EPILOGO:
IL
MURO
“E’
troppo alto questo muro, non arrivo a buttarlo
giù…”
Era
un bella giornata, il sole alto in un cielo terso, forse troppo azzurro
da guardare ad occhi nudi, ricordava l’azzurro di un paio
d’occhi che ormai si erano chiusi per sempre.
Thomas.
Tuttavia
era un azzurro simile anche allo sguardo che ora era uscito
all’aria aperta, un uomo dai lineamenti duri e squadrati ma
affascinanti, una bocca carnosa ben disegnata, occhi gelidi, come
sempre lo erano stati. Anzi, non sempre, c’era stato quel
periodo in cui erano stati spenti.
Val
sospirò guardandosi attorno, ricordare quel tempo per lui
era doloroso, l’aveva cambiato profondamente. Aveva capito
che vivere una vita sistemata ed organizzata in modo perfetto non era
mai servito, tuttavia a onor del vero, alla fine, l’aveva
aiutato.
Se
non fosse stato per la sua mente quadrata ed ordinata, non avrebbe mai
potuto recuperare la ragione che, per motivi tanto sconosciuti ed
incomprensibili ai i medici, aveva perduto.
Si
portò i capelli biondi e lisci all’indietro, li
aveva appena tagliati apposta per uscire dall’istituto di
cura mentale, la sua aria professionalmente fredda era tornata.
Ai
poliziotti aveva detto di essere stato rapito da Thomas e Michael, due
folli che per un assurdo litigio si erano uccisi.
Peccato
che lo stato mentale confusionale non erano stati in grado di
giustificarlo.
Come
non giustificavano ora quello di Daniel, ancora in cura senza alcuna
ripresa, senza alcuna prognosi, senza una luce che indicasse che per
lui ci sarebbe stato qualcosa da fare.
Inclinò
un sopracciglio e con quel lampo di tristezza fugace si
coprì gli occhi con degli occhiali scuri, infine
sprofondando le mani nelle tasche se ne andò proseguendo per
il marciapiede.
Ora
cosa gli rimaneva? Dei ricordi di momenti atroci e meravigliosi
insieme. Unici poiché era stato sé stesso, aveva
ricevuto un animo puro come quello di un artista del calibro di Daniel,
aveva imparato che cedere ai propri istinti non era male e donare una
parte di sé stessi abbandonandosi era in fondo dolce ed
essenziale.
Tragici
poiché un attesa senza né motivo né
fine l’aveva fatto sprofondare in un abisso, un abisso dove
aveva visto due occhi verdi ed una mente appannata dal dolore represso,
dove il richiamo l’aveva avvolto definitivo.
Ironico.
Aveva atteso tanto che qualcosa cambiasse, prima di vivere quello
strano episodio, durante ed anche dopo ed ora che effettivamente era
successo non poteva far altro che aspettare ancora.
Aspettare
di vedere se la grazia e la giustizia avrebbero agito un ultima volta
facendo guarire una persona per lui importante che aveva condiviso
attimi di follia e di nudità interiore.
La
stanza chiusa s’illuminava dai raggi solari esterni, era
motivo di buon umore per molti ma non per quella figura rannicchiata
sul letto, le lenzuola che lo coprivano in parte, le mani che
continuavano a tormentarsi e contorcersi fino a ferirsi, pallore sul
volto, sudore, occhiaie e trascuratezza, i castani capelli ora erano
più lunghi di sempre e si spettinavano sul volto come ai
lati, gli occhi arrossati erano lucidi. Respirava affannato mentre lo
sguardo perso nel vuoto non mostrava cambiamenti come se vedesse un
film ininterrotto, come se alla fine di quel film si trovasse lui
davanti ad un muro altissimo e non riuscisse a superarlo in nessun
modo, nemmeno arrampicandosi, bussando e gridando non arrivava nessuno
ed il cielo era cupo e grigio, tuoni lo frastornavano. A quel punto
arrivava una sottile paura che l’attanagliava, paura e poi
panico, con esse una domanda: perché non arrivava nessuno a
salvarlo? A buttare giù quel muro insondabile?
Perché lo lasciavano solo?
Daniel
se lo ripeteva mentalmente mentre l’unica cosa che vedeva era
un muro simbolico ed una nenia infinita, lenta, ridondante, qualcosa
che somigliava ad una filastrocca dei bei tempi andati, tipo:
‘
C’è nessuno là fuori? Sono solo?
‘
Uno
stato di catatonia infinita che non sfociava in un buio piatto, ansioso
ed ossessivo. Il passo successivo chissà quale sarebbe stato?
Etienne
entrò nella stanza dopo aver parlato coi dottori, per
l’ennesima volta non gli avevano detto nulla di nuovo.
Nessuna
prognosi né diagnosi. Su di lui calava una nube di mistero
impressionante e il giovane che sapeva di cosa si trattava, o meglio
che poteva immaginarlo, non poteva farne parola con nessuno, solo
pregare una volta di più e sperare che le visite frequenti
di Val potessero aiutarlo, che la sua vicinanza potesse essere
significativa, che suo padre che stava arrivando avesse potuto fare
qualcosa, un padre che, lui non lo sapeva, ma aveva gran parte della
colpa di tutto quello.
Così
chissà, quel muro forse sarebbe potuto crollare, loro
sarebbero arrivati da Daniel, lui li avrebbe sentiti e visti ma forse
la mente di Michael era stata talmente incisiva per lui,
così collegata alla sua, da ritrovarsi indissolubilmente
chiusa.
Un
pensiero volò a quei due ragazzi che avevano provocato tutto
quello ma si corresse, dopo aver scoperto la loro storia non poteva
certo dire che la colpa era loro, sicuramente non poteva sostenerlo. Al
contrario poteva dire che alla fine erano anche loro vittime, tutti
vittime di una società che ragionava in maniera condannante
e grave, dove la libertà di vivere secondo coscienza non
esisteva, dove vi era solo la costrizione di costruirsi con mezzi
sbagliati il proprio avvenire.
Gli
salì una grande tristezza, nemmeno la grazia di
colpevolizzare qualcuno di preciso, una persona. Nemmeno quella.
Almeno
quei due, Michael e Thomas, nel loro strano amore assoluto e un
po’ malato, ora potevano essere liberi dalla vita e dal
dolore e stare nella pace che, in fondo, si meritavano da tanto tempo.
Almeno
loro il muro l’avevano abbattuto. A modo loro.