CAPITOLO
IV:
CORSA
CONTRO IL TEMPO
/ Enjoi the
silence – Depeche Mode feat. Mike Shinoda /
-
Andiamo con la mia auto! – Disse Don dirigendosi spedito alla
propria macchina parcheggiata insieme a molte altre, il
‘si’ di risposta di Colby gli arrivò
lontano indicandogli che si era fermato un attimo con Charlie. Non
ritenne opportuno aspettarlo e sentire cosa si dicevano ma se
l’avrebbe fatto sicuramente molte cose sarebbero andate
diversamente e non avrebbe dovuto subire ciò che nessuno
dovrebbe mai passare.
Però
per sbrigarsi ad andare a casa e dedicarsi all’unica cosa
bella della giornata, ovvero Colby, era salito subito per accendere
l’auto ed uscire dal parcheggio. Sapeva che lui sarebbe
arrivato subito ed aveva fretta di arrivare a casa.
Lui,
la fretta, l’aveva sempre ma forse dopo quella volta avrebbe
imparato ad averne di meno.
Quando
salì dalla parte del guidatore, dalla parte opposta rispetto
a dove si trovavano Colby e Charlie che parlavano ancora con una strana
espressione turbata, si impose di pensare solo alla notte che si
apprestava a passare. Un piccolo squarcio di paradiso. Una volta che
tutta quella storia sarebbe finita, avrebbe avuto il resto e non vedeva
l’ora.
Già
non ne poteva più… quel Johnsson era ormai un
ossessione, aveva vissuto tutta la giornata in funzione di
quell’uomo cercando di immaginare le sue mosse e di coglierlo
in contropiede. La sua mente era stata rivolta così tanto
verso di lui che gli era sembrato di vederlo ovunque ogni volta girasse
lo sguardo.
Anche
ora era così… ora che dall’interno del
veicolo dai vetri oscurati aveva infilato distrattamente la chiave nel
quadro d’accensione.
I
suoi occhi stanchi e stralunati posati in un punto a caso
dell’esterno, dalla parte del proprio finestrino, avevano
messo distrattamente a fuoco un viso a lui noto.
QUEL
viso noto.
Un
viso che l’aveva ossessionato tutto il giorno senza essere
mai riuscito a vederlo davvero se non con la sua immaginazione.
Ed
ora?
Era
davvero lui? Strabuzzò gli occhi ed in realtà
anche se le cose sembrarono andare al rallentatore, tutto fu veloce.
Dannatamente
veloce.
Spense
la ragione ed il cervello rivolto a mille pensieri e si
lasciò andare unicamente al suo istinto.
Istinto
di sopravvivenza, istinto di agente esperto in mille azioni pericolose,
istinto felino.
Non
pensò, non ci riuscì.
Come
il suo cuore non riuscì nemmeno a battere, quasi,
sospendendo ogni funzione vitale del corpo.
Don
mettendo a fuoco Johnsson fuori dalla sua auto, a diversi metri da lui,
mollò immediatamente le chiavi e dimenticando anche di
respirare aprì la portiera gettandosi fuori.
Non
ragionò, non realizzò che se quello era davvero
lui e se era lì fuori a guardarlo poteva significare solo
che la sua vita era di nuovo in pericolo e che probabilmente quella
volta sarebbe esplosa la sua auto.
Non
realizzò che quindi doveva uscire subito.
Non
realizzò che era un occasione unica per prenderlo.
Non
realizzò nulla di tutto quello che normalmente con un
po’ di tempo in più avrebbe realizzato, molte cose
in effetti.
Semplicemente
agì ancor prima di realizzare.
Agì
e si buttò fuori dall’abitacolo con una tale
velocità che gareggiò col tempo fulmineo stesso.
Un
lampo.
In
un lampo quanti passi si possono fare, correndo con la forza della
disperazione?
Con
la voglia di vivere ancora?
Sicuramente
gran parte del merito fu del fatto che era un ottimo agente, tanto che
aveva una squadra sotto di sé. La sua esperienza sul campo e
al lato pratico era stata preziosa allo stesso modo del suo istinto e
se così non fosse stato, quando al termine di quel lampo
brevissimo la macchina esplose, lui sarebbe morto lì dentro,
bruciato con essa.
Non
sapeva quanto era riuscito ad allontanarsi piegato fino
all’inverosimile per correre più veloce,
silenzioso per non sprecare fiato a gridare un aiuto che non sarebbe
mai arrivato in tempo.
Concentrò
ogni parte di sé stesso per allontanarsi.
Per
sopravvivere.
E
quando le sue spalle furono completamente fuori dal veicolo nero,
questi esplose creando un boato che azzittì tutti
nell’intero isolato. L’onda d’urto
coinvolse chiunque fosse nel raggio di qualche metro e li fece sbalzare
in aria e cadere a terra.
L’ultima
sensazione fu di calore.
Un
calore innaturale contro la schiena.
Poi
l’impatto col marciapiede non gli fece più
comprendere che le fiamme l’avevano raggiunto insieme al
botto che l’aveva sospinto violentemente in avanti, facendolo
scontrare col suolo duro che fermò la sua coscienza.
Dopo
fu solo nero.
Silenzio,
vuoto e buio.
Un
buio che l’avrebbe accompagnato a lungo, per un tempo a lui
indefinito, che l’avrebbe fatto viaggiare senza coscienza in
un posto strano alla sua stessa ricerca. Una ricerca per capire chi
fosse, dove e cosa potesse fare.
Perché
anche privo di sensi, Don rimaneva sempre Don e cercava di essere il
più attivo possibile per risolvere al lato più
pratico possibile i problemi.
Il
fatto che non riuscisse a ritrovare sé stesso e a venir
fuori da quella confusione maledetta, era decisamente un gran problema.
Ci
impiegò molto prima di trovarsi e ricordarsi il proprio
nome, ci volle altrettanto per chiedersi cosa ne fosse stato di Colby e
di suo fratello, poco distanti da lui. Dopo di che i tasselli, uno dopo
l’altro, gli ridonarono la ragione mentre capiva cosa era
successo, quando e come.
Solo
che quando il dolore lo raggiunse anche lì, ancora svenuto,
tutte le risposte sfuggirono di nuovo lasciando posto solo ad una
sofferenza allucinante destinata a crescere sempre più.
Fu
il male fisico per l’esplosione, il botto e le fiamme che lo
fecero risvegliare e dimenticare per un attimo tutto.
La
sua mente nello stato di completa confusione non ebbe pietà
di lui e gli parve, quando aprì a stento gli occhi, che
volesse saltargli per aria anche quella.
Gli
pulsava spaventosamente insieme al sangue che correva rude nelle
proprie vene. Ogni osso gli doleva come se fosse rotto, le forze non
gli tornarono nemmeno per girare la testa. I sensi ancora annebbiati
come la vista che non gli permise di distinguere solo luci ed ombre.
Era
steso in un posto chiuso, illuminato ma silenzioso.
O
silenziose erano le sue orecchie?
Forse
non c’era silenzio ma era lui che ancora non sentiva.
Dopo
un esplosione simile è difficile sentire subito appena apri
gli occhi.
Lui
ci era stato davanti.
Quando
uno ad uno i sensi gli tornarono ancora, l’udito non voleva
saperne di aiutarlo ma gli bastò quel che
cominciò a sentire.
I
dolori che precedentemente gli avevano permesso di riprendere i sensi
furono surclassati dalla schiena che gli bruciava da fargli impazzire e
i lamenti biascicati uscirono dalla sua gola roca ed asciutta.
Aveva
bisogno di bere, un bisogno disperato.
Sentiva
caldo ed era in un bagno di sudore oltre che sporco. Ci si sentiva
così anche senza guardarsi e con la pelle della schiena che
minacciava di farlo svenire di nuovo se per lo meno non si sarebbe
girato alzandosi da essa, si ricordò di nuovo di tutto, come
poco prima di svegliarsi.
Di
nuovo in macchina, di nuovo Johnsson, di nuovo la corsa fuori senza
nemmeno pensare, di nuovo l’esplosione, di nuovo il volo, di
nuovo il caldo e le fiamme.
Di
nuovo la preoccupazione per Charlie e Colby.
Cosa
era stato di loro?
E
lui dove era?
Se
fosse stato in ospedale non sarebbe coricato sulla schiena, la parte
logicamente ustionata dalle fiamme.
Quale
altra parte era lesa di lui?
Non
lo capì, sapeva solo di stare male e di voler strapparsi via
la carne da dietro pur di provare un po’ di sollievo.
Non
ci riusciva. Non ci riusciva più a pensare a Johnsson e a
cosa gli avrebbe potuto fare.
Non
ci pensò finché non riuscì a
distinguerlo lì a poca distanza da lui, seduto accanto al
letto su cui era stato posto.
-
Non sarebbe dovuta andare così. –
Iniziò la sua voce ormai familiare. Era calmo e pacato,
dannatamente freddo.
Don
fece fatica ad ascoltarlo e a capire ciò che diceva,
cercò di concentrarsi sulle sue parole e sull’odio
che provava per lui per distrarsi dal dolore, ma non fu facile.
Si
dimenò per girarsi con le forze ancora scarse, ma
capì di essere legato e di non poter assolutamente muoversi.
Le
gambe e le braccia erano aperte annodate alle estremità del
letto.
-
Non avevo progettato di rapirti per finire il lavoro qua, saresti
dovuto morire nell’esplosione. –
Continuò consapevole che Don non sarebbe riuscito a parlare
ancora per molto. Lo vedeva sofferente con una smorfia di dolore dietro
l’altra e fu una visione piuttosto piacevole per lui che
finalmente poteva godere esattamente di ciò che da anni
aveva sognato.
Se
avesse avuto più tempo per indagare su di lui, prima di
ucciderlo avrebbe colpito le sue persone care ma non avendo molto tempo
per la propria vendetta, si era concentrato subito su Don.
Ora,
però, l’aveva lì davanti alla sua
mercè mentre si contorceva dal dolore da lui provocato.
La
sensazione di eccitazione che provò guardandolo conciato a
quel modo che stava male in modo evidente, gli fece venire un idea che
lo consolò dal ripiego che aveva dovuto sopportare per la
mancanza di tempo.
Vederlo
soffrire fisicamente per mano sua era un esperienza incredibilmente
appagante e giunto a quel punto si sarebbe dedicato interamente a
questo.
A
lui.
L’avrebbe
lentamente torturato infliggendogli quanto più dolore
possibile.
Ormai
era nelle sue mani, poteva farlo.
Poteva
fargli tutto quello che aveva sempre sognato in tutti quei durissimi
anni di prigionia, chiuso in quella cella ad impazzire.
-
Ma visto che ci siamo, ora mi dedicherò a te come si deve,
senza trascurare nemmeno un dettaglio. –
L’accarezzò
spregevolmente con lo sguardo carico di odio e di follia allo stesso
tempo, Don nel dolore capì che la luce della ragione non
v’era in lui da molto tempo e che farlo ragionare per
prendere tempo, non sarebbe servito a nulla, forse avrebbe solo
accelerato i tempi.
E
poi nemmeno volendo sarebbe riuscito a parlare e a mettere vicine delle
frasi furbe e sensate con cui sopravvivere.
Il
dolore che provava era intollerabile e indescrivibile mentre lentamente
sentiva dettagli in più di sé stesso e di come
era ridotto.
I
vestiti sulla schiena erano probabilmente bruciati e la pelle ustionata
era a diretto contatto col materasso sotto di sé, gli
sembrava di avere ancora il fuoco che se lo mangiava repentino.
Sentì di avere anche diversi lividi sul viso ottenuti con
l’impatto col marciapiede. Sicuramente c’erano
anche delle ferite aperte. Il resto del corpo lo sentiva come se fosse
stato calpestato da un camion intero, la sensazione delle ossa rotte,
la testa che gli scoppiava, gli occhi che gli bruciavano, la gola secca
che non emetteva alcun suono, il cuore che galoppava, ogni respiro una
stilettata nel petto, il mondo circostante che girava vorticoso
nonostante fosse steso.
Eppure
in tutto quello, tutto ciò che fu in grado di pensare fu
solo che sperava che Charlie e Colby stessero bene.
Non
si disse che l’avrebbero trovato e che presto tutto sarebbe
finito, non cercò di capire come poteva cavarsela da solo,
non provò a guardarsi intorno per pensare a cosa fare di
concreto.
Lì
con la morte che di nuovo sembrava sorridergli più vicina di
sempre, non si abbandonò nemmeno all’idea di
andarsene da quel mondo.
Pensò
solo a Colby e a Charlie. In special modo alla notte che non erano
riusciti a passare insieme col benestare di tutti. Avrebbe voluto
sfruttare per bene l’occasione di Colby che lo proteggeva.
Non
capì che quello, in realtà, non era altro che un
modo per proteggere sé stesso e non morire in quel dolore
destinato a crescere sempre più.
Non
si apprestava a sopportare stoicamente le torture che avrebbe ricevuto
di lì a poco, non si apprestava nemmeno ad agire in qualche
modo da agente. Non si apprestava a fare nulla di particolare, nemmeno
a credere che la sua squadra l’avrebbe salvato o ad
arrendersi alla propria morte.
Semplicemente
si trattava di un'unica cosa.
Stava
male.
Stava
veramente male e dopo aver realizzato in che situazione si trovava e
capito cosa sarebbe successo di lì a poco, non era riuscito
a far nulla se non rifugiarsi nel caldo e piacevole pensiero della
persona che per lui contava così tanto da star meglio nel
pensarlo.
Don
stava così male che per la prima volta in vita sua ogni
forza fisica, mentale ed interiore scemarono permettendogli di
aggrapparsi ad un'unica cosa. La migliore che gli permise di rimanere
ancorato alla realtà e a non svenire di nuovo.
Colby.
All’FBI
era semplicemente il caos.
Dall’inizio
di quella giornata le cose erano andate sempre peggio e proprio sotto i
loro occhi, consapevoli di quanto stava accadendo, mentre tutti si
erano adoperati per non farle degenerare fino a quel punto.
Eppure
era tutto accaduto ugualmente e non rimaneva altro che rimediare.
Sarebbe
certamente stato possibile in tempi più brevi se alcune
persone specifiche, però, non fossero
nell’agitazione e nel panico più completo.
Ma
non tutti.
Nell’ufficio
che normalmente lasciavano a Charlie per i suoi calcoli matematici,
quest’ultimo stava lottando con sé stesso davanti
alla lavagna, con il pennarello in mano ed un fascicolo sotto gli occhi.
Occhi
che si chiudevano ed aprivano ogni due secondi nervosi e stressati. Una
lotta non da poco, la sua.
Fra
il fratello di Don e il matematico che poteva essere determinante per
trovare l’agente rapito.
Sarebbe
andato tutto bene, liscio come l’olio e molto in fretta se le
due persone non fossero coincise con la stessa.
Charlie
doveva semplicemente combattere con l’emotività
che metteva i bastoni fra le ruote alla mente analitica, logica e
razionale. Non era facile lavorare in quelle condizione, mentre la sua
testa era occupata da mille pensieri e doveva fare troppe cose insieme.
Se
colui che cercava non fosse stato suo fratello le cose sarebbero state
più semplici ma dovendo fermarsi ogni momento per ricordarsi
che dipendeva anche da lui il riuscire a ritrovarlo in fretta, non lo
faceva andare veloce quanto normalmente era e quanto avrebbe voluto.
Da
un lato le immagini su ciò che suo fratello stava passando e
la consapevolezza che comunque l’esplosione l’aveva
sicuramente colpito lo stesso anche se non ucciso, dall’altro
si ricordava che doveva darsi da fare, che le sue analisi e teorie
matematiche potevano trovarlo, che doveva sbrigarsi e mettere da parte
i suoi sentimenti.
Sentimenti
che erano esplosi in lui insieme all’auto di Don e che non
gli davano tregua.
Normalmente
reagiva diversamente agli shock ma quella volta era diverso, si
trattava di suo fratello.
Come
poteva far finta di nulla e gettarsi nell’unica cosa che
riteneva sicura e fidata nella sua vita?
Non
era riuscito a salvare Don quando avrebbe potuto, era anche colpa sua
se ora erano in quella situazione. Se l’avesse fermato in
tempo ora lui sarebbe lì. Se lo ripeteva come una litania
senza trovare pace, crescendo così il suo tormento.
Nella
mente si susseguivano le scene vissute solo poche ore prima. Suo
fratello che saliva sulla macchina, lui che aveva quell’idea
atroce, Colby che si fermava per chiedergli cosa fosse, lui che glielo
spiegava staccando solo un istante gli occhi dall’auto e
questa poi che esplodeva facendoli saltare indietro.
Come
poteva non rivivere tutto?
Tutta
la paura, il dolore, la follia, il nulla. Il suo cervello si era
spento, per un lunghissimo attimo non era stato in grado di fare nulla,
non ricordava cosa aveva fatto, dove era stato. Non aveva capito
proprio niente.
Si
era davvero sospeso ed era tornato con Colby che gli diceva
l’assurdo più inaudito.
Quando
aveva capito che Don era vivo aveva pianto e parte di sé
stesso era stata meglio, ma il dover fare qualcosa freddamente e
lucidamente non era una passeggiata visto che continuava a girarsi
verso gli uffici dietro di lui sperando di rivedere suo fratello
lì come sempre e rendersi conto che quello era solo un sogno
orrendo.
In
passato aveva capito che la sua paura era quella di avere di nuovo
paura e non poter più controllare sé stesso e
ciò che lo circondava, ma di fatto ora si scopriva ad averne
un'altra ben peggiore dell’altra.
Una
che aveva sempre fatto in modo di ignorare e non contemplare seriamente
grazie a molti fattori.
Ma
ora non poteva più far finta di nulla.
Ora
era lì davanti ai suoi occhi, senza pietà,
gigante e crudele più che mai.
Non
aveva mai avuto un gran rapporto con Don ma da quando si erano
avvicinati così tanto, Charlie, semplicemente aveva iniziato
ad aver paura di perderlo.
Di
vederlo morire sotto i suoi occhi.
Però
doveva sforzarsi di lavorare. Doveva, non aveva scelta, non poteva
lasciarsi sopraffare tanto dai sentimenti. Quelli non avrebbero aiutato
suo fratello, la sua matematica e la sua freddezza sì,
quindi ora doveva sforzarsi di ritrovare il suo sangue freddo. Doveva.
Non aveva scelta. Per lui.
Per
Don.
Tutti
si stavano prodigando per lui, non doveva essere da meno.
Quando
la porta si aprì di nuovo, Charlie si voltò di
scatto pieno di una speranza che gli rendeva gli occhi lucidi e
l’espressione apertamente preoccupata e ansiosa.
Vide
Colby più nervoso di lui e capì che non lo
avevano ancora trovato e che era lì solo per sapere se aveva
ottenuto qualcosa.
Tornò
a girarsi di nuovo stizzito verso la lavagna.
-
No, Colby, non ho ancora finito! Non è facile se continui ad
interrompermi ogni momento! – Rispose seccato per nascondere
il proprio stato d’animo che in realtà voleva solo
urlare.
Colby
sospirò piegando le spalle in segno di delusione, aveva
sperato in lui ma forse quella volta non ci sarebbe riuscito come
faceva sempre. Questa volta, magari, era troppo preoccupato per il
fratello e non sarebbe riuscito a lavorare come ogni volta.
E
se lui non l’avrebbe aiutato e loro avrebbero continuato a
brancolare nel buio che sarebbe successo a Don?
Cosa?
Non
poteva pensarci.
Doveva
continuare a cercare, cercare in ogni modo, scavare e scavare
finché non avrebbe trovato la pista giusta.
A
costo di setacciare lui stesso tutta la città, lui avrebbe
trovato Don.
Si
era allontanato un solo istante. Uno stupidissimo istante.
Per
il resto della sua vita non se lo sarebbe mai perdonato.
Mai.
Ogni
volta che si fermava davanti ad una strada sbarrata o non completamente
spianata, la sensazione di impazzire lo coglieva.
Si
sentiva in colpa quanto Charlie e come lui lottava per non lasciarsi
andare e per essere utile, per trovare qualcosa che lo portasse a Don
ma i sentimenti che provava per lui gli stavano facendo passare
l’inferno tanto da fargli dimenticare che nessuno doveva
capire ciò che lo legava al proprio capo ora rapito.
O
sarebbe stato anche peggio, probabilmente.
Però
era consapevole di ciò che Don stava subendo, di come stava
e di quel che pensava. Ci era passato anche lui e lo sapeva
così bene da poter avere su di sé di nuovo quelle
stesse sensazioni.
Si
ricordava che in quei momenti aveva solo continuato a guardare fuori
nella speranza di veder arrivare lui a salvarlo. Gli si era affidato
completamente e unicamente. La fiducia nell’unica persona in
cui aveva sempre creduto era stato tutto ciò che gli aveva
permesso di non crollare e di resistere.
Però
poi quando la fine era ormai entrata in circolo nel suo corpo, aveva
solo sperato che ne sarebbe valsa la pena e che lui non ci fosse andato
di mezzo.
Assurdamente
aveva capito chi contava davvero per lui e tutto il resto si era
annullato.
Don
gli somigliava ma non era uguale a lui.
Stavano
insieme, ormai, e nel dolore acuto ed allucinante che aveva dopo
l’esplosione a cui era miracolosamente scampato e
sopravvissuto, non ragionava nemmeno più lucidamente.
Doveva
farcela.
Doveva.
A
costo di farsi scoprire.
-
Scusa, non voglio metterti fretta ma... – Ma non
riuscì a concludere la frase. Che dire?
Gli
sembrava inutile anche parlare.
Charlie
si girò di nuovo capendo che probabilmente Colby stava
peggio di lui dal momento che stava insieme a Don.
Charlie
era l’unico a saperlo.
Sospirò
cercando in sé una forza che non aveva davvero.
-
Lo so. Vedrai, lo troveremo. – Si stupì lui per
primo della decisione che riuscì a mettere in quelle parole,
come se ci credesse davvero.
Certo,
non si era già rassegnato ma la paura continuava a divorarlo
e se non avrebbe risolto l’analisi che stava svolgendo prima
che il suo esaurimento si completasse, non sarebbe arrivato da nessuna
parte.
Colby
capì perfettamente lo stato in cui il ragazzo era e
apprezzò il suo tentativo di rassicurarlo.
Aveva
ragione.
Dovevano
almeno sforzarsi di credere che sarebbero arrivati in tempo.
Si,
perché lui, il dubbio sul fatto che l’avrebbero
trovato, non l’aveva affatto.
Il
problema era se l’avrebbero trovato ancora vivo oppure
già morto.