STORIE DI TUTTI I
GIORNI
CAPITOLO
8:
NE
BUONI NE CATTIVI
/
Cleanin out my closet – Eminem /
Le
note ritmate e incessanti di Eminem uscivano dal piccolo stereo che
aveva visto tempi migliori, l’ossigenato cantante sparava
rime con
la sua voce che sapeva essere bassa oppure urlata come lui voleva, ad
ogni modo sempre rabbia usciva. Rabbia in un fiume di parole che
accusavano o deridevano.
A
Marco piaceva molto l’hip hop, era il genere musicale
più
vicino a lui, quelle canzoni raccontavano storie vere, realistiche,
dure, dolorose. Non erano fiabe o parole d’amore, era solo
realtà
di strada. La parte sporca del mondo, quella da dove veniva lui.
Cleanin
out my closet vibrava ad un volume non molto alto.
Voleva
parlare. Anzi. Ascoltare.
Andrea
era seduto nel divano scassato del piccolo appartamento del moro, con
cui ancora non andava d’accordo.
Era
strano, però. Da quando erano lì non si erano
ancora
picchiati.
C’era
un aria pesante. Aria di confidenze importanti e dolorose.
Entrambi
la sentivano, ma in cuor loro, anche se non l’avrebbero mai
ammesso, ne sentivano il bisogno di dirle tutte, le cose che si
portavano dentro da un po’. Non vedevano quasi
l’ora, peccato che
erano troppo orgogliosi per iniziare senza che l’altro lo
chiedesse.
Un
incentivo.
Il
biondo spettinato di proposito secondo il suo look personale, teneva
il borsone ai piedi aperto, non aveva preso ancora nessun libro, non
avevano nemmeno idea dell’argomento che avrebbero dovuto
affrontare. Nulla. Il compito detestato era lontano.
La
canzone era appena iniziata e il ragazzo che non ascoltava quasi mai
il giovane rappar, si concentrò sulle parole con finto
interesse. La verità era che già dal primo verso
l’aveva colpito e spinto ad ascoltare il resto, cercava di
tradurre
mentalmente le parole che ascoltava. Forse perché quello
poteva essere l’incentivo che cercavano.
Soprappensiero
si mise a ripetere ad alta voce, con finta ironia, la traduzione che
faceva di quel che captava e gli interessava, non tutta la canzone,
solo qualcosa, quello che riusciva a capire nella velocità
delle rime e dei versi.
Marco,
appoggiato alla parete vicino allo stereo, tuttavia, fece
un’attenzione maniacale a quelle parole che sapeva non essere
una
presa in giro per uno dei suoi cantanti preferiti.
-
Sei mai stato odiato o discriminato? Io si … -
Sempre
lui con un volto seriamente concentrato che tentava di essere il
solito strafottente:
-
… le emozioni scorrono profonde come un oceano che esplode
… -
Ed
ecco il ritornello:
-
… mi dispiace mamma, non volevo farti soffrire, non volevo
farti
piangere, ma stanotte sto pulendo il mio armadio … -
Veloce
e attento, lo faceva spesso con le canzoni e l’inglese lo
parlava
come seconda lingua. Marco fu impressionato anche da questo lato che
lo ritraeva solo ancor più perfetto. Il fatto che Andrea
traducesse non era per dare di sé un immagine tale, tanto
meno
voleva farsi bello agli occhi del rivale, semplicemente aveva voluto
farlo e l’aveva fatto. Perché lui non sempre
ragionava, si
capiva!
-
… ho alcuni scheletri nell’armadio, non so se
qualcuno lo sa,
quindi prima che mi buttino nella bara voglio dirli … -
Assottigliò
gli occhi neri che sembravano senza pupilla, li fece attenti. Quella
canzone non era una qualunque.
-
Posso aver fatto degli errori ma sono solo umano, però sono
uomo abbastanza per affrontarli oggi, quello che ho fatto è
stato stupido, nessun dubbio che sia stato sciocco … -
Non
lo era. Come chiamata da qualcuno, la canzone non era capitata
lì
per caso.
Marco
appoggiò il capo al muro dietro di sé guardando
il
soffitto senza vederlo, continuò ad ascoltare il resto.
-
E’ la mia vita, voglio darvi il benvenuto
all’Eminem show … -
Ascoltava
i pezzi e li traduceva alla velocità della luce con un
acutezza e concentrazione apparentemente sempre casuali, fatte per
non annoiarsi, poi dopo aver tradotto il pezzo riascoltava altri
versi e traduceva anche quelli. Era anche quello un ritmo dettato dal
tempo di quella musica.
-
Prendetevi un secondo per ascoltare, chi voi credete che questo disco
stia insultando? Mettevi nelle mia posizione … -
Con
un reale interesse, dentro di sé, che se non ci fosse stato
non avrebbe proseguito fino alla fine.
-
… quello che mi fa più male è che non
vuoi ammettere
di aver sbagliato … -
Veniva
da chiedersi come mai, se lui stava riuscendo ad ammetterlo,
perché
la madre no? Che donna era? Andrea strinse i pugni sulle cosce dai
jeans attillati neri pieni di fibbie. Anche sua madre era
così,
no? E lui era come il protagonista della canzone …
-
Ricordi quando Ronnie è morto e tu dicesti che avresti
voluto
che fossi io al suo posto? Be', indovina un po', sono morto,
più
morto che mai per te … -
Poi
ancora il ritornello dopo un finale che lasciava leggeri brividi per
la durezza e la rabbia con cui aveva urlato cose così
‘brutte’.
-
… mi dispiace mamma, non volevo farti soffrire, non volevo
farti
piangere, ma stanotte sto pulendo il mio armadio … -
Quello
che avrebbero dovuto fare anche loro.
Arrivò
un attimo di silenzio, poi si tornò riempire con
un’altra
canzone.
Andrea
se ne rese conto. C’era dell’incredibile nella
canzone che
casualmente si erano messi ad ascoltare. Eminem, che interesse
avrebbe dovuto avere il metallaro per tradurre un suo brano, anche
solo qualche verso?
Così.
Aveva sentito di doverlo fare.
Non
guardò il ragazzo ancora in piedi dietro di sé.
Non si
mosse, rimase a fissare il pavimento contraendo le mascelle. Un uomo
che sbaglia e fa un sacco di cavolate ma che ha sofferto, poi riesce
ad ammettere i suoi errori e ad affrontarli per il bene di qualcuno
che gli sta acanto per amore. Uno così è solo da
ammirare.
Il
problema erano le ammissioni, le parole, la verità.
Lui
viveva in un ipocrisia assurda ed irrespirabile.
Magari
si sarebbe stufato, però per stufarsi doveva anche parlarne.
Ora,
dopo mesi, sentiva il bisogno di tirare fuori l’argomento
senza che
glielo chiedessero.
Non
si chiese perché con lui, con Marco. Era lì e
basta.
-
Ognuno ha un armadio da pulire, vero? -
Gli
rispose il silenzio.
Il
moro non gli avrebbe chiesto nulla, eppure lui doveva.
-
Prima ho detto quelle cose a mia madre … -
-
Non sei obbligato. -
Brusco
e musone ma diretto, l’altro lo interruppe.
-
E’ ok, va bene. -
Si
passò le mani fra i capelli portandoli totalmente
all’insù,
scoprendo la fronte lievemente corrugata appoggiò la nuca
allo
schienale del divano decisamente scomodo.
-
Alla fine non c’è molto da dire, sai …
non sapevo come
iniziare, ma in fin dei conti è solo successo che un anno e
mezzo fa i miei sono impazziti e sclerando di brutto mi hanno fatto
una scenata sul basket che dovevo mollarlo per impegnarmi nello
studio e avere un altro tipo di carriera, non sportiva. Io allora mi
impuntai, non capii. Mi dissero che mi avevano sempre lasciato fare
perché ero piccolo, ma ora che ero grande dovevo diventare
responsabile e lasciare perdere le sciocchezze. Io non ci stetti,
diedi contro a loro in tutti i modi, ma non ragionavano. Scoprii il
loro vero lato. Loro sono i classici ricconi, puzza sotto il naso,
snob, carriera e soldi e perfezione per tutti. Così mi sono
stufato ed ho deciso di assecondarli. Ufficialmente per loro sono
diventato quel che vogliono, in realtà sono così
poco
presenti nella mia vita che non hanno capito che è da un
anno
e mezzo che fingo e li prendo in giro. Sono l’esatto
contrario di
quel che vogliono e mostro. Non me ne importa. Loro stanno bene ed io
anche. Non dovrò vivere con loro per sempre … -
Si
interruppe. Aveva parlato abbastanza, alla fine, ed ora si sentiva
leggero. Stupido dirlo, ma era così. Non pensava con chi
aveva
parlato, non pensava proprio. Stava solo meglio perché era
veramente da troppo tempo che teneva tutto chiuso in un idea finta
che andasse tutto bene.
Era
solo un gran bugiardo, il primo fra gli ipocriti.
-
Non dici nulla? -
Voleva
sapere, tuttavia, che ne pensava. Non perché era Marco il
rivale col quale si era appena confidato in un momento di debolezza,
semplicemente perché odiava il silenzio e quello era
così
pesante; detestava scoprirsi fino a quel punto. Come diavolo riusciva
quel tipo strano a tirargli fuori il suo vero lato?
-
Cosa dovrei dire? -
-
Qualcosa! -
-
Pensi di continuare a fingere in eterno? Qualcuno conosce il vero
Andrea? Cioè, ti rendi conto di essere un Andrea a casa, un
altro a scuola e in ambiente pubblico in generale, ad un altro ancora
dentro di te in privato? Non diventerai schizofrenico? -
Reazione
schietta, in fin dei conti. Molto più apprezzabile di una
leccata di didietro come molti facevano per non ferirlo.
-
Kim … e gli stretti del mio giro. Loro lo sanno …
-
Rispose
solo a quella domanda. Al resto non sapeva che dire.
-
Tu non sei molto sano. Non si tratta di ipocrisia o carogneria. Sei
uno stronzo per molti motivi, ma ancor di più ti fingi una
persona intelligente che non sei. Hai intenzione di mollare col
basket dopo le superiori? -
-
No! -
Subito
d’istinto la negazione. Assoluta.
-
Il basket è il mio vero sogno, il mio obiettivo,
ciò
che voglio fare nella mia vita perché so che ho le
capacità.
Non so che fare senza, non sono più io, non valgo nulla
senza.
-
-
Non è vero e lo sai, non sono io a dovertelo dire, ma non
è
questo il punto. Tu vuoi fare solo quello che vuoi contro tutto e
tutti, fregandotene delle etichette e delle apparenze. Ma cosa ti
blocca? Non mi importa. Sappi che non puoi fingere in eterno, allora
o dici come stanno le cose e affronti la realtà per poter
vivere il tuo sogno, come dici che è, oppure rinunci
letteralmente a vivere. Cioè non è che ti devi
suicidare, ma non hai idea della vita che avrai se continui
così.
-
Si
zittì rendendosi conto di aver parlato troppo, dispensare
consigli e pareri non era da lui, ma gli era venuto spontaneo,
inoltre glie aveva chiesto che pensava.
Non
si guardavano ancora, Andrea stava in silenzio, gli pesavano quelle
parole.
Tese
i muscoli e contrasse la mascella, avrebbe voluto prenderlo a pugni.
Aveva detto troppe verità e lo detestava per un motivo in
più.
D’altronde glielo aveva chiesto lui di dire qualcosa.
Non
sapeva cosa dire ma non aveva intenzione di stare in silenzio senza
reagire come un bimbo delle elementari che viene sgridato dalla
mamma.
Non
sapeva nemmeno lui che voleva, ma si alzò di scatto e lo
guardò dritto negli occhi col divano che li divideva e la
musica hip hop ancora nell’aria. Lo sguardo scuro color notte
profonda senza stelle e luna si piantò prepotente e severo,
nonché scocciato, in quello chiaro color cielo al mattino
con
un sole alto che da fastidio il solo guardarlo.
-
Marco, non ho certo bisogno di sentirmelo dire da te … -
Lasciò
la frase in sospeso sprofondando le mani nelle tasche strette dei
pantaloni, non sapeva come continuare. Voleva mostrare ira ma poi si
rese conto dell’assurdità della cosa, che diavolo
voleva da
Marco?
In
risposta il moro non distolse lo sguardo, rimase a rispondere con gli
occhi penetranti su lineamenti duramente selvatici e grezzi.
-
Pensi che io sia diverso da te? Parlo bene ma razzolo male. -
Introducendo
così l’argomento più duro, per lui,
cominciò a
non respirare per ricordare quanto avrebbe dovuto dire.
Anche
lui, come Andrea, non era costretto ma ne sentiva il bisogno, in quel
preciso istante.
Perché
aveva capito quanto uguali erano.
Non
sapeva cosa voleva da Andrea, però sentiva che
nell’aria
qualcosa c’era ed era molto strano.
-
Ti do dello stupido ignorante, ma lo sono anche io. Contraddittorio,
vero? -
Non
si mosse facendo in modo di essere guardato dall’altro ma di
non
guardare a sua volta.
Prese
a raccontare con freddezza estranea allucinante.
-
Sono cresciuto in un quartiere malfamato di una grande
città.
Famiglia povera. Avevo un fratello, era in gamba, l’unico che
mi
volesse bene, era il pupillo di tutti, perfetto in ogni cosa, grande
campione di basket (mi insegnò lui a giocarci), il migliore
nello studio. Stava diventando qualcuno, da solo, senza aiuti. Ci
teneva su permettendoci di non suicidarci in massa. A lui abbiamo
sempre dovuto tutto.
Io
però vivendo in quel posto e patendo il complesso del
fratello
maggiore perfetto, ero entrato in un brutto giro da quasi subito,
vissi la mia adolescenza in maniera squilibrata e pietosa. Ero in una
banda, sai, quelle di teppisti che marcano il proprio territorio in
certi modi. Facevamo piccoli furti, rubavano insomma, eravamo sempre
in rissa, non facevamo nulla di nulla. Non ci interessava uscire da
quel buco orrendo di posto tanto meno finire sui giornali o in
carcere per una notte. Una vita dissoluta che ci stava bene. Tutto
quello che una maledetta banda di teppisti può fare. Come
tutte avevamo un sacco di nemici, ho fatto brutte cose, forse le
facevo perché non pensavo di essere così legato a
mio
fratello.
Finii
in seri guai. Il mio gruppo prese a far girare droga, fumavamo
spinelli e mi fecero provare delle pasticche. Al momento di arrivare
a qualcosa di più pesante rifiutai, così mi
misero a
spacciare facendomi scoprire un sacco di cose legate a quel dannato
mondo. Mi stavo perdendo, ero in una cosa più grande di me e
non sapevo come uscirne.
Provai
ad oppormi, ma avevo una fama che puoi immaginare, non mi ascoltarono
e per evitare che li mettessi nei guai vollero eliminarmi.
Subii
diversi attacchi a cui sopravvissi per miracolo, poi mi chiusero in
un posto fuori città dandogli fuoco. Mio fratello
preoccupato
mi aveva seguito e aveva visto tutto, entrò nel rifugio in
cui
ero chiuso e mi fece uscire. Io mi salvai procurandomi brutte
cicatrici e bruciature, lui morì.
Davanti
ai miei occhi, quasi fra le mie mani.
Fu
qualcosa di terribile, osceno. Non so descrivertelo, ma solo
lì
capii che almeno da lui ero amato e l’avevo dannatamente
ricambiato
dando per scontato la sua eterna presenza. Mi aveva sempre tirato
fuori dai guai, da lì in poi non l’avrebbe
più fatto,
nessuno l’avrebbe fatto. Capii che ero solo e prima di
disperarmi
per quello, mi disperai perché l’unica fonte di
amore non
c’era più ed era solo colpa mia. Provai
l’istinto di
buttarmi fra le fiamme per raggiungerlo.
Stavo
per farlo ma la vigliaccheria mi fermò.
Svenni
e quando mi svegliai in ospedale mi chiesero come erano andati i
fatti, feci finta di aver scordato tutto, non sapevo cosa fare sul
momento e non mi importava molto di quella gente. Il dolore di aver
ucciso io stesso mio fratello, l’unico per cui contavo
veramente
qualcosa, continuava a bruciarmi inarrestabile. La mia anima fu
incendiata insieme al suo corpo e caddi in una crisi profonda dove
non mangiavo, non parlavo, non uscivo e non mi muovevo, nelle
orecchie avevo solo le urla d’accusa schifate dei miei
genitori che
non volevano saperne di me. Era comico … nemmeno io volevo
saperne
di me … e quindi come avremmo fatto?
Assurdo.
Troppo assurdo.
Finì
che avevo tutto il mio quartiere contro, i giornalisti e la gente mi
additavano come l’assassino di mio fratello, una grande
persona, la
mia stessa banda voleva finire l’opera ed io non volevo
difendermi,
non facevo nulla per salvare la situazione. Non volevo nemmeno
denunciare nessuno.
In
quello stato di fantasma trovai degli scritti di mio fratello, erano
delle specie di sfoghi che parlavano di me, scriveva tutto quel che
facevo e le volte in cui mi aveva tirato fuori dai guai. Si chiedeva
cosa fare con me e le paure che aveva nei miei riguardi. Rimasi
stupito e profondamente scosso … lui diceva delle cose
bellissime
di me che io stesso non mi sarei mai sognato di dirmi da solo. Poi
vidi delle poesie e dei disegni, tutti con me come protagonista, la
sua ossessione, la speranza di far di me il suo erede, la sua
assoluzione, la sua prenotazione in paradiso. Provavo rabbia, una
rabbia allucinante che cresceva sempre più. Per me e per
lui,
contraddittorie. Avevo appena capito che oltre ad essere un ottimo
atleta e studioso era anche un artista e aspirante scrittore
…
avevo tagliato le ali ad uno che sarebbe sicuramente diventato
qualcuno. Lì ebbi una violenta reazione, pensai che forse se
mi toglievo la vita per lasciare che la sua anima sostituisse la mia
nel mio corpo, allora sarebbe tornato a vivere. Era tutto quello che
potevo fare per lui.
Ero
allucinato poiché depresso, in quei casi esci di testa
letteralmente, te l’assicuro; vedi, pensi e fai cose che
normalmente non faresti, che sono fuori da ogni logica e
l’assurdo
è che le fai con convinzione. Arrivi a delirare in piena
coscienza di te stesso.
Io
lo feci e presi un tagliacarte che utilizzava per appuntire le matite
che usava per disegnare. Gridai come un ossesso, lo chiamai a gran
voce dicendo di venire lì davanti a me e prendere il mio
posto, mi colpii con disperazione ceca. Pensa, da quanto ero
sconvolto e non in me, non sentii nemmeno dolore. Non riuscii a
morire, non mi ferii nessun punto vitale così semplicemente
persi i sensi per l’emorragia. Mentre svenivo sentivo i miei
che
arrivavano grazie alla confusione che avevo fatto, però quel
che ripetevo era solo il nome di Daniele, mio fratello.
Come
una litania mi accompagnò anche nel mondo che potrei
definire
dei sogni.
Rimasi
in coma per qualche giorno, fu lì che finalmente lo sognai.
Venne veramente da me come avevo sperato, ma non per sostituire la
mia anima fallita e tornare in vita, venne solo per dirmi che dovevo
tornare a vivere e reagire. Mi disse molte cose, in realtà,
che non starò a raccontarti, ma mi scosse, insomma.
Quando
mi svegliai non ero quello di prima ma nemmeno quello che Daniele
avrebbe voluto. Reagii e presi una decisione, ma non per me stesso,
solo per lui. Non amo ancora la vita, non mi reputo degno di vivere
io al suo posto e sicuramente non sono una persona facile, tanto meno
felice. Sono solo diventato quello che hai visto, non certo un grande
esempio da seguire.
L’unica
fissazione che mi rimase dopo il mio risveglio fu un desiderio,
quello di realizzare il sogno di mio fratello. Lui ne aveva due:
sistemare me e rendermi un uomo e realizzarsi nelle sue passioni.
Siccome per me essere uomo è essere come lui e lui
è
impareggiabile, ho rinunciato a questo sogno e mi concentro sulle sue
passioni che, a loro volta, sono irrealizzabili per un inetto buono a
nulla come me. Tutto quel che so fare è giocare a basket
perché me l’ha insegnato proprio lui,
così lo faccio.
Solo
per lui.
Poi
però laggiù era diventato invivibile e come se
non
bastasse i miei non volevano vedermi, non ce la facevano
perché
al suo posto, mi hanno sempre detto, avrebbero voluto fossi io a
morire. Così vuoi per questo vuoi per la
pericolosità
che mi circondava mi spedirono qua da mia zia che lavora un sacco,
è
come vivere da solo. Mi dissero che era per me, che con certe cose
non si scherza. In realtà era solo per loro. Non abbiamo mai
avuto rapporto, ora so che non lo avremmo mai ma non mi interessa.
Voglio
solo che mio fratello non si schifi di me e l’unico modo che
ho per
evitare tutto ciò è solo giocare a basket per
lui.
Ora
sono un ragazzo dai mille rimpianti, una vita da ricercato, notti
passate in carcere, articoli su di me, nemici fra i giri brutti e
tutto quel che si può immaginare di negativo! -
Finì
di raccontare e i ricordi cessarono. Aveva parlato con calma e
lentezza, con un fondo di chiaro rimpianto e mal contento nella voce,
ad occhi chiusi ignorando il sudore che cadeva lungo il suo volto.
Aveva provato uno strano pizzicolio sulla spina dorsale.
Era
stato un parto dire tutto quello, mai interrotto da Andrea. Solo
allora si rese conto di aver effettivamente parlato con qualcuno e
solo quando realizzò quello, tornò a respirare e
smise
di sudare. Si rilassò totalmente puntando
l’azzurro
tempestoso dei suoi occhi coperti dai capelli scuri, in quelli
notturni del biondo Andrea.
L’aveva
guardato per tutto il tempo.
-
Ora che dici, tu? -
Se
l’aspettava la domanda fatta per lo stesso motivo di prima.
Odiava
quel silenzio.
Sospirò
pesante ma non distolse gli occhi. Diretto e penetrante disse solo:
-
Come dici tu, non sono il più indicato a dare consigli e
pareri. -
Sapeva
però che non sarebbe bastato.
-
Dì qualcosa lo stesso … -
Fu
una richiesta, non un ordine. Perché anche lui, ora, aveva
bisogno di sentire delle parole di colui che superficialmente aveva
indicato come suo nemico.
-
Ti ricordavo tuo fratello, vero? -
Parlò
con coraggio e schiettezza, senza paura del ragazzo morto, Marco lo
notò e fu un punto che andò a suo favore. Specie
perché
ci aveva preso.
-
Nessuno poteva essere come lui. Mi davi un fastidio immenso, ma la
cosa buffa è che fino ad ora non me ne ero reso
razionalmente
conto. -
Ammise
semplice, era stanco come l’altro di fingere o avere una
certa
facciata. Stanco di molte cose.
-
Alla tua età sembri già vecchio. Non so che
dirti, sii
più leggero. È utopia, lo so, ma pensa che per
tuo
fratello stai facendo bene e se ti piace il basket allora pensa anche
che divertendoti non fai un torto a nessuna anima preziosa. -
Alla
fine il consiglio glielo aveva dato, ma a modo suo.
-
Però sei anche molto immaturo, per nulla intelligente,
proprio
come pensavo. -
Cercò
di alleggerire un po’ la tensione e la pesantezza del momento.
Non
si arrabbiò, Marco, per quello.
-
Il nostro problema comune è che siamo solo bugiardi e
codardi,
fingiamo di continuo senza avere le palle di non fuggire
più.
Dobbiamo solo affrontare la realtà. Tutto lì. -
Sapeva,
Andrea, di non avere una situazione e un passato grave come il suo,
ma di base la logica che valeva da lì in poi era uguale. Il
pensiero, quindi, di dover fare la stessa cosa era buffo. Le loro
strade continuavano a coincidere.
Avevano
avuto bisogno, quella sera. Di cosa? Solo di parlare? Si ma
perché
proprio con l’altro? Avevano sentito qualcosa. Che cosa?
Avevano
capito che non avevano una persona assolutamente fidata in cui
riporre totalmente la propria anima nei momenti di stanchezza, anche
quando con la fidanzata e in amore funzionava.
Ognuno
ha bisogno non solo di persone fidate o di amore e fidanzati. Ognuno
ha bisogno della persona migliore del mondo, per sé stesso,
a
cui affidarsi sempre o nei momenti importanti.
Solo
quella sera con quell’atmosfera avevano capito che nessuno
dei due
possedeva quella persona.
Da
lì ad arrivare al perché erano riusciti a parlare
così
fra di loro era facile.
L’amicizia
non si sceglie in un ora, non si riconosce in un discorso, non si
forma in una confidenza. Non si dona con un consiglio.
Semplicemente
quella volta c’erano state testimonianze vere e sincere di
due
ragazzi, né buoni né cattivi.
Solo
ragazzi.
In
risposta, Andrea ricevette un sorriso, un ghigno, da Marco e poi una
domanda a bruciapelo da schiaffi:
-
Hai fame? -
Così,
solo per sancire la fine dell’argomento pengio ed iniziarne
uno più
‘da loro’.
Continuarono
la serata ingozzandosi di cibo e litigando scherzosamente come
facevano sempre. Era tutto tornato alla normalità ma con un
cambiamento fondamentale.
Qualcosa
era iniziato un po’ più ufficialmente.