CAPITOLO
V:
SALVEZZA
/The little
things – Danny Elfman/
Era
indeciso se cominciare dalla schiena, la parte più ustionata
e dolorante e quindi sensibile, oppure dal davanti, dove avrebbe potuto
resistere di più.
Era
una scelta importante.
Nel
primo caso sarebbe andato fuori gioco presto visto lo stato in cui era,
nel secondo avrebbe resistito di più.
Forse
gli conveniva scegliere il davanti.
Osservandolo
assorto e concentrato come se da quella scelta dipendesse tutta la sua
vita, Johnsson rimase in piedi davanti al letto dove Don era legato ed
in condizioni già pietose di per sé.
Sicuramente
gli era venuta la febbre per l’infezione ed il dolore, sudava
copiosamente e si sforzava di non esprimere il suo terribile stato con
smorfie in viso. Si tratteneva per non dargli troppa soddisfazione ma
sapeva bene quanto già stava male.
Questo
gli dava più sollievo ma non abbastanza.
-
No, non puoi cavartela troppo in fretta. È giusto che ci
prendiamo il tempo che ci serve, tutto quello che possiamo. Non te ne
andrai così presto! – Disse infine decidendo
contento abbassandosi su di lui.
Lo
contemplò da vicino sperando in una reazione soddisfacente
ma con suo sommo disappunto notò che gli occhi arrossati e
sofferenti di Don si riempirono solo di più odio. Nemmeno
l’ombra della paura.
“Mi
implorerai di smetterla, caro Eppes. Vedrai.”
Pensò
infine estraendo uno dei coltelli da professionista per quel genere di
torture su corpi umani. La pistola era nella cintola, non
l’avrebbe usata, troppo facile ucciderlo così.
Doveva soffrire di più. Lui gliene aveva fatte tante, in
fondo. Non poteva pretendere una morte veloce ed indolore.
Si
rialzò di poco, quindi prendendo quel che rimaneva della sua
maglia, la strappò in mezzo come a creare una cerniera che
non c’era. Aperto l’indumento scoprì il
suo torace allenato e ben modellato.
Presto
si sarebbe ridotto diversamente…
Al
pensiero sorrise caldamente con una viscida luce di eccitazione negli
occhi.
Don
comprese in un istante tutto quel che gli sarebbe successo e
capì che non ci sarebbe stato verso di cavarsela da solo in
alcun modo, né con le parole né senza.
Poteva
solo resistere e aspettare Colby arrivare da quella porta.
“Forza
ragazzi. Ti prego Charlie, trovami.”
Come
se improvvisamente loro fossero la sua ultima speranza.
Lento
fra il sorriso sbieco e agghiacciante del suo rapitore,
sentì il coltello carezzargli la pelle accaldata e sudata,
aveva violente scosse di freddo. Non riusciva a stare fermo a causa del
dolore alla schiena, sperava di sentire un po’ di sollievo in
qualche modo ma legato a quel modo non c’era verso. Inoltre
era disidratato e le forze gli venivano sempre meno, non avrebbe
resistito a molto già senza bisogno di nessuna tortura.
Consapevole
in modo preciso e completo di tutta la propria situazione si costrinse
a non staccare gli occhi febbricitanti da quelli sempre più
folli di Johnsson.
Doveva
guardarlo perché a momenti sarebbe entrato Colby, da quella
porta, e l’avrebbe ucciso. Doveva vederlo morire e lui doveva
essere l’ultima cosa che vedeva prima di andarsene.
Quella
l’ultima imposizione, l’ultima sfida,
l’ultima tortura.
Arrivò
dunque l’affondo della punta della lama proprio sulla sua
guancia, esattamente sotto gli occhi.
-
Voglio prepararti per l’ultima operazione che
farò. Ti caverò gli occhi. Ops, scusa, penultima.
L’ultima sarà cavarti il cuore. Voglio che mi
guardi mentre ti faccio tutto questo. Esprimo solamente tutto
ciò che provo per te e te lo dimostro a gesti. Sono quelli
che tu vuoi. Fatti, non parole. No? Ricordo bene come sei? Voglio che
conservi questo tuo sguardo fino alla fine. Guardami con
sfacciataggine, senza la minima paura, con odio e fervore. Fallo,
alimentami. Più tu lo fai, più a me viene voglia
di lacerarti ogni pezzo di carne. Se pensi che ci sia ancora uno
spiraglio di lucidità e sensatezza su cui fare appello per
salvarti, ti sbagli. Non c’è la minima ragione in
me. Ormai è tutto svanito durante tutti quegli anni di
carcere. Hai idea di cosa si provi a stare là dentro?
– E mentre le sue elucubrazioni sempre più
insensate e folli proseguivano, la mano col coltello iniziava il suo
viaggio sulla carne di Don.
Carne
intatta ancora per poco.
Affondò
sotto gli occhi, sullo zigomo, preparando una specie di scia di lacrime
ipotetiche che sarebbero potute scendere di lì a poco,
secondo i piani insani di quell’uomo.
Nulla.
Non provava ancora nulla nel ferirlo. Ma era appena
all’inizio… confidava di riuscire a fare di
meglio.
Fece
altrettanto nell’altra guancia senza andare volutamente a
fondo. Non voleva fargli già perdere i sensi, voleva che
rimanesse sveglio ancora un po’.
Don
naturalmente provò dolore ma rispetto a quello che
sopportava sulla schiena era nulla, quindi non fece molte smorfie e non
si lamentò nemmeno. Il sangue cominciò a colargli
dai graffi sul viso, scendendogli lateralmente. Da lì
andò sul collo che non toccò consapevole dei
punti deboli fatali, quindi arrivò al petto. Lì
poteva lasciarsi liberamente andare.
Il
sorriso si accentuò privo della luce della ragione e
sentendosi via via più eccitato ed inebriato per
l’idea di quel che poteva fare, non diede altra tregua a Don
e riprese ad affondare la punta del coltello nella sua carne, questa
volta in mezzo ai pettorali, proprio dove dopo avrebbe approfondito per
togliergli l’organo pulsante che lo manteneva in vita. Un
organo che al momento andava in accelerando pompando quanto
più sangue poteva viste le perdite che continuava a subire
quel corpo.
Il
dolore fu maggiore, quella volta, ed un piccolo lamento gli
uscì mentre le idee gli si facevano sempre più
confuse. Continuare a guardarlo in viso alimentato dal proprio odio e
ribrezzo gli risultava difficile. La nausea gli contraeva lo stomaco ed
ogni muscolo lottava contro l’atrofia che lo invadeva. Voleva
urlare ma l’orgoglio gli diceva che non era ancora al limite.
Che poteva farcela. Che anche quel dolore sarebbe stato passeggero.
“Colby
arriverà. Arriverà.”
Eppure
non è che vacillò, quando le sue mani scesero
alla cinta dei suoi jeans, ma la sua preghiera si fece più
intensa e forte mentre la paura che lenta si ingigantiva in lui, gli
faceva capire che ben presto non ci sarebbe stato null’altro
con cui distrarsi. Lui era bravo a convivere con le sue paure. Paure di
tutto. Del rischio, di morire, di farsi male, di perdere i suoi amici e
familiari, di non farcela… aveva molte paure, era umano, ma
semplicemente aveva imparato a conviverci grazie all’idea che
poteva comunque salvare qualcuno.
Ora
a cosa serviva tenere a bada la propria paura?
Ignorarla?
Ora
c’era solo lui e la propria morte e non aveva scampo.
Si
vide con gli occhi della sua predatrice mortale e capì che
anche se fino a quel momento era stato bravo a far finta di nulla
pensando ogni volta ad altro, adesso non poteva far altro che
arrendersi ad essa. Non c’era altro che poteva fare.
Guardarla
e lasciarsi andare.
Eppure
non ancora.
Poteva
resistere.
Finché
i sensi non si sarebbero persi e lui sarebbe rimasto sveglio, avrebbe
resistito.
Nemmeno
un urlo, no, non dalla sua bocca.
Però
il coltello gli strappò i bottoni ed i boxer mostrando
parzialmente il suo inguine, anche se non del tutto per ora.
-
Voglio proseguire con una parte che ora sicuramente non ti
servirà più. Quella che ti rende uomo. Tu sei un
uomo duro, no, Eppes? Uno con le palle. Pur di prendere i criminali
arrivi a tutto, non ti fermi davanti a nulla. Sei uno forte, sei uno di
quegli uomini eroici con cui tutti si sentono al sicuro. Ebbene voglio
vedere cosa succede senza la parte maschile di te. –
A
quella frase ancor più fuori da ogni logica ed
umanità, il coltello iniziò dal basso ventre a
lacerargli la carne, scendendo lento fin giù.
Sembrava
non avere fretta.
E
quelle iridi così luminose… i brividi che lo
percorsero lo scossero insieme a lamenti più consistenti. Ma
forse la forza di gridare nemmeno la possedeva più.
A
quel punto le idee erano così confuse da impedirgli di
capire dove fosse arrivato il coltello ed il dolore che provava era
talmente espanso in ogni parte del suo corpo, che non sapeva cosa fosse
intatto e cosa gli dolesse maggiormente.
L’Inferno
era quello?
Se
lo chiese anche lui mentre ostinato lottava per rimanere sveglio e non
perdere i sensi.
Cosa
gli stesse facendo quel pazzo, però, non era più
in grado di capirlo.
/The funeral
– Band of Horses/
-
Colby, questo è l’indirizzo che ho tirato fuori in
base a tutte le informazioni che mi avete fornito ed
all’ultima che mi hai dato poco fa. Don dovrebbe essere
lì. – La voce ansiosa e sbrigativa di Charlie
arrivò a Colby tramite il cellulare e mentre gli diceva
tutte le coordinate per arrivare al luogo da lui trovato con i suoi
calcoli, un presentimento colpì entrambi. Era giusto.
C’erano arrivati.
Ma
doveva essere il tempo, ad essere giusto, non solo il luogo.
Eppure
Charlie prima di riattaccare sentì smuoversi dentro un
sentimento di tale portata da spingerlo a dirgli anche un ultima cosa,
pensando che dirlo a lui prima che a tutti gli altri era un azzardo
poiché non avrebbe aspettato nessuno. Lo capì
sentendo il rumore dell'auto aumentare vigorosamente.
-
Riportamelo vivo. – Non una preghiera o una richiesta. Una
specie di ordine, qualcosa che lui doveva assolutamente eseguire.
Assolutamente.
-
Si. – Solo quello, poi Colby riattaccò
interrompendo la comunicazione cambiando marcia e schiacciando ancora
sul pedale dell'acceleratore.
La
corsa che fece fu la più spericolata della sua vita, girava
il volante con una mano sola per essere pronta con l'altra a cambiare
marcia e prendere la pistola prima ancora di mettere piede a terra.
Superava semafori rossi e viaggiava con la sirena accesa facendosi
largo nel traffico come volesse bruciarlo.
Poco
prima di arrivare, per l’anticamera del cervello gli
passò di avvertire anche gli altri per chiedere rinforzi e
lo fece fornendo l'indirizzo ma ormai la macchina si stava
già fermando davanti al posto indicato da Charlie. Sarebbero
arrivati tutti, certo, ma quando tutto sarebbe già finito.
Lo sapeva e non poteva aspettare.
Frenò
bruscamente lasciando un segno di gomme sull'asfalto che si sarebbe
visto ancora a lungo, davanti a quel cancello in ferro.
Era
lì.
Lui
non aspettava mai.
Così
col cuore in gola ed un emozione da fargli girare la testa e contrarre
lo stomaco corse giù dall’auto entrando nel posto,
una vecchia fabbrica in disuso da tempo.
Il
cuore gli batteva forte e poteva sentirlo chiaramente dettare un ritmo
incessante e teso. Un ritmo che cresceva senza pietà
togliendogli il fiato. Non sentiva nulla eppure era rivolto ad ogni
indizio uditivo per capire dove fosse.
Tutto.
Sarebbe
esploso, di lì a poco, se non l’avesse trovato
subito. Non ce l’avrebbe più fatta senza di lui ed
immaginare chissà quali torture il suo uomo stava subendo
era peggio del non averlo lì con lui.
Gli
era sparito da sotto gli occhi.
Era
impazzito in quelle ore e sul colmo dell’esasperazione,
completamente concentrato su quel posto e su dove Don potesse essere,
andò laddove il suo istinto lo portò, senza
ragionamenti di fondo, senza capire cosa e perché, senza
sentire chiaramente nulla di speciale.
Come
lui faceva di solito.
Buttandosi
e basta.
Nessun
urlo.
Andò
semplicemente in una delle molte stanze illuminate al contrario di
altre e senza la minima esitazione, con quel ritmo abominevole che gli
esplodeva in testa assordandolo, diede un calcio alla porta chiusa.
L’aprì con un gran fracasso e si
dimenticò anche di identificarsi. Vide subito e si
raggelò, ma il gelo durò solo un istante. Troppo
breve.
Quando
i suoi occhi scesero sulla scena che si stava consumando sul letto a
qualche metro da lui, il sangue gli andò totalmente alla
testa e quella famosa esplosione trattenuta a stento, avvenne
inesorabile e prepotente in lui.
Johnsson
chino su Don che gli lacerava la carne del basso ventre con folle
gioia.
Sarebbe
arrivato fino in fondo, gli avrebbe tagliato… cosa? Quanto?
E
il petto? E il viso?
Dove
sarebbe arrivato?
E
com’era la sua schiena?
Quanto
era sudato?
Stava
male, aveva un colorito da panico, soffriva…
Ma
fu solo un lampo ogni considerazione.
Colby
vide solo la lama del coltello affondata sebbene superficialmente sulla
pelle dell’inguine.
Arriva
un momento nella vitadi ognuno in cui perdi totalmente il controllo,
non capisci più nulla e completamente invaso dall'ira
più nera e violenta pensi ad una sola cosa mentre non ce la
fai più.
Stai
di nuovo perdendo chi ami?
No,
basta... non si sopravvive a questo ma prima di morire se lui muore
decidi di sfogare tutto il dolore lacerante che provi. E vuoi vendetta.
Solo vendetta.
Lo
vide e quella famosa esplosione avvenne cancellando ogni piccolo
residuo di gelo che l’aveva trattenuto.
Esplose.
E
basta.
Esplose
nel momento in cui Johnsson, vedendolo entrare, estrasse la pistola e
veloce quanto il suo lampo di rabbia omicida che gli deformava il bel
viso, tentò di sparare prima di lui.
Fu
solo un tentativo.
Gli
spari che si udirono furono tanti eppure la pistola che poi
fumò calda fu solo una, quella di Colby.
L’altra
non sparò mai.
Con
rabbia ceca, una furia senza precedenti, accompagnato da un urlo di chi
ha creduto di aver appena visto di nuovo la morte della persona amata,
un urlo straziante e impressionante, Colby svuotò tutto il
caricatore sul corpo di Johnsson ad un solo metro da lui che,
scuotendosi come colpito da convulsioni violente, si avvitò
su sé stesso riuscendo a vedere solo una cosa, prima di
sconnettersi completamente col mondo e la realtà.
Solo
una cosa.
Gli
occhi aperti e coscienti di Don che parlavano più di
qualunque altro gesto o parola. Nemmeno un sorriso. Solo un muto
‘addio bastardo, io sono ancora vivo.’
Poi
semplicemente il vuoto per quell’uomo ormai privo di ragione,
immerso completamente nella follia.
Dopo
un secondo di stordimento in cui il silenzio calò
istantaneo, Colby si riprese subito precipitandosi al letto dove Don
era legato. Non si prese del tempo nemmeno per realizzare
l’accaduto, non un solo pensiero sulla vita che aveva appena
tolto, non il tempo per l'adrenalina, il sangue, i battiti del cuore, i
respiri per tornare più umani; contava solo la persona che
era ancora viva.
Lui
che lo guardava sofferente, stanco e confuso, ma non solo.
C’era qualcos’altro in quello sguardo stralunato
che finalmente si lasciava andare al dolore che provava e lo esprimeva
libero.
Gratitudine.
Amore.
Colby
gli slegò subito i polsi permettendogli cautamente di
abbassare le braccia indolenzite, ma non fece in tempo a guardare
quanto profonde fossero le ferite, vide solo che ne aveva e che molto
sangue scendeva da esse macchiando il suo corpo in parte scoperto.
Appena
libero Don avrebbe voluto avere la forza di fare due cose: girarsi per
dar sollievo alla schiena ustionata e dire una cosa a Colby.
Non
riuscendo a farle tutte e due scelse la seconda e senza muoversi,
nonostante il male che provava, prese la mano del compagno che era
corso a chiudergli quanto poteva i pantaloni aperti. La prese e la
fermò stringendola debolmente.
Fu
lì che i loro occhi si incrociarono di nuovo e come un vago
e strano attimo di eterno, il tempo si fermò lì
sospendendo preoccupazioni e dolori. Sospendendo tutto.
Poi
la flebile voce di Don si udì solo fino a lui, chino per
poterlo sentire e vedere bene.
-
Ti amo. – Riassunto di tutto quel che aveva provato, pensato
e sentito durante quell’Inferno da cui ad uscirne vincitore
era stato lui grazie alle persone a cui teneva di più.
E
senza essersi mai lasciato andare emozionalmente, senza aver mai aperto
i suoi sentimenti se non per imprecare e gridare furibondo, Colby
liberò finalmente le sue lacrime lasciandole scendere lungo
le guance, perdendosi sulle labbra serrate e tremanti.
Quella
sensazione non l’avrebbe mai dimenticata.
Riuscì
solo a premere leggero la bocca sulla sua calda e secca.
Solo
quello.
Dopo
di che Don poté rilassarsi e abbandonarsi allo stato
stremato in cui era perdendo i sensi.
Come
se fosse riuscito a fare tutto ciò che doveva e voleva e
fosse finalmente contento e sereno.