PROLOGO:
DUALITA’
/ My decembar - LinkinPark /
L’enorme palestra utilizzata per gli
allenamenti quotidiani nell’arte della spada, era anche il
luogo dove giornalmente gli allievi della maestra si riunivano per
imparare quelle uniche tecniche incredibili famose in tutto il modo
degli spadaccini.
Anche se in molti si recavano spesso
dall’unica erede della nobile famiglia Tsujimura per
diventare suoi allievi, pochi dopo il primo giorno si fermavano
nonostante il desiderio di imparare la sua tecnica.
Non era facile non solo stare ai suoi ritmi rigidi,
ma soprattutto stare con lei.
Non si trattava di eccessiva severità
bensì di un qualcosa di più indefinito e strano.
Inizialmente affascinava e qualunque uomo la vedesse desiderava non
solo imparare tutto da lei ma anche riuscire ad entrare oltre che nelle
sue grazie anche nel suo letto, però ben presto stando con
lei un attimo di più ci si trovava a rabbrividire in sua
compagnia poiché fuoriusciva una parte strana, oscura, che
non potevano capire o definire ma metteva molti alla fuga.
Per quel pomeriggio la lezione di spada ai pochi
eletti terminò e con la solita disciplina ferrea ben presto
se ne andarono silenziosamente lasciando la maestra da sola, ancora
seduta nel punto in cui aveva concluso l’incontro. La
posizione meditativa segnava l’inizio del viaggio rituale in
sé stessa. Arrivata a quel punto della giornata se lo
concedeva sempre. Doveva o anche lei sarebbe finita come Shin e non
poteva permetterselo. Sarebbe stata la fine.
La katana stesa e rinfoderata davanti alle sue
ginocchia, sembrava accompagnarla nella sua meditazione come ogni
volta.
L'impugnatura elaborata era rivestita con fettucce
di seta rosse e d'orate, tra i vari intrecci dei cordoni di seta
pregiata, trovavano posto ornamenti e fantasie di svariate e magnifiche
fogge. L'elsa che divideva l'impugnatura dalla lama era in oro
finemente intagliato simile ad una opera d'arte. Un drago tipico
giapponese tutto avvolto su sé stesso sovrastava sulla sua
sommità, anch'esso in oro magistralmente elaborato. Il
fodero era avvolto da nastri in seta rossa che stavano al momento in
parte sparsi sul pavimento, intorno ad essa.
Non si separava mai da Kurenai. La utilizzava
raramente visto il suo particolare potere maledetto, ma non poteva
staccarsene nemmeno un istante. Il suo spirito ne sentiva il richiamo e
finiva per stare fisicamente male. Comunque per non venirne
completamente risucchiati da essa bastava non utilizzarla. Lei lo
faceva solo in rare occasioni o quando il richiamo era tale da farla
quasi svenire.
Kurenai era una katana dalle caratteristiche
incredibili, una lama unica forgiata appositamente per gli avi della
famiglia Tsujimura da un armaiolo molto bravo e richiesto
nell’epoca in cui visse. Quando gli Tsujimura gli chiesero di
forgiare una spada speciale che sarebbe dovuta essere la regina delle
katane, lui si rifiutò poiché essi erano famosi
per essere dei tiranni spietati e per amore del suo mestiere e delle
spade non avrebbe mai voluto che la regina fosse destinata a mani piene
di sangue come le loro.
Egli, però, fu costretto e mentre veniva
frustato e torturato la forgiò insieme al suo dolore, al suo
odio e al suo sangue. La lama rimase rosso scuro come se il metallo con
cui venne lavorata fosse di sangue. L’armaiolo
morì subito dopo averla terminata ma nell’atto del
trapasso la leggenda dice che egli la maledì o forse
maledì la famiglia. Ci sono diverse storie riguardo questo
punto ma tutte parlano di una maledizione vera e propria che sommata al
dolore e al sangue con cui Kurenai fu forgiata, diedero vita ad una
splendida katana rossa che assorbe l’anima di chi
l’utilizza ripetutamente portandolo lentamente o velocemente
alla follia. La stirpe degli Tsujimura proseguì a lungo fino
al tempo odierno, tuttavia la leggenda che girava intorno a kurenai
portò a credere che tutti i numerosi casi di follia in
quella famiglia, furono causati proprio da quella spada maledetta.
Kurenai richiamava i suoi proprietari in modo che
non se ne separassero mai. Solo con un forte controllo su sé
stessi essi potevano utilizzarla senza cederle troppo spirito. Era
molto difficile e nemmeno con il controllo e le meditazioni
più ferree di questo mondo, nessuno ha poi resistito per
tutta la vita finendo poi per cedere, anche se magari in età
avanzata, alla follia, trovandosi poi senz’anima.
Era possibile tenerla con sé senza
sfoderarla e utilizzarla, in quel caso il proprietario aveva un minimo
di pace e riusciva a resistere al suo richiamo, però dopo
del tempo finiva ugualmente obbligato a maneggiarla. Se non lo faceva
poteva addirittura perdere i sensi per il dolore fisico provato.
Kurenai era bene o male conosciuta da molti e per i
più considerata una leggenda essa stessa. Gli Tsujimura pur
consapevoli della storia che gravava intorno ad essa e pur credendo
alla maledizione, viste le numerose disgrazie capitate alla loro
famiglia da secoli, non furono mai in grado di disfarsene. Un
po’ per il richiamo, un po’ per la sua
indistruttibilità.
Ormai l’unica erede attiva degli
Tsujimura, quindi di Kurenai e della speciale tecnica di spada che essi
si tramandavano, era la figlia dei compianti capi famiglia. Si chiamava
Silver.
Silver dalla bellezza che sapeva di maledizione
anch’essa, meditava ogni giorno alla fine degli insegnamenti
ai suoi allievi che speravano, un giorno, di poter imparare in modo
completo quella speciale tecnica misteriosa.
Lei li istruiva senza dirgli che non avrebbero mai
potuto possederla al cento per cento poiché solo brandendo
Kurenai questo era possibile.
Li metteva alla prova.
Cercava fermamente l’unica persona che
avrebbe potuto affiancarla nella successione del suo casato importante.
L’unico a cui avrebbe insegnato
completamente quella tecnica.
Gli spropositati lunghi capelli argentati le
ricadevano lisci sulla schiena finendo a terra, circondandola come una
cascata sotto la luce affascinante della luna. Le iridi dello stesso
colore erano nascoste dalle palpebre abbassate. Il corpo dalle
bellissime curve prosperose era avvolto da un kimono d'argento con un
magnifico disegno tessuto in seta bianca e nera che ritraeva su tutta
la sua superficie una tigre siberiana. La posizione con le gambe sotto
di sé e le mani in grembo l’aiutavano per la
concentrazione. I lineamenti selvatici, affilati, tentatori e
seducenti, erano rilassati in un espressione seria.
La sua mente ora viaggiava altrove, molto lontano
da lì.
Dove nemmeno Shin poteva raggiungerla.
Se avesse potuto scegliere sarebbe rimasta per
sempre in meditazione ma la consapevolezza di non poterlo fare la
risvegliava sempre.
Era laddove lei desiderava. Via, lontano da tutto e
da tutti.
Lì lei era sola con la verità.
Nessuna maschera. Nessuno mentiva. Nessuno fingeva.
Solo verità.
Specchi dell’anima.
Nessuna persona che fingeva di essere sano e
normale invece che sé stesso.
Un sé stesso sicuramente opposto anni
luce a quel che appariva.
Tutti erano così.
Tutti.
Pochi si distinguevano.
Pochi chiamati folli.
Essere letteralmente cresciuta con la follia, anche
se non sua, l’aveva portata a credere che ella fosse
verità e sanità.
E si biasimava poiché non era capace di
lasciarsi completamente andare.
Per rimediare a questa sua grave mancanza a cui
nonostante tutti i suoi sforzi non riusciva a capovolgere, faceva in
modo di smascherare gli altri e portare a galla la verità in
chi incontrava. Ma non in tutti. In coloro che si ostinavano in
particolare ad essere seri e normali o che le piacevano in modo
particolare. Il genere di persone ch le piacevano erano spadaccini
molto in gamba e forti con una volontà fuori dal comune. Non
ne incontrava molti.
Aveva a lungo cercato un modo per salvare costoro
sperando di riflesso, un giorno, di riuscire a salvare sé
stessa. Alla fine l’aveva trovato e nonostante fosse
piuttosto giovane, sapeva già utilizzarlo perfettamente.
Il mare le aveva regalato
l’opportunità di aiutare gli altri con un frutto
del diavolo speciale.
Il 'far-far’.
Un frutto che donava a chi lo mangiava la
capacità di togliere la maschera in chi lei baciava.
O per lo meno questo era ciò che lei
pensava.
In realtà si trattava di ben altro.
Chiunque prendesse diretto contatto con lei e coi
suoi fluidi corporei, che fossero sangue, saliva o altro, la sua mente
ed il suo animo subivano un drastico mutamento finendo per diventare
l’esatto opposto di ciò che egli era.
Finendo così per odiare chi amava e
amare chi odiava.
I buoni, dunque, diventano cattivi e viceversa.
Quando nel suo buio inconscio sentì il
desiderio di rimanere lì, capì che il tempo di
‘tornare’ era arrivato, così con fatica
e scontentezza risalì il suo animo uscendo nuovamente,
tornando come se fosse rinata nel suo corpo.
Aperti gli occhi lentamente per non venir colpita
dalla luce circostante che cominciava a calare per il tramonto in
corso, la prima cosa che mise a fuoco come sempre fu la katana ancora
stesa davanti a sé. Come la vide i suoi occhi si riempirono
di essa e il respiro tornò a pieni polmoni come se fosse
stata in completa apnea, quindi imponendosi una calma placida
allungò subito la mano dalle lunghe dita affusolate e le
unghie curate prendendola per il fodero, a metà, fra i
nastri di seta rossi che pendevano coprendola. I brividi come di
consueto la percorsero e sentendo indistintamente racchiusi in
ciò che stringeva un infinità di spiriti
inglobati dalla lama nel corso dei secoli, fu consapevole che presto o
tardi anche lei sarebbe finita lì dentro, come era
già successo a Shin.
Il pensiero la riportò completamente
alla realtà, così si decise alzandosi lentamente
per non ottenere dei fastidiosi giramenti di testa. I capelli d'argento
le ricaddero affascinanti fino a sfiorare i polpacci. Una volta in
piedi, continuando a tenere per una mano la spropositatamente lunga
katana avvolta oltre che dal fodero anche da molteplici lacci
d’oro rossi, lasciò perdere l'apertura del kimono
che donava una generosa visione della sua morbida scollatura e si
avviò verso quella che era il resto della sua immensa e
ampia proprietà. Una sorta di castello feudale ristrutturato
e reso più moderno e comodo nel corso dei secoli. Non si
erano mai spostati e il loro territorio si espandeva per molti
kilometri tutt’intorno al fastoso edificio con annessa una
comoda ed ampia palestra di spada.
Con sicurezza, stile ed un andamento eretto e fiero
senza la minima esitazione, uno sguardo penetrante e concentrato,
Silver percorse molteplici corridoi scendendo diverse scalinate
illuminate sempre meno. Man mano che scendeva la sua aria misteriosa
diventava sempre più oscura, come se stesse per andare ad
affrontare un pericoloso e doloroso fantasma del suo passato.
Ed in effetti era proprio così.
Giunta finalmente davanti ad una porta chiusa con
molte serrature che sembrava la sua destinazione, posò
lì accanto Kurenai e trattenendo il fiato si
concentrò sul suo spirito di tigre.
Silver, infatti, era soprannominata la Tigre
d’Argento.
La stessa tigre che aveva tatuato sulla schiena con
lo stile di un tribale.
Una battaglia diversa da quelle fisiche e
materiali, come ogni giorno, iniziò appena varcò
la soglia una volta aperta da tutti i vari lucchetti.
Una battaglia interiore, non contro la propria
mente, bensì contro il proprio cuore.
- Ciao Shin… - Sussurrò
richiudendo dietro di sé la porta massiccia per impedire
anche alla minima impossibile luce esterna di entrare, facendosi
abbracciare solo dalla fioca illuminazione artificiale e dalla
penombra. La sua voce femminile non era più né
sexy né provocante. Solo un sibilo appena udibile
impossibile da interpretare.
Subito dall’interno il movimento
dell’unico abitante di quella stanza le fece capire in quale
angolo scuro Shin si trovasse di quel posto chiuso senza finestre.
Quindi si voltò socchiudendo gli occhi argentei non per
vederlo ma per cercare di capire anche dal più piccolo gesto
apparentemente insignificante, quale dei due Shin quella sera egli
fosse.
- Ehi, piccola mia… questa volta mi hai
fatto aspettare, eh? Lo sai che non mi piace… dai, vieni
qua… mi sono sentito solo, oggi! –
Silver piegò in modo impercettibile le
labbra in segno di sconfitta.
Quella volta le era andata male.