CAPITOLO
III:
INFERNO
/We’re
no here – Mogwai/
Le
ore sembrarono non passare più o forse era proprio il
contrario, volarono.
Dipendeva
certamente dai punti di vista.
Per
Colby il tempo sembrò volare, mentre tentava di far
ragionare il suo capo che voleva proteggere senza fargli fare nulla di
avventato; per Don, invece, (il suddetto capo da proteggere) le ore
andavano lentamente, fin troppo. Sembravano non muoversi più.
Nemmeno
una giornata intera era ancora passata e non avevano fatto nessun passo
ulteriore in avanti.
Charlie
chiuso insieme a Don nell’ufficio dell’FBI lavorava
instancabilmente su calcoli e teorie per poter tirare fuori qualcosa di
utile a Don affinché potesse catturare al più
presto l’assassino in circolazione, ma la verità
era che gli ci sarebbe voluto di più. Più tutto:
tempo, dati, indizi, calma… l’ansia per le
probabili follie che il fratello maggiore di lì a poco
avrebbe tentato, erano deleterie per lui che era abituato a tirare
fuori cose geniali in condizioni meno stressanti. Certo
‘l’ansia da prestazione’ collaborando con
l’FBI era normale, per lui, però quel tipo di
ansia che sfociava quasi nell’angoscia no.
Inoltre
c’era quella stranissima sensazione crescente che oltre a lui
la provava anche Colby. Quella sensazione che sembrava dirgli che le
cose sarebbero peggiorate, di fare in fretta, di sbrigarsi, di tirare
presto fuori qualcosa, di ottenere il risultato decisivo.
Più si ripeteva questo con un angolo sempre più
rumoroso della sua mente, meno andava veloce.
Don
non gli metteva pressione, certamente, ma non aveva molto in mano dopo
aver promesso di uscire da quell’edificio solo per andare a
casa a dormire insieme a Colby.
L’idea
di poter uscire a patto di dormire con lui gli piaceva tanto da fargli
mettere da parte il pericolo e la rabbia; pensava, nonostante tutto,
che non tutto il mal venisse per nuocere e consapevole che ormai per
quel giorno non ci sarebbero state mosse da parte di nessuno dei due,
si rassegnò a seguire il consiglio della squadra e a farsi
scortare dal suo uomo all’auto.
In
ascensore si trascinò anche Charlie orinandogli di andare
anche lui a casa a dormire, concedendogli al massimo di continuare a
lavorare laggiù.
Era
sicuro che per lui non ci sarebbero stati pericoli poiché
all’epoca in cui Don catturò Johnsson rovinandolo,
Charlie non era nemmeno una vaga idea nella sua mente. Sostanzialmente
quell’uomo non sapeva nemmeno dell’esistenza del
professore e del suo prezioso aiuto, quindi sapeva bene che non avrebbe
dovuto preoccuparsi per lui.
Mentre
l’abitacolo di latta scendeva col solito andamento privo di
alcuna fretta, passando i vari piani dell’alto edificio, i
tre uomini continuarono a parlare a spada tratta del caso come se non
ci fossero altri argomenti al mondo.
-
Per oggi ormai non farà nulla, tanto vale davvero andare a
riposare. – Disse Don rassegnato, sperandoci poco lui stesso
in quell’affermazione. Aveva l’aria molto stanca ed
il viso segnato dal sonno che tentava di vincerlo. Quella giornata si
era strapazzato per bene, in fondo era quasi morto addirittura due
volte. Quella sensazione adrenalinica per nulla piacevole avrebbe
debilitato chiunque, persino lui.
-
Appena metterai piede fuori casa, domani mattina, aspettati qualcosa da
Johnsson. Fatti venire a prendere da qualche auto
dell’FBI… - Rispose quindi Charlie stringendo
alcune cartelle inerenti al caso per poter continuare a lavorare a
casa. Aveva anche lui un viso segnato ma più che altro era
preoccupato per il fratello e vederlo così, nonostante
tutto, a Don fece piacere poiché il loro rapporto si era
ristabilito e sistemato solo dopo che era venuto a collaborare per
l’FBI. Prima di quel momento non era stato
granché.
-
No, ci sarà Colby con me e poi non sono uno sprovveduto, in
tutti questi anni di servizio ci sono state un sacco di persone che
hanno tentato di farmi fuori. Credimi che non è poi
così facile riuscirci… - Si lamentò il
maggiore con la sua solita aria brusca e sicura mentre Colby asseriva
con la testa ricordando i molti casi in cui era riuscito a cavarsela da
solo. Non poteva che essere d’accordo, farlo fuori fino a
quel momento era stato difficile e riuscirci ora solo perché
uno più folle degli altri lo voleva particolarmente, non
avrebbe cambiato quel fatto. Forse avevano ingigantito tutto
più di quanto non ne valesse effettivamente la pena.
-
Ok ma perché non venite a dormire tutti e due da me? Non
è meglio? – E per quale motivo sarebbe stato
meglio? Se lo chiesero facendo fatica a non tossire apertamente
contrariati ed imbarazzati da quella proposta. Imbarazzati visto quanto
erano contenti, invece, di poter finalmente stare da soli con
l’autorizzazione e la benedizione di tutti!
-
No grazie, Charlie. È pericoloso per te e papà,
non voglio coinvolgervi… - Disse quindi Don consapevole che
l’espressione di Colby in quel momento sarebbe stata
encomiabilmente trattenuta, al contrario di quel che la sua testa
pensava!
“Figurati
se mi perdo l’occasione!” Si
stava infatti dicendo fra sé e sé facendo proprio
finta di nulla.
Fecero
effettivamente molta fatica a non ridere e quando Charlie si
rassegnò a non insistere più senza capire a fondo
la motivazione, le porte finalmente si aprirono lasciando prendere ai
due agenti trattenuti fino allo spasmo, un po’
d’aria.
-
Ti accompagniamo? – Chiese poi Don una volta fuori
dall’FBI mentre attraversavano il ponte dirigendosi alla
propria auto. Quelle di Colby e Don erano parcheggiate non molto
distanti l’una dall’altra nei primi buchi trovati
disponibili.
-
No, no grazie, non serve. Andate subito a riposare, io passo
all’università, spero di trovare Larry. Devo
chiedergli una cosa… - Rispose Charlie senza più
far caso allo strano comportamento del fratello in ascensore. Non ci
aveva fatto molto caso, preso com’era dai calcoli lasciati in
sospeso e dalle probabilità che Don, mettendo piede fuori,
fosse investito da qualche altro cataclisma causato da Johnsson.
-
Andiamo con la mia. – Fece poi Don dirigendosi alla sua auto
tipicamente federale, scura, grossa, nera e con i vetri oscurati.
-
Si. – Rispose Colby rallentando il cammino, osservando
Charlie fermarsi indietro con un espressione strana. Era come se avesse
avuto un illuminazione dell’ultimo minuto ma una di quelle
poco piacevoli, difficili da esporre non perché complesse ma
perché coinvolgeva una persona che non avrebbe voluto,
troppo importante per lui. Se nelle sue ipotesi matematiche
c’era di mezzo Don il suo compito peggiorava non solo
nell’esporlo ma anche nel verificare le proprie idee.
-
Charlie? – Lo chiamò Colby fermandosi indietro con
lui, osservando l’espressione sempre più
preoccupata e pensierosa che non diceva nulla di buono. Ormai lo
conosceva, sapeva di cosa si trattava.
-
No è che… - Provò ad iniziare il moro
dai capelli ricci tutti intorno al viso mentre entrambi con un solco
contrariato sulla fronte perdevano Don di vista per un istante che
salì sulla sua auto al posto di guida, opposto rispetto a
dove si trovavano loro in quel momento. – E’ una
specie di… non so nemmeno come definirla… - Qui
Colby si preoccupò davvero. Lui così smarrito che
non sapeva definire qualcosa non era normale, anzi. Forse non era mai
successo, che lui ricordasse.
Inghiottì
cercando tutto il suo sangue freddo per digerire la consapevolezza che
se anche Charlie si trovava in quelle condizioni, qualcosa troppo
presto non sarebbe andato bene.
-
Prova a dirlo… - Lo esortò ansioso consapevole di
quanto importante fosse sapere il pensiero che vorticava nella mente
veloce e piena di nozioni e statistiche di quel ragazzo.
Entrambi
non stavano guardando più la stessa persona la cui forma
ormai era confusa a causa del vetro oscurato. Sapevano era
lì dentro e che stava per mettere in moto, ma in
realtà non lo avrebbero visto chiaramente nemmeno
guardandolo. Il punto era che la loro conversazione, lo sapevano bene,
era di vitale importanza per lo stesso a cui entrambi tenevano, il
protagonista di quelle brutte sensazioni e di quelle grandi
preoccupazioni.
-
In base alle probabilità che ho steso in giornata
velocemente riguardo ai modi in cui Johnsson potrebbe attentare alla
sua vita, uno con un alta percentuale è proprio
l’esplosione della sua auto. – Riuscì a
dirlo, in realtà aveva una definizione specifica che
esisteva perfettamente nella sua mente, la sapeva, però il
fatto che potesse verificarsi proprio di lì a poco davanti
ai loro occhi fece a pugno con la sua emotività. Il
desiderio che così non fosse portò
l’agente che aveva appena ascoltato quella frase simile ad un
proiettile, ad esitare e ad impedirgli di salire immediatamente sulla
macchina in questione.
Tutti
e due, uno realizzandolo ed uno ascoltandolo, avrebbero dovuto
impedirlo, certamente, specie Colby.
Non
avrebbero dovuto staccarsi da lui un secondo.
Però
fu quella preoccupazione verso Don stesso ad impedire ad entrambi di
fare la cosa giusta.
Preoccupazione
e sentimenti.
Una
combinazione deleteria che per qualcuno sarebbe costato molto.
Semplicemente
la paura che potesse davvero avverarsi combatté
violentemente in entrambi con il desiderio e la speranza che
così non fosse.
Nella
realtà Charlie non finì nemmeno di dire
completamente ciò che doveva, disse una parte di tutta la
spiegazione che sarebbe dovuta uscire dalle sue labbra e appena prese
fiato senza mutare espressione, girando insieme gli occhi e puntandoli
sul veicolo di Don come mossi da una forza premonitrice invisibile,
l’esplosione si levò innanzi a loro facendoli
sobbalzare all’indietro fino a farli finire a terra, stesi,
shockati e tramortiti.
Proprio
lì, a qualche metro da loro, l’automobile di Don
con presumibilmente lui dentro esplose in una fiammata che non ebbe
pietà di chiunque coinvolse e colpì.
Il
cielo scuro della sera si dipinse di arancione e parve quasi il
tramonto mentre ogni effetto sonoro svanì
nell’intero isolato.
Una
sorta di musica drammatica si levò immaginariamente come
sottofondo a quella che parve a tutti gli effetti una tragedia senza
precedenti.
Il
silenzio cadde concretamente e prima di poter reagire e capire cosa
fosse successo, passò un lasso di tempo indefinito. Tanto?
Poco?
Nessuno
avrebbe potuto dirlo.
Solo
che quell’ansia che entrambi un istante prima avevano provato
guardando in quella direzione, sembrava esplosa con l’auto.
E
Don?
Anche
lui era esploso?
Quando
si fecero entrambi quella domanda fu segno che il loro cervello permise
loro di connettere di nuovo, eppure i rispettivi sensi non erano ancora
attivi, le funzioni vitali erano annullate per lo shock e
l’onda d’urto.
Però
quando la vista tornò si trovarono a terra girati verso le
fiamme che provenivano dall’auto di Don. Fiamme. Fuoco.
Silenzio.
Morte?
La
vista mostrò solo quel desolante spettacolo mentre
l’intuizione fu così crudele da far realizzare
l’irrealizzabile.
E
con un sonoro senza sonoro, la voce uscì senza che ne
fossero coscienti. Ma forse non uscì, forse non davvero.
Forse
lo immaginarono, o magari fu solo Charlie a gridare. O forse era Colby
e al contrario Charlie era quello che credeva di urlare senza farlo
davvero.
Fatto
fu che in ginocchio a terra coi fogli che volavano in aria, uno dei due
riuscì a gridare straziante il nome di Don, mentre
l’altro aprì la bocca ma non fu in grado di
emettere nemmeno un suono.
Chi
dei due fece cosa non lo seppero mai.
La
coscienza fu crudele, gli ridonò solo la consapevolezza di
quanto accaduto ma non la lucidità per agire. Non subito.
Il
primo a riprendersi fu Colby che più abituato
dell’altro a certe prove fisiche, si rialzò prima
con quella di buttarsi di getto nelle fiamme che avvolgevano il veicolo
di cui, ormai, non si distingueva nemmeno il colore.
Fu
fermato da un agente accorso e poi da un altro ed un altro ancora.
Buttarsi
là dentro per tirare fuori chiunque ci fosse, sarebbe stato
solo un suicidio e mentre le sirene dei vigili del fuoco si
avvicinavano veloci, Colby continuava a lottare portando gli altri che
tentavano di fermarlo a chiedersi dove la tirava fuori quella forza in
grado di metterli in difficoltà. Voleva solo andare da lui,
dal suo uomo da cui si era separato solo un istante, un istante.
Era
entrato, i vetri l’avevano nascosto e non l’aveva
più visto.
Più.
L’ultima
parola che si erano scambiati… cos’era stata?
Non
capiva più nulla, assolutamente.
Solo
che voleva andare là e qualcosa glielo impediva. Nemmeno
tutta la forza che aveva in corpo gli consentì di fare quel
che voleva con tutto sé stesso, alla fine fu schiacciato
contro l’asfalto, sorpassato dai vigili per spegnere il fuoco
e da altri agenti di servizio che allontanavano i curiosi e chiunque
tentasse di vedere cosa fosse successo.
Probabilmente
l’unica definizione che nella mente di Charlie
arrivò, in quel momento, fu ‘Inferno’.
“Allora
è così…” Si
disse senza sapere di preciso a cosa si riferisse. Se alla morte di
Don, se ai propri sentimenti davanti a quella tragedia oppure se alla
sua previsione inutile che, fatta tempestivamente, avrebbe potuto
salvarlo.
O
magari all’Inferno stesso.
Per
uno la cui unica religione era la matematica e la propria logica
mentale, chiedersi se l’Inferno fosse così fu
sconvolgente probabilmente più dell’innamorarsi.
Non
seppe cos’altro provò, non seppe cosa successe,
non seppe cosa fecero gli altri, non seppe chi lo raggiunse, non seppe
cosa gli dissero, non seppe chi lo toccò, non seppe dove lo
portarono, non seppe cosa fece Colby, non seppe cos’era
ciò che osservava senza vedere davvero.
Non
seppe.
Non
seppe nulla.
Per
un indefinito proverbiale momento il suo cervello dal Quoziente
Intellettivo sopra la norma, veloce e sorprendente nonché
geniale, si spense.
Impossibile?
Eppure
a lui successe.
Lo
visse diversamente da Colby, il fidanzato di Don.
Lo
visse come uno che viene inavvertitamente sbalzato fuori dal proprio
corpo, quindi mente ed anima viaggiano in frequenze diverse. Lo visse
così.
Colby,
invece, lo visse pieno di sentimento, di rabbia, di dolore e di
passione. Qualunque cosa potesse esternare insieme a
quell’esplosione che sconvolse tutti coloro lo conoscevano e
lo vedevano in quelle condizioni.
Nessuna
lacrima, solo urla, urla disperate e rabbiose, urla che lo chiamavano
senza ottenere risposta.
Urla.
Si
sentì dilaniato, come l’ennesima terribile botta
inaffrontabile.
Non
sarebbe sopravvissuto, non anche alla sua morte.
Ne
aveva passate molte, troppe. Quella volta se Don fosse morto davvero,
non ce l’avrebbe fatta.
Eppure
cosa faceva?
Ci
credeva?
Era
la vana speranza di un folle quella che gli impediva di smetterla di
chiamarlo e gli faceva guardare come l’acqua spegneva
quell’incendio?
Vana
oppure concreta?
Cosa
sperava di trovare, una volta che tutte quelle fiamme sarebbero state
spente?
Forse
fare la guerra non gli era bastato per rassegnarsi in fretta davanti
all’inevitabile dolore e all’evidenza.
Forse
Charlie era troppo razionale per non credere che dopo un esplosione
simile nessuno può sopravvivere.
Forse
la verità si sarebbe vista di lì a poco.
Quando
gli altri colleghi li raggiunsero allarmati nel giro di un istante,
tutti pensarono che ormai era tardi e mentre David andò a
tirare via Colby con la forza, abbracciandolo come solo un amico
ritrovato poteva fare, Megan andava diretta da Charlie stringendolo a
sé materna e disperata come una madre ed un amica insieme.
Cosa
credere?
Cosa
pensare?
Cosa
dire?
Cosa
fare?
Se
lo chiesero mentre non ebbero il coraggio di domandare cosa ci facesse
Don da solo nell’auto. Tanto sarebbe esplosa comunque, quella
macchina. Con o senza loro. Morte inevitabile, dunque?
Ma
la domanda, in realtà, non era affatto quella e il primo a
comprenderlo, in mezzo al dolore e alla disperazione di chi non voleva
arrendersi dal momento che non versava ancora nemmeno una lacrima,
stranamente, fu Colby.
Quando
vide lo scheletro carbonizzato dell’automobile, corse
sgusciando dalle braccia di David senza nemmeno averle sentite. Gli
altri lo guardarono fiondarsi al posto di guida dove sicuramente, tutti
ne erano certi, avrebbe trovato i resti altrettanto carbonizzati del
corpo del loro capo, agente ed amico.
Non
si rese davvero conto di ciò che fece, aveva solo un unico
pensiero fisso.
Finché
non l’avrebbe toccato e visto sbriciolarsi sotto le sue dita,
non ci avrebbe creduto alla sua morte.
Mai.
E
fermo immobile davanti al sedile di guida dove aveva visto sedere e
sparire Don, non vide nulla.
Nulla
se non un sedile vuoto bruciato.
Nessuna
traccia di nessun corpo morto esploso, nulla, nemmeno le ceneri.
Come
se la sua preghiera fosse stata esaudita, come se
l’intensità del suo dolore avesse commosso
qualcuno di molto in alto e l’avesse accontentato.
Lì
non c’era nessun cadavere, nessun corpo.
Lì
Don non c’era e mentre Colby lo realizzava una seconda
esplosione avvenne in lui, un esplosione che sollevò in aria
la sua anima appesantita e bruciante. Un anima ora di nuovo in
sé.
La
follia che l’aveva invaso nel dolore di un solo istante
prima, ebbe pietà di lui e la ragione tornò
così come il sangue freddo.
Un
sangue che comunque di freddo ebbe effettivamente poco.
Quando
si staccò dai resti dell’auto dove la puzz
impediva di respirare a pieni polmoni, la forza e la decisione si erano
rimpadroniti di lui ancora di più e con una nuova luce
spietata e determinata nello sguardo che si colpevolizzava di tutto,
andò dritto e spedito da Charlie ignorando tutti quelli che
tentarono di fermarlo e parlargli.
Andò
unicamente da lui e non per accusarlo di qualcosa come stava facendo
lui stesso in quello stato catatonico in cui non capiva cosa gli
succedeva intorno, andò là con un unico scopo
preciso. Senza aver ottenuto ciò che voleva non se ne
sarebbe andato.
Non
avrebbe mollato, a qualsiasi costo, pronto a tutto, davvero a tutto.
E
di una persona così seria, disperata, innamorata e
determinata c’era davvero da aver paura.
Davvero.
Specie
considerando che Colby non era uno qualunque!
Capendo
che Charlie non aveva ancora reagito, non considerando affatto il suo
stato d’animo, lo prese per le spalle e scuotendolo
violentemente senza il minimo riguardo, gli gridò a poca
distanza dal suo viso:
-
TROVALO, CHARLIE! TROVALO! SEI L’UNICO CHE PUO’
RIUSCIRCI! LUI CONTA SU DI TE! LUI SA CHE SOLO TU PUOI TROVARLO!
TROVALO! –
-
Ma che stai dicendo, Colby? Calmati per favore… Don
è… - Non ebbe il coraggio di dirlo, Megan, mentre
tentava invano di staccare il collega dal giovane che a sua volta lo
guardava senza vederlo, o meglio senza capire cosa stesse dicendo,
perché gli chiedesse di trovare un morto. Come poteva essere?
Era
impazzito?
Lentamente
la ragione gli stava tornando davanti alle richieste illogiche ed
impossibili dell’amico.
Ma
quando Colby lo disse, anzi, lo gridò, per lui fu come
rinascere di nuovo:
-
DON NON E’ MORTO! NON C’E’ TRACCIA DI LUI
IN QUELL’AUTO! NON SO COME DIAVOLO HA FATTO E DOVE LO HANNO
PORTATO, NE’ QUANDO CI SONO RIUSCITI, PERO’ I FATTI
PARLANO. IN QUELL’AUTO NON C’E’ NESSUN
CORPO CARBONIZZATO! DON E’ VIVO DA QUALCHE PARTE! –
Esattamente.
Fu
davanti a queste urla che Charlie resuscitò insieme
all’anima di suo fratello che aveva creduto essere morto.
Si
era sentito illogicamente strappare via dal mondo e dal proprio corpo,
il suo IO per un momento indefinito non c’era stato e si era
svegliato fra le scosse violente di Colby e le sue urla rabbiose e
decise. Urla che gli ordinavano di trovarlo.
Se
lui non era morto ed era tenuto da qualcuno da qualche parte,
l’avrebbe trovato.
Quel
che contava, per lui, era che non fosse morto.
E
le lacrime gli scesero dagli occhi sciogliendo la tensione per
l’Inferno che aveva appena passato e superato.
Charlie
certamente non credeva in Dio, come poteva? Però il
‘grazie’ che si formò nella sua mente
non seppe proprio a chi fu rivolto, eppure non trovò
importante, per una volta, cercare risposte.
C’era
qualcosa di molto più importante da fare.
Molto
di più.
Trovare
suo fratello.