle via.
I
due giocatori erano molto amici, dopo tutti quegli anni passati
insieme un po’ come avversari ed un po’ come
compagni, erano
diventati gli unici in grado di stare l’uno insieme
all’altro,
alcuni ricamavano su quel rapporto, altri li invidiavano, altri
ancora li consideravano solo due amici.
Il
portiere rimise la palla in gioco e fu in quel momento che il fischio
dell’allenatore si udì in tutto il campo, la sua
voce poi
gridò:
-
PAUSA! GENZO, VIENI, C’è UNA TELEFONATA PER TE DAL
GIAPPONE,
SEMBRA IMPORTANTE!-
Il
bel tenebroso con aria stupita uscì dal campo togliendosi il
cappellino rivelando così dei mossi e neri capelli corti, si
asciugò il sudore dalla fronte con l’avambraccio
scoperto e
pensando a chi potesse essere, entrò con passo sicuro nella
sala delle riunioni dello stuff, dove vi era un apparecchio
telefonico e appoggiando il didietro sul tavolino, prese la cornetta
con una mano mentre con l’altra arieggiava il colletto della
maglia
appiccicata al corpo.
-
Pronto?-
Lo
disse automaticamente in tedesco, senza nemmeno pensare che stava
parlando con la madre patria, infatti gli risposero in giapponese:
-
Wakabayashi…sono io, Hyuga…-
Al
moro venne quasi un colpo sentendo proprio lui dall’altra
parte del
telefono, si sarebbe aspettato tutti tranne lui!
Stupito
quindi rispose:
-
Hyuga?! Come mai mi chiami? È successo qualcosa?-
L’altro
se ne risentì nonostante avesse ragione a credere che se lui
lo chiamava non poteva essere normale!
-
Idiota! Mica è la fine del mondo se ti chiamo! E poi potevi
salutarmi! -
Genzo
sospirò impaziente, sentire le sue lamentele era
l’ultima
cosa che gli andava anche se ammetteva che ogni tanto gli mancavano!
-
Taglia corto! Sono certo che non è una chiamata di saluti!-
Erano
sempre i soliti, nemmeno impegnandosi potevano essere più
socievoli e gentili l’uno con
l’altro…salvo poi ritenersi
comunque amici!
-
Bè, bando alle ciance…non so come
dirtelo…-
-
Dillo e basta, ho da fare, sbrigati!-
Sentiva
che c’era qualcosa di stonato nella sua chiamata, lo sentiva
nel
profondo, ma non poteva e non voleva ascoltare quella vocina
allarmante!
-
Va bene. Si tratta di Tsubasa…-
-
Cos’è successo a Tsubasa? Perché non mi
chiama
direttamente lui? Tu che diavolo centri?-
Seccato
l’altro alzò la voce:
-
Sono l’unico che ha pensato ad avvisarti ma me ne sto
pentendo! Non
rompere e ascolta! Tsubasa ha avuto un incidente! È stato
investito da una macchina in corsa e le sue gambe sono critiche. Ieri
l’hanno operato ma non si sa se tornerà a
camminare o meno,
i medici non sono stati positivi!-
Genzo
boccheggiò, in quell’istante entrò Karl
per
richiamarlo all’ordine ma vedendo quell’espressione
così
shockata si fermò subito. Qualcosa non andava.
Il
moro cominciò a non sentire più il corpo
concentrandosi
solo sulle parole che gli stava dicendo Hyuga, per la prima volta
voleva ascoltarlo!
-
Cosa…cosa dici?-
Hyuga
abbassò la voce e divenne quasi delicato, con un tono
preoccupato e malinconico che non era da lui, fu quello che gli fece
più impressione, che gli fece più male.
-
Dobbiamo prepararci all’eventualità che Tsubasa
non possa
più camminare…e rimanga…-
-
Zitto! Non dirlo! Non di lui! A lui non succederà una cosa
del
genere! Non può! Non
deve…zitto…basta…-
Fu
una reazione giustificata e normale, che non fu fermata né
commentata dall’interlocutore che parve dispiacersi. In fondo
erano
più uguali di quel che fossero disposti ad ammettere:
avevano
reagito alla stessa maniera…solo che Misugi aveva pianto per
fargli
accettare la realtà, lui non l’avrebbe di certo
fatto.
Improvvisamente pensando all’amico che già da
tempo non
poteva giocare a calcio, si sentì in colpa, strano per lui
ma
fu così…poteva accadere per la situazione fragile
e delicata
in cui tutti erano…dove si diventava onesti e sinceri e si
prendevano in esame cose mai osate.
Improvvisamente
si resero conto di non saper più che dire e che fare,
stettero
con il telefono in mano in silenzio con lo sguardo perso nel vuoto ed
una luce diversa, strana, che allarmò Karl da questa parte.
-
Wakabayashi…-
Tentò
senza però aver null’altro da dire, infatti fu
proprio Genzo
a tagliare corto, nel panico e nel caos più totali.
-
Io…devo andare...-
Non
diede il tempo di fare altro, riattaccò la cornetta
interrompendo la comunicazione.
Rimase
un lungo attimo immobile, con un espressione impietrita e il fiato
sospeso, il sudore improvvisamente era freddo e il mondo circostante
non esisteva più, l’unica cosa che sapeva
ripetersi
mentalmente era che Tsubasa aveva avuto un incidente e che forse le
sue gambe non avrebbero più funzionato.
Funzionare.
Un
corpo che smette di andare bene, si rompe, non va più,
dà
problemi, fa cadere nell’incertezza. E finchè
è
incertezza è bene, quando poi diventerà certezza,
lì
sarà da preoccuparsi.
Sembrò
crollare in un luogo buio dove non c’era più il
Genzo sicuro
e strafottente di sempre, smarrimento, fu questo che si lesse nei
suoi occhi neri e affascinanti, Karl si avvicinò posandogli
una mano sul braccio forte abbandonato lungo il fianco.
Mostrò
persino lui un segno di titubanza davanti al suo portiere, era sicuro
di non averlo mai visto in quello stato, non avrebbe saputo definirlo
con certezza, sembrava più uno le cui certezze storiche
stavano fuggendo via dalle dita.
-
Genzo?-
Avevano
preso a chiamarsi per nome da un po’ di tempo, in Germania
non
erano rigidi come in Giappone e fra compagni di squadra e amici ci si
chiamava per nome e non per cognome…persino fra due tutti
d’un
pezzo come loro!
Il
biondo non sapeva cosa gli succedeva ma provò un sano
istinto
di volerlo aiutare, far qualcosa per lui, solo per lui, per nessun
altro avrebbe voluto far qualcosa, era così da anni, si
volevano in campo a vicenda e non trovavano stimolante fare una
partita l’uno senza l’altro, andava bene sia come
compagni che
come avversari!
Non
ottenne risposta e pensò comunque di lasciargli i suoi
tempi,
non l’avrebbe forzato a parlare però gli faceva un
certo
effetto vederlo così.
In
fondo stavano insieme da poco e non sapeva bene come si doveva
comportare un…fidanzato.
Fece
per togliere la mano ed allontanarsi ma fu fermato, quella di Genzo
gliela prese prima che potesse staccarsi del tutto, allacciarono le
dita e dopo averlo tirato verso di se, il moro appoggiò la
fronte alla spalla larga del compagno.
-
Tsubasa ha avuto un incidente…è non si
sa…se…se potrà
camminare…-
Fu
un duro colpo anche per Karl ma lo shock fu attenuato dal voler
tirare su Genzo, gli fece più male vedere lui
così,
sapeva quanto erano amici, si tenevano sempre in contatto e il loro
rapporto era da ammirare, un po’ di invidia l’aveva
provata ma
non era tipo da gelosia. Invidia perché lui
l’unico amico
che aveva avuto era stato Genzo.
Strinse
la mano mentre l’altra la posò sulla schiena
spaziosa.
Non
disse nulla, cosa avrebbe potuto dire?
Non
voleva nemmeno pensare a cosa avrebbe significato questo, non voleva
pensarci affatto.
Si
trattava solo di fortuna?
Nessuno
poteva avere una vita perfetta, quella era la dimostrazione.
-
Devo…andare da lui…-
La
voce tenue e smarrita cercava di tornare in sé ed essere la
persona pratica, sicura e decisa di sempre ma le forze persino a lui
in un momento simile gli venivano meno.
-
Vuoi che ti accompagno?-
Sentirlo
così tenero, per i suoi canoni, gli fece una certa
impressione
e gli diede quell’energia per affrontare ancora una volta le
proprie difficoltà. Non c’era stato nulla, nella
sua vita,
che non si fosse guadagnato con le sue forze e capacità.
Avrebbe
superato anche quel momento difficile.
-
No, devo andarci da solo…-
Prese
questa decisione insieme al bacio che gli strappò quasi con
disperazione, per ricaricarsi e fare la cosa giusta. Avrebbe dovuto
mostrarsi come sempre agli altri, per cui si prese quel momento per
essere onesto con se stesso e lasciarsi andare.
Solo
quel momento.
Caricò
il borsone di calcio sulla spalla larga tipica di uno sportivo, si
diresse all’entrata di casa sua e assicurandosi di non aver
dimenticato nulla lo sguardo gli cadde su una busta a terra, parte
della posta era caduta e non se ne era accorto, chissà da
quanto era lì! Si abbassò e la prese, fra le
bollette
c’era anche un telegramma per lui, guardando la data si
risollevò,
era di quella stessa giornata.
Se
la mise fra le labbra e posò le altre sul mobile in modo che
il padre al suo ritorno le vedesse, cercò le chiavi in
entrambe le tasche ed una volta trovate uscì chiudendosi la
porta dietro di se, fece un giro di serratura e si incamminò
a
passo spedito e leggero per il marciapiede parigino, riprese la busta
in mano e senza fretta iniziò ad aprirla, non le dava molto
peso, gli piaceva camminare per quei posti godendosi il paesaggio.
Sembrava che il padre si fosse stabilito pianta stabile a Parigi, era
comprensibile, tutta la Francia era bellissima e per un artista,
viverci era il massimo, ma sapeva che prima o poi sarebbero tornati
in Giappone, sarebbe servita una buona scusa, tuttavia per ora non
l’avrebbe forzato, non l’aveva mai fatto e non
avrebbe iniziato
ora, del resto nemmeno lasciarlo lì ed andarsene a vivere da
solo era pensabile, gli voleva un bene dell’anima, doveva
tutto a
lui e anche se non avevano mai avuto una casa vera e fissa, averne
molte gli aveva permesso di avere molti amici, avere conoscenze che
un ragazzo normale non potrebbe avere e soprattutto far sue tutte le
tecniche di calcio dei diversi posti visitati. Erano molto uniti
padre e figlio, poi lasciarlo solo non era indicato anche
perché
i padri non sapevano cavarsela da soli.
In
una famiglia vi sono la moglie che pensa al padre e dona affetto al
figlio, mentre il padre si fa accudire dall’amata e cresce il
figlio secondo i suoi valori e ideali. Se manca uno dei due per forza
di cose il piccolo viene tirato su in modo diverso da come dovrebbe
venire. Se manca il padre ci si troverà davanti una persona
più insicura, con più dubbi che fa diversi
‘errori di
calcolo’ dovuti alla mancanza maschile di riferimento, se
manca la
madre invece si arriva ad una persona che cerca di sostituirla per
aiutare il padre ad andare avanti senza che si lasci a se stesso, a
costo di farsi prendere in giro per questo, che però cerca e
trova affetto a modo proprio in cose a volte convenzionali a volte
meno, buttandosi in passioni personali fra le più diverse.
Questo
era Taro Misaki, un ragazzo dovuto crescere prima degli altri, con
una maturità differente ed una sensibilità tipica
femminile per poter compensare a ciò che solo una donna
può
dare in una famiglia.
Respirando
a fondo l’aria esterna, fece un sorriso tenero che
abbracciava ciò
che ormai amava molto, quella città. Le persone del
quartiere
incrociandolo lo salutavano, qualche ragazza che sperava in un suo
sguardo ed in un suo cenno particolare, attaccavano bottone invano,
lo conoscevano abbastanza da sapere che quel grazioso giapponese
effeminato sembrava non essere per nulla interessato alle donne, lo
si capiva soprattutto da come si poneva nei loro confronti, con una
gentilezza, apertura e spontaneità poco maschile, seppur
mantenendo una certa riservatezza.
C’era
ormai molta folla che andava e veniva intorno a lui, aprì il
foglio senza pensieri particolari, vide che era scritto in Giapponese
e veniva da Tokyo, appena i suoi occhi scuri scorsero le prime righe,
si rabbuiarono immediatamente, fermò il passo mentre
qualcuno
che gli passava vicino tirava il collo per poter curiosare, lui
questi dettagli non li sentiva e non li notava, concentrato
totalmente su quello che c’era scritto, una specie di tuffo
al
cuore che mancò un battito e forse anche più di
uno,
come se potesse capire come si sentiva Misugi quando aveva i suoi
attacchi di cuore in campo.
Non
si rendeva nemmeno conto di aver sospeso il respiro e di essere
impallidito in modo impressionante.
Erano
parole telegrafiche e semplici, chiare dal significato preciso,
inequivocabili e perfettamente comprensibili come il mittente che le
aveva scritte.
Eppure
gli sembravano scritte come a fuoco, marchiate.
Non
le avrebbe dimenticate per il resto della sua vita, a distanza di
anni le avrebbe sapute ripetere alla perfezione come se le avesse
appena lette.
Jun
Misugi scriveva:
“Sono
spiacente di informarti che Tsubasa Ozora ha avuto un incidente. Le
gambe sono gravi. Non si sa se tornerà a camminare.
È
ricoverato all’ospedale di Tokyo. Spero tu possa venire qui
il più
presto possibile. Saluti. Jun Misugi.”
La
lesse una sola volta e non ci fu bisogno di rileggere per vedere se
aveva capito bene, la firma era una garanzia, sapeva che era tutto
vero. Tutto corretto. Che non c’erano equivoci.
Pulsazioni.
Sempre
più forti.
I
muscoli che cedono.
Insensibili.
Incontrollati.
Il
corpo pesante.
Il
foglio scivola.
Vola
a terra.
Si
posa.
I
suoi occhi nel vuoto.
Il
cuore che pulsa.
Pompa
sangue.
Veloce.
Sempre
più.
Di
più.
Ancora
di più.
Vista
appannata.
Formicolio
sotto tutta la pelle.
Bocca
che trema.
Dolore.
Malessere.
Sofferenza.
Testa
che esplode.
Confusione.
Caos.
Instabilità.
Scivolare.
Giù.
Affondare.
Giù.
Ancora.
Sempre
di più.
Senza
arrivare.
Panico.
Agitazione.
Angoscia.
Un
nome.
Tsubasa.
Una
sillaba.
No.
Bruciore
sugli occhi.
Sfugge
dalle mani.
Cosa?
La
vita.
Cosa
fare?
Si
può impedire?
No.
Aiuto.
Chiederlo
con la mente.
Voce
sparita.
Parole
bloccate.
Svanire.
Dove?
Svanire.
Dove?
Nel
buio.
Nel
nero.
Nell’oscurità.
Senza
vedere una via d’uscita.
Simbiosi
con lui.
Colui
a cui tieni di più.
Saperlo.
Dirselo.
Amarlo.
E
svanire nel nero con lui.
Perdita
di sensi.
A
chi glielo avrebbe detto non ci avrebbe creduto. Come sarebbe potuto
tornare tutto come prima?
Aggrapparsi
a quell’incertezza scritta nel telegramma era normale ed
obbligo,
ma se poi avrebbe scoperto che sarebbe stato
inutile…bè, lì.
In quel momento…che avrebbe fatto?
Il
corpo del ragazzo da un corporatura media era steso a terra svenuto,
sostenuto al volo da un passante che gli era stato proprio dietro in
quell’istante.
Chi?
Chi
era?
Quando
questi lo chiamò preoccupato a gran voce mostrando la
propria
agitazione come poche volte nella sua vita aveva fatto, notò
solo lacrime che scendevano dai suoi occhi.
Durò
poco la perdita di sensi, li riacquistò subito, quando
aprì
lentamente i suoi occhi ancora offuscati, pieni di lacrime, il
ragazzo ebbe un brivido.
Non
era un semplice malessere.
Qualcosa
era andato storto.
-
Misaki…Misaki, dimmi che è successo? -
In
risposta Taro nascose il volto nel palmo di una mano mentre
l’altra
si aggrappava istintivamente all’amico che aveva riconosciuto.
Pensò
che almeno era successo con una persona conosciuta.
Almeno.
Ma
fu un magra consolazione.
Non
avrebbe parlato. Non sarebbe riuscito a parlare se non per dire il
suo nome, il nome della persone a cui teneva di più, che gli
era entrata nel cuore da quel tempo in cui erano bambini ed ogni
sciocchezza era di vitale importanza, dove con spensieratezza ed
energia affrontavano e superavano ogni ostacolo.
Come
superare questo?
Pierre,
il nome del ragazzo che l’aveva raccolto, si
guardò intorno
per vedere se qualcuno poteva essergli d’aiuto e fu
lì che
trovò la lettera. La raccolse ma non capendo il giapponese
cominciò a preoccuparsi.
Capendo
che un telegramma dal Giappone non era normale, specie considerando
la reazione di Taro e che c’era di mezzo Tsubasa.
Lo
alzò seduto e prendendolo per le spalle cominciò
a
scuoterlo leggero, senza violenza ma con una certe preoccupazione.
-
Misaki, che è successo a Tsubasa?-
Glielo
chiese ripetutamente mentre tutto quello che sapeva fare
l’altro
era continuare a piangere. Quando finalmente glielo disse in un
mormorio disperato, Pierre sentì un pugnale.
Veramente
i sogni potevano infrangersi così facilmente?
I
sogni, una vita…tante…un cambiamento per una
persona spazzava
anche il resto, tutte le persone circostanti.
Consci
tutti che mai sarebbe potuto essere come prima. Nulla.
Mentre
il fato continuava a beffarsi della perfezione rubata.
Per
sempre.
Ed
un sorriso radioso, dolce e sincero che non sarebbe tornato nelle
labbra sue labbra per molto tempo.
La
luce l’accecò appena aprì gli occhi
dopo il buio che
aveva avuto. Vi era precipitato improvviso ed inaspettato dopo un
dolore acuto da far impazzire i sensi.
Solo
il caos si era preso la briga di avvolgerlo come una coperta materna.
Aveva
viaggiato in un luogo dove il tempo e lo spazio erano indefiniti, una
specie di sonno tormentati dove nemmeno il corpo esiste. Senza
sentire nulla se non inquietudine ed angoscia.
Quando
li riaprì i suoi occhi neri vide la luce e li richiuse, si
sentì bruciato da essa, beffeggiato. Poi realizzò
a
fatica che si trattavano solo di lampade al neon. Non c’erano
in
casa sua. Dove era?
Era
tutto rintronato e il corpo lo sentiva pesante ed indolenzito,
l’anestesia non gli faceva ancora sentire i dolori come
avrebbe
dovuto.
Sentì
una voce ovattata che lo chiamava, quando girò la testa
nella
sua direzione vide sua mamma con le lacrime agli occhi e poco
distante, nello stesso stato, la sua manager, Sanae.
Fece
per parlare ma la voce non gli uscì nemmeno, solo allora
sentì
il tubo che aveva in gola, per respirare. La mano della donna si
posò
sulla sua fronte carezzandola, gli scostò i capelli e
dolcemente parlò:
-
Sst, non parlare ancora. Ora arrivano i medici a spiegarti tutto, ti
toglieranno quel tubo dalla gola e potrai parlare. Presto
l’effetto
dell’anestesia sparirà e ti sentirai male, ma sta
calmo. Ti
starò accanto. Tuo padre arriverà a giorni.-
Tsubasa
la guardò stralunato ed interrogativo. Non capiva proprio
cosa
fosse successo, la sua memoria si fermava quando il pallone gli era
sfuggito dai piedi e lui aveva attraversato la strada per prenderlo.
Anche
se un vocina gli suggeriva la risposta non voleva dirselo.
Aspettò
e quando lo udì preferì non essersi mai svegliato.
-
Sei stato investito da un auto. Eri molto grave, ti hanno tirato di
qua per i capelli…-
Al
momento di procedere si fermò. Non ebbe il coraggio di
dirgli
altro, di dirgli delle sue gambe.
Quando
i medici lo fecero per lei dandogli la notizia ormai sicura, il cuore
mancò di un battito nella macchina accanto. Chiuse gli occhi
e
sperò che la morte lo prendesse.
Chiaro
e netto il desiderio. Senza esagerazioni.
-
Non potrai più camminare, la tua spina dorsale è
stata
lesa. Sei paralizzato sulle gambe, Tsubasa. Abbiamo fatto il
possibile, ci dispiace…-
Sogni
infranti, una vita interrotta ed il desiderio continuo di sparire in
quella voragine nera che si apriva davanti a lui. Tutto quel che
vedeva.
Solo
quello.