Frammenti
CAPITOLO
III:
RAGAZZO
NON PIANGERE
'
E poi è così... il mondo crolla quando la vita
pare
essere perfetta e giusta. La crudeltà, tuttavia, non
è
la tragedia in sé, ma il dover andare avanti nonostante
tutto,
con l'obbligo di mascherare lo strazio del tuo animo in pezzi.'
C'era
qualcosa nell'aria da quando lei se ne era andata. Non doveva
esserci. Non ce n'era motivo.
La
principessa della piccola ma conosciuta monarchia era andata in
vacanza da pochi giorni e non si sarebbe trattenuta poi molto. Aveva
guardie del corpo. Nessuna preoccupazione.
Eppure
i suoi figli, specie il maggiore, avevano sentito dal primo momento
della sua partenza che non sarebbe dovuta andare.
Era
quindi nell'aria l'inquietudine che William continuava a portarsi
dentro senza mostrare a nessuno.
Nonostante
la morsa continuava la vita prescritta da qualcuno di competente
senza preoccuparsi di cercare qualcosa che piacesse a lui.
Era
consapevole della sua posizione, inoltre era giovane e certamente non
poteva dire no a qualcosa che non gli andava bene. Non ancora.
Però
gli stava bene. Tutto. Era una vita che gli andava a genio, a parte i
riconoscimenti ovunque andasse e l'esaltazione del suo ruolo di
principe.
Per
il resto gli stavano bene le routine, le lezioni, gli obblighi che
gli imponevano, le regole, il tenore di vita, i doveri... la vita che
doveva condurre...
Si
ripeteva sempre che era forte, aveva spalle larghe e sapeva reggere
ogni cosa, pressione, aspettative, gelosie, invidie, impegni. Tutto.
Nulla
lo toccava e affrontava quel che si poneva sul suo cammino sempre con
lo spirito giusto riuscendo al meglio in ogni cosa.
Era
perfetto.
Il
Principe ideale.
Non
lo sbruffone classico viziato che ci si potrebbe aspettare. Cresciuto
in quel certo modo era facile che diventasse un bambolotto
insopportabile ma lui non lo era, sapeva stare al proprio posto e
cosciente del suo ruolo adempiva ai compiti. Gli piaceva.
Si
ripeteva sempre anche questo. Se lo ripeteva così da tanto e
con così tanta convinzione che ormai sembrava proprio il suo
reale pensiero e volontà.
Veramente.
Era
lui così, non gli era stato inculcato da nessuno, o meglio
l’avevano cresciuto così ma aveva accettato di
buon grado
ogni insegnamento facendoli suoi, al contrario di Andrew che
nonostante avesse condotto la sua stessa identica vita, sembrava
proprio non volerne sapere di farsela andar bene.
La
sua natura era nobile come il suo animo e da un certo momento in poi
l'avrebbe dimostrato maggiormente.
Molti
non lo capivano, fra la gente comune ma anche fra gli aristocratici.
Erano in tanti convinti che la sua fosse una posa, una finta, quella
che tutti i principini hanno. Pareva snob e viziato.
C'era
però anche da dire che uno così difficilmente si
riusciva a conoscere a fondo da poter dire che non era montato con la
puzza sotto il naso.
Cosa
fosse vero di lui solo la madre poteva certamente saperlo.
Nessun’altro. Nemmeno il fratello.
Succedeva
ogni mille anni, forse, che ne nascesse uno proprio dove doveva
nascere e che egli fosse perfetto per il ruolo che gli era stato
assegnato. Prendere le strade giuste per diventare quel qualcuno
prescelto da eletti.
A
lui era capitato ed era incredibile.
Era
pomeriggio inoltrato ma il cielo privo di nuvole presentava il sole
che lento scivolava dietro le case all'orizzonte. Si stava bene, non
era ancora freddo e si passava bene tutta la giornata senza giacca.
Vestiva
con dei semplici jeans di marca, una camicia azzurra ove i primi
bottoni erano aperti e sopra un maglione dal collo largo a V di
qualche tessuto rinomato per le mezze stagioni, blu scuro.
Attendeva
che l'autista lo venisse a prendere per andare a lezione di nuoto. La
faceva proprio nell'ora precedente alla cena per poter avere almeno
la sera libera; prima di quello aveva fatto pianoforte. Non ne aveva
più bisogno tuttavia gli piaceva seguire le lezioni di
quello
strumento, lo rilassava e non erano ogni giorno, come non lo erano
quelle di nuoto. Si alternavano a quelle di equitazione, scherma,
disegno e ultimamente anche arpa. Era uno strumento più che
altro femminile ma sempre da nobili e a lui affascinava molto.
Inoltre era lo strumento preferito da sua madre, lo suonava
divinamente. Aveva iniziato ad imparare con la donna ed ora avevano
preso un insegnante apposita.
Aveva
una vita piena di impegni e frenetica, considerando anche la scuola
che volevano fargli fare come tutti gli altri c’era da
chiedersi
dove avesse il tempo per vivere la sua adolescenza...
Però
tutto quello gli stava bene. Ogni cosa che faceva, anche se solo per
poco, gli riusciva bene e gli piaceva sinceramente.
William
era incomprensibile per il fratello. Andrew non faceva nulla di tutto
quello e anche se lo forzavano gli riusciva male, per cui ancora
qualche tentativo i genitori lo facevano, ma senza successo. Lo
studio non andava benissimo e pareva sempre più attratto da
sport estremi che ancora non aveva avuto il coraggio di provare.
Gli
serviva un incentivo che presto sarebbe arrivato.
Andrew
non era col fratello, quel pomeriggio.
Fuori
dall'edificio del maestro di pianoforte, costoso e spazioso,
attendeva nel grande giardino spazioso coperto di erba verde, che
qualcuno lo venisse a prendere.
Era
strano che non fosse già arrivato, solitamente erano sempre
puntuali. Era pericoloso far aspettare i principi da soli, pericoloso
per la loro incolumità.
Non
sembrava annoiato, il ragazzo. Guardava il cielo con una certa
inquietudine che nelle ultime ore era cresciuta sempre più.
Difficilmente
mostrava nervosismo, non era tipo, non rivelava mai nulla di quel che
provava realmente, non mostrava niente. Era serafico e indecifrabile,
tutto qua.
Poteva
avere il mondo apocalittico dentro, sarebbe rimasto sempre composto.
Freddo, se lo si voleva definire così, ma più che
altro
composto e pacato.
Cosa
aveva dentro? Un cuore che batteva in modo leggermente irregolare,
una mente che cercava di razionalizzare la mancanza che provava, del
sangue che correva lungo tutto il corpo troppo frenetico, dei muscoli
tesi.
Infine
un tuffo. Lo stesso che aveva avuto quella notte.
Il
ricordo del sonno notturno interrotto improvvisamente da un
inspiegabile dolore acuto al petto, un urlo partito nel sogno e
sudore freddo in tutto il corpo. E poi guance umide di un pianto
disperato che solo nell'oblio del sonno era uscito.
Al
risveglio non aveva ricordato cosa aveva sognato però non
era
più riuscito ad addormentarsi, il malessere dello spirito si
era espanto fino al fisico e non gli aveva più permesso di
chiudere occhio.
Non
l'avrebbe mai ammesso ma quello che aveva provato era dolore per la
paura, paura della mancanza. Paura di sapere cosa sarebbe successo da
lì in poi.
Cercò
di distrarsi. Lì in un angolo c'era una vecchia palla da
calcio, era sporca e rovinata, lasciata probabilmente da qualche
bambino. Prese a palleggiare assorto, non pensava realmente a quel
che faceva eppure come per ogni cosa,anche quello gli riusciva
piuttosto bene. Piede, ginocchio, piede ginocchio…
Continuò
per un paio di minuti con un ritmo calmo ma serrato, finché
non suonò il cellulare, senza interrompersi rispose e il
cuore, chissà come mai, martellava più veloce.
Come se
il rumore del cuoio sulla scarpa dettasse i battiti interni.
-
Pronto? -
Ansia...
-
Will... sono io... -
...
crescente...
-
Papà... -
...
sempre più...
-
... la mamma...-
...
dolore...
-
Cosa è successo alla mamma? -
...
smorfia...
-
Laggiù... ha avuto un incidente... -
...
la palla dimenticata...
-
... -
...
cadere in ginocchio...
-
Era grave... -
...
un peso spropositato sulle spalle...
-
... -
...
rimanere schiacciato...
-
William... -
...
toccare l'erba con i ginocchi ed una mano...
-
... tua madre è morta... -
...
affondare il volto nell’erba...
-
Will... -
...
dimenticare di essere vivi...
-
... mi dispiace... -
...
cuore che salta un battito...
Lento,
indefinibile. In sequenza si era inginocchiato a terra e senza
rendersene conto, con i sensi che si amplificavano per poi
abbandonarlo improvvisamente, con una smorfia impressionante sul suo
volto levigato e nobile, si era accucciato, rannicchiato sul prato
nascondendo il volto nell'erba fra le braccia, col cellulare
dimenticato ancora all'orecchio e la bocca aperta in un urlo che non
riusciva a venir fuori.
Gelo.
Sangue che non circola, cuore che non batte, mente che non connette.
Mondo
che non esiste.
Dolore
che esplode.
Troppo.
Forte.
Assoluto.
Morte.
Morte.
Morte.
Non
respirava, non riusciva più. Forse qualcuno lo vide, forse
qualcuno udì... forse qualcuno intuì o magari
immaginò
che insieme alla voce sparita scesero calde lacrime salate a rigargli
il volto d'arte.
Forse,
ma chissà.
Tuttavia
se l'anima fosse stata palpabile in quel momento sarebbero state
curve in mille pezzi, piccole e frastagliate, poi fitte, poi larghe
ma tante di colori che graffiavano e scemavano fino a scolorirsi in
uno sfondo completamente nero.
Sfuggendo
in un finale di totale rosso sangue, rosso cuore, rosso dolore.
Rosso
anima spezzata.
Come
l'anima svanita della persona più importante per lui.
Un
urlo silenzioso senza voce uscì dalla bocca spalancata nella
posa dell'Urlo di Munch, solo su un volto nascosto avvolto dall'erba
e dalle braccia.
Tutto
finendo in un nero totalizzante, avvolgendolo nel buio assoluto.
La
principessa erede al trono era morta.
Aveva
lasciato un marito col quale ormai stava divorziando, un marito che
l'aveva rovinata e fatta soffrire, e due figli che amava più
di sé stessa, che a loro volta l'amavano.
Era
nella sua camera annoiato, il giovane principe, il secondogenito del
principe e della principessa.
Solo
in privato nella sua stanza si permetteva di ascoltare della musica
per provare ad essere quel che voleva, una persona qualunque.
Cominciava
a sentirci gusto in quel genere che un compagno di classe gli aveva
proposto di nascosto. Si trattava di metal, l'aveva chiamata
così.
Steso nel letto si rigirava la custodia del CD fra le mani noncurante
della lezione di
‘non-si-ricordava-più-cosa’ saltata.
Leggeva alcuni titoli: ‘Fade to black’,
‘Nothing Else Matters’,
‘I disappear’ ‘Seek and
Destroy’, ‘Turn the page’ e molti
altri. Era una raccolta dei Metallica, un po' di rito per chi voleva
convertirsi al genere.
Ad
un tratto sentì bussare alla porta, leggermente seccato fece
entrare, era una delle cameriere che lo pregava di andare in studio
ove suo padre l'attendeva.
Ci
andò svogliato senza fermarsi a riflettere sul fatto che
effettivamente non era normale essere convocato dal padre in quel
modo: quell'uomo aveva sempre cercato di evitarli accuratamente.
Percorso
tutto il palazzo entrò nella stanza senza bussare o farsi
annunciare, non lo faceva mai, non lo riteneva opportuno. Rimase
però
in silenzio a vedere e ascoltare il padre in piedi con la schiena
alla porta, stava parlando al telefono con qualcuno. Sentì
le
ultime parole.
-
William... mi dispiace... -
Lo
vide stare in silenzio e subito la sensazione agghiacciante sulla sua
pelle lo bloccò all'istante. Ogni funzione del suo organismo
cessò di proseguire, come un blocco di ghiaccio.
Perché
a suo fratello gli stava dicendo una cosa simile?
Dopo
un attimo interminabile nel quale cercò di parlare ancora
col
figlio maggiore, invano, riattaccò il telefono poi
immediatamente gridò un ordine ad una delle sue segretarie.
-
MANDATE QUALCUNO A PRENDERE SUBITO WILLIAM, PERCHE' E' ANCORA LA'? -
Non
si era ancora accorto della presenza di Andrew, sembrava agitato,
molto.
Anche
questo stonò nell'osservarlo.
Dalla
porta ancora aperta entrò una delle persone al servizio del
principe Alberth che timidamente si inchinò sussurrando:
-
Maestà, subito, ma qua è tutto in confusione e
fermento, non si riesce a rintracciare le persone giuste. L'autista
del signorino non lo troviamo... -
-
ALLORA VAI TU A PRENDERLO! -
Ancora
senza voltarsi. Cercava di riprendere il controllo di sé,
controllo che raramente perdeva per il semplice fatto che non si
metteva mai in mezzo a situazioni tali da farlo uscire di testa.
Evitava le questioni difficili e complicate appunto per quello ma ora
ci si era trovato in obbligo.
La
porta fu richiusa dalla donna e l'uomo vestito di tutto punto si
premette gli indici alle tempie, in un massaggio circolare per
cercare un po' di calma.
-
Non dava più segni di vita, non si sentivano singhiozzi o
urla. Nulla di nulla. Non parlava più. Non si
sarà mica
sentito male? -
Un
sospiro preoccupato.
Andrew
silenzioso era più che sorpreso, gli pareva di stare davanti
ad un estraneo. Cioè, più del solito.
Ora
proprio non lo riconosceva.
Tutta
quella preoccupazione dove l'aveva messa fino ad ora?
E
poi... suo padre così fuori di sé non l'aveva mai
visto, nemmeno quando sua madre l'aveva scoperto a tradirla tramite i
giornali scandalistici. Nemmeno in quell'occasione era stato capace
di far qualcosa. Completamente senza spina dorsale, dalla nascita.
Ora
invece era del tutto diverso, che era successo?
Il
sangue scorreva in lui sempre più veloce e
l’espressione al
contrario di faceva sempre più di ghiaccio.
-
Padre. -
Mormorò
consapevole di dover fare attenzione, molta attenzione.
A
cosa?
A
quello che avrebbe saputo.
-
Cosa è successo a William? -
Aveva
un tono di voce titubante e poco convinto ma allo stesso tempo
robotico. Non era William ad aver creato tutto quello, vero?
L'uomo
si voltò mostrando un volto segnato seppur non bello, anzi.
Non sembrava un principe a guardarlo, invece era l'erede al trono.
Basso, mingherlino, mostrava più anni di quanti ne avesse.
-
Andrew... -
Non
sapeva come dire quello che doveva dire, lo capì subito
guardandolo direttamente in viso.
L’uomo,
dal canto suo, realizzò che se per William non aveva avuto
idea della reazione, per Andrew era ancora peggio.
Nella
fase adolescenziale in cui il giovane dai capelli rossi si trovava,
era difficile affrontare ogni argomento, figurarsi quello
dell'improvvisa morte della madre.
Si
diceva, no? L'adolescenza è delicata, un forte trauma
potrebbe
segnarlo per sempre.
Una
ruga, l'ennesima, solcò la fronte già preoccupata
dell’erede al trono.
-
... non è William a cui è successo qualcosa... -
Era
una persona con poco tatto e sensibilità, piuttosto egoista
e
viziato nel complesso, abituato ad avere il capriccio del momento,
specie le donne, non ce l'avrebbe mai fatta ad affrontare un
argomento simile.
Intanto
nel ragazzo cresceva sempre più smisurato un sentimento
forte
nei confronti del padre che non riusciva a dire una notizia
importante in modo decente.
Sentiva
troppo e tutto si ricollegava ai presentimenti e nervosismi di quei
giorni.
-
Tua madre... ha avuto un grave incidente. -
Spalancò
gli occhi verdi che nella sua carnagione tipica dei rossi, tutta
lentigginosa, spiccavano deliziosamente.
Lo
sapeva. Sapeva cosa sarebbe venuto dopo ma non aveva il coraggio di
farlo. Di dirlo. Non era William che impavido riusciva a dire quel
che doveva dire al momento giusto nonostante fosse doloroso. Lui non
ci riusciva per cui lo lasciò terminare.
-
E’ morta, Andrew. -
Si.
Era vero.
Dannatamente
vero, se lo sentiva. Era proprio quello che non aveva nemmeno avuto
il coraggio di pensare, eppure rifugiarsi in una negazione infantile
era appropriato per un ragazzino di 13 anni.
Il
ghiaccio si mutò in pietra e sul suo volto dai lineamenti
squadrati e poco eleganti ma comunque di un ragazzino, non una
smorfia, non un segno che indicasse il suo dolore. Nulla.
Completamente
diverso.
Non
crollò a terra, non si piegò al peso che sentiva
sulle
spalle.
Rigido
come non mai rimase dritto in piedi stringendo i pugni lungo i
fianchi, si ripeteva in continuazione le parole appena udite.
Sua
madre era morta.
Morta.
Non
c'era più, non l'avrebbe più vista, non le
avrebbe più
parlato, non l'avrebbe più sentita suonare. Nulla.
Mai
più un bacio, mai più affetto.
Cercò
di elencarsi velocemente tutti i cambiamenti, le conseguenze, i
fatti, i pensieri però nessuna reazione arrivò.
Con una
forza ferrea fuori dal comune strinse le labbra, assottigliò
gli occhi e contrasse il suo cuore in una morsa dove sarebbe rimasto
per molti anni.
Voleva
solo sparire da quella stanza soffocante ove perfino i sensi lo
aiutavano a rimanere attaccato a quella realtà. Lui ci
voleva
scappare, eppure era saldo lì.
Si
maledì per l'insensibilità di cui era padrone,
poi
senza dire nulla uscì dalla stanza camminando incerto come
un
fantasma che non capisce se è morto oppure no.
Sorpassò
la servitù e le persone che frenetiche andavano e venivano,
lo
sfioravano, lo toccavano per sbaglio... lui era come se non ci fosse.
Proseguendo con passo calmo e lento arrivò in camera sua,
aumentò al massimo la musica lasciata aperta rendendola
assordante, si sedette sul letto e guardando nel vuoto come se fosse
semplicemente avvolto nel silenzio più totale, privo di
espressione o pensieri, ne realizzò soltanto uno:
-
Per telefono... glielo ha detto per telefono... quell'uomo è
terribile… ed ora ci sarà solo lui... -
Lasciò
la frase in sospeso immaginandosi la reazione terribile del fratello
per accantonare la sua insolita, infine premendosi i palmi sulla
fronte mormorò con un inclinazione un po' più
umana:
-
Mamma... ed ora? -
Ma
non aveva ancora realizzato.