STORIE DI TUTTI I GIORNI


CAPITOLO 8:
NE BUONI NE CATTIVI

/ Cleanin out my closet – Eminem /

Le note ritmate e incessanti di Eminem uscivano dal piccolo stereo che aveva visto tempi migliori, l’ossigenato cantante sparava rime con la sua voce che sapeva essere bassa oppure urlata come lui voleva, ad ogni modo sempre rabbia usciva. Rabbia in un fiume di parole che accusavano o deridevano.
A Marco piaceva molto l’hip hop, era il genere musicale più vicino a lui, quelle canzoni raccontavano storie vere, realistiche, dure, dolorose. Non erano fiabe o parole d’amore, era solo realtà di strada. La parte sporca del mondo, quella da dove veniva lui.
Cleanin out my closet vibrava ad un volume non molto alto.
Voleva parlare. Anzi. Ascoltare.
Andrea era seduto nel divano scassato del piccolo appartamento del moro, con cui ancora non andava d’accordo.
Era strano, però. Da quando erano lì non si erano ancora picchiati.
C’era un aria pesante. Aria di confidenze importanti e dolorose.
Entrambi la sentivano, ma in cuor loro, anche se non l’avrebbero mai ammesso, ne sentivano il bisogno di dirle tutte, le cose che si portavano dentro da un po’. Non vedevano quasi l’ora, peccato che erano troppo orgogliosi per iniziare senza che l’altro lo chiedesse.
Un incentivo.
Il biondo spettinato di proposito secondo il suo look personale, teneva il borsone ai piedi aperto, non aveva preso ancora nessun libro, non avevano nemmeno idea dell’argomento che avrebbero dovuto affrontare. Nulla. Il compito detestato era lontano.
La canzone era appena iniziata e il ragazzo che non ascoltava quasi mai il giovane rappar, si concentrò sulle parole con finto interesse. La verità era che già dal primo verso l’aveva colpito e spinto ad ascoltare il resto, cercava di tradurre mentalmente le parole che ascoltava. Forse perché quello poteva essere l’incentivo che cercavano.
Soprappensiero si mise a ripetere ad alta voce, con finta ironia, la traduzione che faceva di quel che captava e gli interessava, non tutta la canzone, solo qualcosa, quello che riusciva a capire nella velocità delle rime e dei versi.
Marco, appoggiato alla parete vicino allo stereo, tuttavia, fece un’attenzione maniacale a quelle parole che sapeva non essere una presa in giro per uno dei suoi cantanti preferiti.
- Sei mai stato odiato o discriminato? Io si … -
Sempre lui con un volto seriamente concentrato che tentava di essere il solito strafottente:
- … le emozioni scorrono profonde come un oceano che esplode … -
Ed ecco il ritornello:
- … mi dispiace mamma, non volevo farti soffrire, non volevo farti piangere, ma stanotte sto pulendo il mio armadio … -
Veloce e attento, lo faceva spesso con le canzoni e l’inglese lo parlava come seconda lingua. Marco fu impressionato anche da questo lato che lo ritraeva solo ancor più perfetto. Il fatto che Andrea traducesse non era per dare di sé un immagine tale, tanto meno voleva farsi bello agli occhi del rivale, semplicemente aveva voluto farlo e l’aveva fatto. Perché lui non sempre ragionava, si capiva!
- … ho alcuni scheletri nell’armadio, non so se qualcuno lo sa, quindi prima che mi buttino nella bara voglio dirli … -
Assottigliò gli occhi neri che sembravano senza pupilla, li fece attenti. Quella canzone non era una qualunque.
- Posso aver fatto degli errori ma sono solo umano, però sono uomo abbastanza per affrontarli oggi, quello che ho fatto è stato stupido, nessun dubbio che sia stato sciocco … -
Non lo era. Come chiamata da qualcuno, la canzone non era capitata lì per caso.
Marco appoggiò il capo al muro dietro di sé guardando il soffitto senza vederlo, continuò ad ascoltare il resto.
- E’ la mia vita, voglio darvi il benvenuto all’Eminem show … -
Ascoltava i pezzi e li traduceva alla velocità della luce con un acutezza e concentrazione apparentemente sempre casuali, fatte per non annoiarsi, poi dopo aver tradotto il pezzo riascoltava altri versi e traduceva anche quelli. Era anche quello un ritmo dettato dal tempo di quella musica.
- Prendetevi un secondo per ascoltare, chi voi credete che questo disco stia insultando? Mettevi nelle mia posizione … -
Con un reale interesse, dentro di sé, che se non ci fosse stato non avrebbe proseguito fino alla fine.
- … quello che mi fa più male è che non vuoi ammettere di aver sbagliato … -
Veniva da chiedersi come mai, se lui stava riuscendo ad ammetterlo, perché la madre no? Che donna era? Andrea strinse i pugni sulle cosce dai jeans attillati neri pieni di fibbie. Anche sua madre era così, no? E lui era come il protagonista della canzone …
- Ricordi quando Ronnie è morto e tu dicesti che avresti voluto che fossi io al suo posto? Be', indovina un po', sono morto, più morto che mai per te … -
Poi ancora il ritornello dopo un finale che lasciava leggeri brividi per la durezza e la rabbia con cui aveva urlato cose così ‘brutte’.
- … mi dispiace mamma, non volevo farti soffrire, non volevo farti piangere, ma stanotte sto pulendo il mio armadio … -
Quello che avrebbero dovuto fare anche loro.
Arrivò un attimo di silenzio, poi si tornò riempire con un’altra canzone.
Andrea se ne rese conto. C’era dell’incredibile nella canzone che casualmente si erano messi ad ascoltare. Eminem, che interesse avrebbe dovuto avere il metallaro per tradurre un suo brano, anche solo qualche verso?
Così. Aveva sentito di doverlo fare.
Non guardò il ragazzo ancora in piedi dietro di sé. Non si mosse, rimase a fissare il pavimento contraendo le mascelle. Un uomo che sbaglia e fa un sacco di cavolate ma che ha sofferto, poi riesce ad ammettere i suoi errori e ad affrontarli per il bene di qualcuno che gli sta acanto per amore. Uno così è solo da ammirare.
Il problema erano le ammissioni, le parole, la verità.
Lui viveva in un ipocrisia assurda ed irrespirabile.
Magari si sarebbe stufato, però per stufarsi doveva anche parlarne.
Ora, dopo mesi, sentiva il bisogno di tirare fuori l’argomento senza che glielo chiedessero.
Non si chiese perché con lui, con Marco. Era lì e basta.
- Ognuno ha un armadio da pulire, vero? -
Gli rispose il silenzio.
Il moro non gli avrebbe chiesto nulla, eppure lui doveva.
- Prima ho detto quelle cose a mia madre … -
- Non sei obbligato. -
Brusco e musone ma diretto, l’altro lo interruppe.
- E’ ok, va bene. -
Si passò le mani fra i capelli portandoli totalmente all’insù, scoprendo la fronte lievemente corrugata appoggiò la nuca allo schienale del divano decisamente scomodo.
- Alla fine non c’è molto da dire, sai … non sapevo come iniziare, ma in fin dei conti è solo successo che un anno e mezzo fa i miei sono impazziti e sclerando di brutto mi hanno fatto una scenata sul basket che dovevo mollarlo per impegnarmi nello studio e avere un altro tipo di carriera, non sportiva. Io allora mi impuntai, non capii. Mi dissero che mi avevano sempre lasciato fare perché ero piccolo, ma ora che ero grande dovevo diventare responsabile e lasciare perdere le sciocchezze. Io non ci stetti, diedi contro a loro in tutti i modi, ma non ragionavano. Scoprii il loro vero lato. Loro sono i classici ricconi, puzza sotto il naso, snob, carriera e soldi e perfezione per tutti. Così mi sono stufato ed ho deciso di assecondarli. Ufficialmente per loro sono diventato quel che vogliono, in realtà sono così poco presenti nella mia vita che non hanno capito che è da un anno e mezzo che fingo e li prendo in giro. Sono l’esatto contrario di quel che vogliono e mostro. Non me ne importa. Loro stanno bene ed io anche. Non dovrò vivere con loro per sempre … -
Si interruppe. Aveva parlato abbastanza, alla fine, ed ora si sentiva leggero. Stupido dirlo, ma era così. Non pensava con chi aveva parlato, non pensava proprio. Stava solo meglio perché era veramente da troppo tempo che teneva tutto chiuso in un idea finta che andasse tutto bene.
Era solo un gran bugiardo, il primo fra gli ipocriti.
- Non dici nulla? -
Voleva sapere, tuttavia, che ne pensava. Non perché era Marco il rivale col quale si era appena confidato in un momento di debolezza, semplicemente perché odiava il silenzio e quello era così pesante; detestava scoprirsi fino a quel punto. Come diavolo riusciva quel tipo strano a tirargli fuori il suo vero lato?
- Cosa dovrei dire? -
- Qualcosa! -
- Pensi di continuare a fingere in eterno? Qualcuno conosce il vero Andrea? Cioè, ti rendi conto di essere un Andrea a casa, un altro a scuola e in ambiente pubblico in generale, ad un altro ancora dentro di te in privato? Non diventerai schizofrenico? -
Reazione schietta, in fin dei conti. Molto più apprezzabile di una leccata di didietro come molti facevano per non ferirlo.
- Kim … e gli stretti del mio giro. Loro lo sanno … -
Rispose solo a quella domanda. Al resto non sapeva che dire.
- Tu non sei molto sano. Non si tratta di ipocrisia o carogneria. Sei uno stronzo per molti motivi, ma ancor di più ti fingi una persona intelligente che non sei. Hai intenzione di mollare col basket dopo le superiori? -
- No! -
Subito d’istinto la negazione. Assoluta.
- Il basket è il mio vero sogno, il mio obiettivo, ciò che voglio fare nella mia vita perché so che ho le capacità. Non so che fare senza, non sono più io, non valgo nulla senza. -
- Non è vero e lo sai, non sono io a dovertelo dire, ma non è questo il punto. Tu vuoi fare solo quello che vuoi contro tutto e tutti, fregandotene delle etichette e delle apparenze. Ma cosa ti blocca? Non mi importa. Sappi che non puoi fingere in eterno, allora o dici come stanno le cose e affronti la realtà per poter vivere il tuo sogno, come dici che è, oppure rinunci letteralmente a vivere. Cioè non è che ti devi suicidare, ma non hai idea della vita che avrai se continui così. -
Si zittì rendendosi conto di aver parlato troppo, dispensare consigli e pareri non era da lui, ma gli era venuto spontaneo, inoltre glie aveva chiesto che pensava.
Non si guardavano ancora, Andrea stava in silenzio, gli pesavano quelle parole.
Tese i muscoli e contrasse la mascella, avrebbe voluto prenderlo a pugni. Aveva detto troppe verità e lo detestava per un motivo in più. D’altronde glielo aveva chiesto lui di dire qualcosa.
Non sapeva cosa dire ma non aveva intenzione di stare in silenzio senza reagire come un bimbo delle elementari che viene sgridato dalla mamma.
Non sapeva nemmeno lui che voleva, ma si alzò di scatto e lo guardò dritto negli occhi col divano che li divideva e la musica hip hop ancora nell’aria. Lo sguardo scuro color notte profonda senza stelle e luna si piantò prepotente e severo, nonché scocciato, in quello chiaro color cielo al mattino con un sole alto che da fastidio il solo guardarlo.
- Marco, non ho certo bisogno di sentirmelo dire da te … -
Lasciò la frase in sospeso sprofondando le mani nelle tasche strette dei pantaloni, non sapeva come continuare. Voleva mostrare ira ma poi si rese conto dell’assurdità della cosa, che diavolo voleva da Marco?
In risposta il moro non distolse lo sguardo, rimase a rispondere con gli occhi penetranti su lineamenti duramente selvatici e grezzi.
- Pensi che io sia diverso da te? Parlo bene ma razzolo male. -
Introducendo così l’argomento più duro, per lui, cominciò a non respirare per ricordare quanto avrebbe dovuto dire.
Anche lui, come Andrea, non era costretto ma ne sentiva il bisogno, in quel preciso istante.
Perché aveva capito quanto uguali erano.
Non sapeva cosa voleva da Andrea, però sentiva che nell’aria qualcosa c’era ed era molto strano.
- Ti do dello stupido ignorante, ma lo sono anche io. Contraddittorio, vero? -
Non si mosse facendo in modo di essere guardato dall’altro ma di non guardare a sua volta.
Prese a raccontare con freddezza estranea allucinante.
- Sono cresciuto in un quartiere malfamato di una grande città. Famiglia povera. Avevo un fratello, era in gamba, l’unico che mi volesse bene, era il pupillo di tutti, perfetto in ogni cosa, grande campione di basket (mi insegnò lui a giocarci), il migliore nello studio. Stava diventando qualcuno, da solo, senza aiuti. Ci teneva su permettendoci di non suicidarci in massa. A lui abbiamo sempre dovuto tutto.
Io però vivendo in quel posto e patendo il complesso del fratello maggiore perfetto, ero entrato in un brutto giro da quasi subito, vissi la mia adolescenza in maniera squilibrata e pietosa. Ero in una banda, sai, quelle di teppisti che marcano il proprio territorio in certi modi. Facevamo piccoli furti, rubavano insomma, eravamo sempre in rissa, non facevamo nulla di nulla. Non ci interessava uscire da quel buco orrendo di posto tanto meno finire sui giornali o in carcere per una notte. Una vita dissoluta che ci stava bene. Tutto quello che una maledetta banda di teppisti può fare. Come tutte avevamo un sacco di nemici, ho fatto brutte cose, forse le facevo perché non pensavo di essere così legato a mio fratello.
Finii in seri guai. Il mio gruppo prese a far girare droga, fumavamo spinelli e mi fecero provare delle pasticche. Al momento di arrivare a qualcosa di più pesante rifiutai, così mi misero a spacciare facendomi scoprire un sacco di cose legate a quel dannato mondo. Mi stavo perdendo, ero in una cosa più grande di me e non sapevo come uscirne.
Provai ad oppormi, ma avevo una fama che puoi immaginare, non mi ascoltarono e per evitare che li mettessi nei guai vollero eliminarmi.
Subii diversi attacchi a cui sopravvissi per miracolo, poi mi chiusero in un posto fuori città dandogli fuoco. Mio fratello preoccupato mi aveva seguito e aveva visto tutto, entrò nel rifugio in cui ero chiuso e mi fece uscire. Io mi salvai procurandomi brutte cicatrici e bruciature, lui morì.
Davanti ai miei occhi, quasi fra le mie mani.
Fu qualcosa di terribile, osceno. Non so descrivertelo, ma solo lì capii che almeno da lui ero amato e l’avevo dannatamente ricambiato dando per scontato la sua eterna presenza. Mi aveva sempre tirato fuori dai guai, da lì in poi non l’avrebbe più fatto, nessuno l’avrebbe fatto. Capii che ero solo e prima di disperarmi per quello, mi disperai perché l’unica fonte di amore non c’era più ed era solo colpa mia. Provai l’istinto di buttarmi fra le fiamme per raggiungerlo.
Stavo per farlo ma la vigliaccheria mi fermò.
Svenni e quando mi svegliai in ospedale mi chiesero come erano andati i fatti, feci finta di aver scordato tutto, non sapevo cosa fare sul momento e non mi importava molto di quella gente. Il dolore di aver ucciso io stesso mio fratello, l’unico per cui contavo veramente qualcosa, continuava a bruciarmi inarrestabile. La mia anima fu incendiata insieme al suo corpo e caddi in una crisi profonda dove non mangiavo, non parlavo, non uscivo e non mi muovevo, nelle orecchie avevo solo le urla d’accusa schifate dei miei genitori che non volevano saperne di me. Era comico … nemmeno io volevo saperne di me … e quindi come avremmo fatto?
Assurdo. Troppo assurdo.
Finì che avevo tutto il mio quartiere contro, i giornalisti e la gente mi additavano come l’assassino di mio fratello, una grande persona, la mia stessa banda voleva finire l’opera ed io non volevo difendermi, non facevo nulla per salvare la situazione. Non volevo nemmeno denunciare nessuno.
In quello stato di fantasma trovai degli scritti di mio fratello, erano delle specie di sfoghi che parlavano di me, scriveva tutto quel che facevo e le volte in cui mi aveva tirato fuori dai guai. Si chiedeva cosa fare con me e le paure che aveva nei miei riguardi. Rimasi stupito e profondamente scosso … lui diceva delle cose bellissime di me che io stesso non mi sarei mai sognato di dirmi da solo. Poi vidi delle poesie e dei disegni, tutti con me come protagonista, la sua ossessione, la speranza di far di me il suo erede, la sua assoluzione, la sua prenotazione in paradiso. Provavo rabbia, una rabbia allucinante che cresceva sempre più. Per me e per lui, contraddittorie. Avevo appena capito che oltre ad essere un ottimo atleta e studioso era anche un artista e aspirante scrittore … avevo tagliato le ali ad uno che sarebbe sicuramente diventato qualcuno. Lì ebbi una violenta reazione, pensai che forse se mi toglievo la vita per lasciare che la sua anima sostituisse la mia nel mio corpo, allora sarebbe tornato a vivere. Era tutto quello che potevo fare per lui.
Ero allucinato poiché depresso, in quei casi esci di testa letteralmente, te l’assicuro; vedi, pensi e fai cose che normalmente non faresti, che sono fuori da ogni logica e l’assurdo è che le fai con convinzione. Arrivi a delirare in piena coscienza di te stesso.
Io lo feci e presi un tagliacarte che utilizzava per appuntire le matite che usava per disegnare. Gridai come un ossesso, lo chiamai a gran voce dicendo di venire lì davanti a me e prendere il mio posto, mi colpii con disperazione ceca. Pensa, da quanto ero sconvolto e non in me, non sentii nemmeno dolore. Non riuscii a morire, non mi ferii nessun punto vitale così semplicemente persi i sensi per l’emorragia. Mentre svenivo sentivo i miei che arrivavano grazie alla confusione che avevo fatto, però quel che ripetevo era solo il nome di Daniele, mio fratello.
Come una litania mi accompagnò anche nel mondo che potrei definire dei sogni.
Rimasi in coma per qualche giorno, fu lì che finalmente lo sognai. Venne veramente da me come avevo sperato, ma non per sostituire la mia anima fallita e tornare in vita, venne solo per dirmi che dovevo tornare a vivere e reagire. Mi disse molte cose, in realtà, che non starò a raccontarti, ma mi scosse, insomma.
Quando mi svegliai non ero quello di prima ma nemmeno quello che Daniele avrebbe voluto. Reagii e presi una decisione, ma non per me stesso, solo per lui. Non amo ancora la vita, non mi reputo degno di vivere io al suo posto e sicuramente non sono una persona facile, tanto meno felice. Sono solo diventato quello che hai visto, non certo un grande esempio da seguire.
L’unica fissazione che mi rimase dopo il mio risveglio fu un desiderio, quello di realizzare il sogno di mio fratello. Lui ne aveva due: sistemare me e rendermi un uomo e realizzarsi nelle sue passioni. Siccome per me essere uomo è essere come lui e lui è impareggiabile, ho rinunciato a questo sogno e mi concentro sulle sue passioni che, a loro volta, sono irrealizzabili per un inetto buono a nulla come me. Tutto quel che so fare è giocare a basket perché me l’ha insegnato proprio lui, così lo faccio.
Solo per lui.
Poi però laggiù era diventato invivibile e come se non bastasse i miei non volevano vedermi, non ce la facevano perché al suo posto, mi hanno sempre detto, avrebbero voluto fossi io a morire. Così vuoi per questo vuoi per la pericolosità che mi circondava mi spedirono qua da mia zia che lavora un sacco, è come vivere da solo. Mi dissero che era per me, che con certe cose non si scherza. In realtà era solo per loro. Non abbiamo mai avuto rapporto, ora so che non lo avremmo mai ma non mi interessa.
Voglio solo che mio fratello non si schifi di me e l’unico modo che ho per evitare tutto ciò è solo giocare a basket per lui.
Ora sono un ragazzo dai mille rimpianti, una vita da ricercato, notti passate in carcere, articoli su di me, nemici fra i giri brutti e tutto quel che si può immaginare di negativo! -
Finì di raccontare e i ricordi cessarono. Aveva parlato con calma e lentezza, con un fondo di chiaro rimpianto e mal contento nella voce, ad occhi chiusi ignorando il sudore che cadeva lungo il suo volto. Aveva provato uno strano pizzicolio sulla spina dorsale.
Era stato un parto dire tutto quello, mai interrotto da Andrea. Solo allora si rese conto di aver effettivamente parlato con qualcuno e solo quando realizzò quello, tornò a respirare e smise di sudare. Si rilassò totalmente puntando l’azzurro tempestoso dei suoi occhi coperti dai capelli scuri, in quelli notturni del biondo Andrea.
L’aveva guardato per tutto il tempo.
- Ora che dici, tu? -
Se l’aspettava la domanda fatta per lo stesso motivo di prima. Odiava quel silenzio.
Sospirò pesante ma non distolse gli occhi. Diretto e penetrante disse solo:
- Come dici tu, non sono il più indicato a dare consigli e pareri. -
Sapeva però che non sarebbe bastato.
- Dì qualcosa lo stesso … -
Fu una richiesta, non un ordine. Perché anche lui, ora, aveva bisogno di sentire delle parole di colui che superficialmente aveva indicato come suo nemico.
- Ti ricordavo tuo fratello, vero? -
Parlò con coraggio e schiettezza, senza paura del ragazzo morto, Marco lo notò e fu un punto che andò a suo favore. Specie perché ci aveva preso.
- Nessuno poteva essere come lui. Mi davi un fastidio immenso, ma la cosa buffa è che fino ad ora non me ne ero reso razionalmente conto. -
Ammise semplice, era stanco come l’altro di fingere o avere una certa facciata. Stanco di molte cose.
- Alla tua età sembri già vecchio. Non so che dirti, sii più leggero. È utopia, lo so, ma pensa che per tuo fratello stai facendo bene e se ti piace il basket allora pensa anche che divertendoti non fai un torto a nessuna anima preziosa. -
Alla fine il consiglio glielo aveva dato, ma a modo suo.
- Però sei anche molto immaturo, per nulla intelligente, proprio come pensavo. -
Cercò di alleggerire un po’ la tensione e la pesantezza del momento.
Non si arrabbiò, Marco, per quello.
- Il nostro problema comune è che siamo solo bugiardi e codardi, fingiamo di continuo senza avere le palle di non fuggire più. Dobbiamo solo affrontare la realtà. Tutto lì. -
Sapeva, Andrea, di non avere una situazione e un passato grave come il suo, ma di base la logica che valeva da lì in poi era uguale. Il pensiero, quindi, di dover fare la stessa cosa era buffo. Le loro strade continuavano a coincidere.
Avevano avuto bisogno, quella sera. Di cosa? Solo di parlare? Si ma perché proprio con l’altro? Avevano sentito qualcosa. Che cosa?
Avevano capito che non avevano una persona assolutamente fidata in cui riporre totalmente la propria anima nei momenti di stanchezza, anche quando con la fidanzata e in amore funzionava.
Ognuno ha bisogno non solo di persone fidate o di amore e fidanzati. Ognuno ha bisogno della persona migliore del mondo, per sé stesso, a cui affidarsi sempre o nei momenti importanti.
Solo quella sera con quell’atmosfera avevano capito che nessuno dei due possedeva quella persona.
Da lì ad arrivare al perché erano riusciti a parlare così fra di loro era facile.
L’amicizia non si sceglie in un ora, non si riconosce in un discorso, non si forma in una confidenza. Non si dona con un consiglio.
Semplicemente quella volta c’erano state testimonianze vere e sincere di due ragazzi, né buoni né cattivi.
Solo ragazzi.
In risposta, Andrea ricevette un sorriso, un ghigno, da Marco e poi una domanda a bruciapelo da schiaffi:
- Hai fame? -
Così, solo per sancire la fine dell’argomento pengio ed iniziarne uno più ‘da loro’.
Continuarono la serata ingozzandosi di cibo e litigando scherzosamente come facevano sempre. Era tutto tornato alla normalità ma con un cambiamento fondamentale.
Qualcosa era iniziato un po’ più ufficialmente.