CAPITOLO
19:
ECHI
/E
giù nel profondo dei flutti
In
labirinti di caverne coralline
L'eco
d'un tempo remoto giunge
Ma
qualcosa è all'erta, qualcosa si muove
E
comincia a salire verso terra
E
nessuno mi canta ninna nanne
E
nessuno mi fa chiudere gli occhi
Così
spalanco le finestre
E
nuoto fino a te, attraverso il cielo
occhi
che si destano/
-
Pink Floyd -
-
Mi dispiace, ma dobbiamo informarla che sua madre è morta.
Si è buttata dal tetto di un grattacielo dopo essere
scappata dalla nostra struttura. Se vuole venire per riconoscere il
corpo e indicarci la sua volontà riguardo la salma... -
La
voce estranea parlava professionalmente al telefono, sembrava abituata
a portare notizie simili alla gente. Perfino ad Alexander ci volle un
attimo per realizzare quanto detto ed organizzare le idee.
-
Va bene. Parto subito. Sarò lì in giornata. -
Telegrafico.
Alla fine era riuscito a rimanere freddo e staccato anche lui.
Sembrava
che se l'aspettasse da un momento all'altro, come se non gli avesse
fatto un grande effetto.
Alexis
in quel momento era nella stanza e sentì la sua frase
laconica. Stava pigramente stravaccata nel divano a cercare qualcosa da
vedere in televisione, quell'enorme aggeggio a tremila pollici, super
piatto e con casse in ogni dove. Quando aveva udito solo quell'unica
frase aveva notato un impercettibile cambiamento e aveva abbassato il
volume, lanciato uno sguardo accigliato e una domanda apparentemente
buttata lì:
-
Dove vai? -
Lui
ricambiò lo sguardo distrattamente, non la vedeva veramente;
si girò infilandosi il cellulare nella tasca dei jeans
cadenti e disse con lo stesso tono di poco prima, per nulla alterato:
-
Mia madre è morta, si è suicidata buttandosi da
un grattacielo dopo essere scappata. -
A
questo punto, fra le mille domande spontanee che potevano essere fatte,
quelle scelte casualmente furono:
-
Cosa? Tua madre?! Avevi una madre? E da dove è scappata? -
La
risposta fu logica e fredda:
-
Si, mia madre, tutti ne abbiamo una, sai? Come pensi che veniamo al
mondo? - Una breve pausa e il tono si abbassò lievemente: -
Era in un CSM... -
-
CSM? -
-
Centro di Salute Mentale... -
-
Un manicomio! -
Captò
questo di tutto il discorso e schietta se lo lasciò sfuggire
dimostrando un tatto da elefante. Alexander non ne sembrò
toccato ed anzi prese la giacca e se la infilò, nel
frattempo disse distratto:
-
Si, era pazza. Esaurita, insomma! – Come se non contasse
davvero e non gli importasse molto.
La
bocca di Alexis si spalancò lasciando perdere il controllo
dei propri muscoli facciali.
-
Vieni anche tu? -
Glielo
chiese per dovere, lo capì subito, e non perché
lo voleva veramente.
Prima
di rispondere dovette riconnettersi al cervello e far forza su
sé stessa per non averlo lei un esaurimento. Cosa si faceva
in queste situazioni? E perché lui non era come tutte le
persone normali che mostravano il dolore per la madre morta? Che
reazione era mai quella? Si scosse richiudendo la bocca.
"Intanto
è meglio non lasciarlo solo!"
Era
un progresso, questo pensiero, visto che era una cosa sensata. Il
secondo fu:
"Chi
diavolo è Alex?"
La
Porches nera ultimo modello coi vetri scuri correva non troppo veloce,
spiccando nel chiaro grigiore di quel pomeriggio ancora invernale.
Sembrava che quella volta Alexander non avesse fretta di arrivare a
destinazione.
-
Alex? Va tutto bene? -
Chiese
la ragazza vestita ancora al maschile. Non rispose subito ma lo fece.
Era lontano.
-
Sinceramente si. Rispetto a come dovrei stare sto bene. -
-
Ma non sei, che ne so, triste? -
Le
sembrava una reazione strana anche se lei non era una vera esperta
visto che non ricordava nulla dei suoi veri genitori e che gli altri,
poi, non le avevano mai voluto bene.
-
Più che tristezza penso si definisca dolore. -
-
Oh ecco... vedi che non va tutto bene? -
Era
comunque sempre Alexis!
-
Si ma non per lei... perché questo mi ha fatto ricordare
certe cose che speravo di essere riuscito a cancellare. Cose che
comunque non si potranno mai cancellare davvero. -
-
Cioè? -
-
Il periodo di fallimento della mia vita. -
Poi
stettero a lungo in silenzio. Era chiaro che da quando era salito in
auto lui ricordava.
Ricordava
cose delle quali chiunque ora ne era escluso.
La
ragazza avrebbe voluto saperne di più ma non era tipo da
impicciarsi.
Lì
inevitabili come echi arrivarono i ricordi terribili ed insistenti, non
l'avevano mai mollato. Quel suo passato duro e nascosto che l'aveva
reso quello che era, plasmandolo. Quel senso di fallimento se lo
sentiva ancora addosso.
Fu
più forte di lui, non riuscì ad evitare i
ricordi, non potè, ma rivedere tutto solo nella mente non
gli parve una cosa utile e sensata. Pensò che come al solito
non sarebbe servito a nulla tenerseli dentro per poi rinchiuderli per
la volta successiva. E ciò fu dettato dal fatto che ormai
nella sua vita c'era un'altra persona importante.
Una
persona con la quale desiderava condividere addirittura quello.
Così
si lasciò andare a quelle immagini passate, quegli echi di
tortura, nei flutti profondi, nei labirinti di caverne. Posti dove
nessuno cantava ninna nanne serene prima di addormentarsi.
Lo
fece a modo suo, senza dettagli o sensazioni. Solo l'essenziale.
Tralasciando
il dolore di quel piccolo bambino abbandonato dentro di sé.
"Mia
madre era italiana ed era sempre stata povera. Incontrò
là l'uomo che sposò. Era un americano in viaggio
di lavoro. Lei era bellissima da giovane, con lunghi capelli rosso
naturale, lineamenti felini, da zingara, un corpo da modella. Io le
somiglio molto. Lui se la portò con sé in America
e se la sposò. Erano molto innamorati. Nacqui subito io.
I
primi giorni della mia infanzia furono felici, papà stava
bene coi soldi e il suo lavoro gli fruttava molto. Facevamo la bella
vita ed eravamo contenti nonostante le ombre sul suo lavoro.
Poi
arrivò un altro figlio. Yu.
Lui
somigliava molto al papà, come una goccia d'acqua in
miniatura, bocca larga, folte sopracciglia, occhi verdi. Tranne che per
i capelli. Quelli erano rossi come quelli della mamma. Io li ho neri
come mio padre. L'unica cosa che ho preso da lui.
Io
ero molto geloso di Yu.
All'età
di dieci anni il piccolo ne aveva tre e mio padre subì il
colpo più duro di tutta la sua vita. La sua
attività crollò misteriosamente, non sapemmo mai
cosa fosse e come fallì. Non ci diede spiegazioni, cademmo e
basta. Lui non trovò più nessun altro lavoro,
quando sembrava farcela succedeva qualcosa che a noi non rivelava e
doveva mollare.
Arrivò
l'avvertimento finale.
Ero
solo in casa con Yu. Me lo avevano affidato per qualche ora, non ci
badavo molto, non lo vedevo di buon occhio, non avevo mai digerito il
suo arrivo in famiglia. Accadde quel che mi porterò dietro
per tutta la vita. Il mio fallimento come uomo, come bambino, come
figlio, come fratello. Mi sentirò in colpa in eterno. In
colpa e sporco.
Entrarono
degli uomini, non avevano nemmeno il volto coperto, non li avevo mai
visti. Ho ancora i dettagli nitidi nella memoria. Se li incontrassi ora
li riconoscerei subito. Erano in quattro.
Uno
alla finestra che faceva il palo e gli altri tre che si occupavano di
me. In tre. Mi picchiarono e mi violentarono. Rubarono ogni cosa di
valore e ruppero tutto quel che trovarono in casa.
Non
dimenticherò mai lo schifo e il dolore allucinante che
provai. Dopo un po' nemmeno urlavo più. Le lacrime
scendevano da sole automatiche ma non sapevo cosa provavo per primo.
E
feci uscire tutte le lacrime della mia vita maledicendo il mio essere
bambino. Piansi fino all'ultima goccia, poi non ne uscì mai
più nessuna.
Infine
presero Yu e mi diedero l'avvertimento:
'Con
questo siamo pari. Dillo a tuo padre. Il Debito è saldato,
ma se prova a fare qualcosa o riprendersi questo qui... ci prenderemo
anche la sua vita'; un altro mi si avvicinò e carezzandomi
disse ai suoi compagni:
'portiamo
anche lui? È così bello... '
io
lì reagii dicendo con un filo di voce, privo di forze, di
andarsene, di portarsi via chi e cosa volevano, ma di andarsene. Fu
come dare il mio permesso al rapimento di mio fratello di soli tre
anni.
Così
se ne andarono lasciandomi lì. Non so perché,
forse per il messaggio che dovevo dare a mio padre... forse per... non
lo so... ma mi lasciarono in vita in quello stato.
Non
dimenticai nulla, rivissi per molto tempo, chiuso in un mondo quasi
autistico, le immagini di quei momenti e sentii la violenza sul mio
corpo ancora e ancora e ancora.
Poi
forse fu l'odio per il mondo, per la gente, per i piccoli indifesi, per
la ricchezza, per gli estranei, per la bellezza, per gli sciocchi, per
i potenti, per ogni cosa esistente... per la vita... a ridestarmi. Mi
ripresi, uscii da quel mondo malato in cui mi ero rifugiato e quando mi
svegliai era troppo tardi. Mio padre era stato ucciso nel tentativo di
recuperare Yu e mia madre aveva iniziato ad impazzire.
Io
e mia mamma ci trasferimmo in Italia su 'ordine' dei nonni materni.
Andammo proprio da loro.
La
povertà tornò a regnare nelle nostre vite, la
fame, la miseria, la solitudine, i giudizi, gli sguardi, tutto.
Il
viaggio della perdizione della mente di mia madre andò
sempre più in crescendo, finché non ci fu
più nessuna possibilità per lei.
Impazzì totalmente. Credo si tratti di depressione bipolare.
In realtà so tutto ormai sulle malattie mentali, ma mi sono
sempre rifiutato di capire a fondo quella di mia madre. Passava momenti
di lucidità in cui era calma e serena, cercava di occuparsi
un po' di me e della sua vita, ad altri di completa assenza, follia,
fobie, ossessioni, tutto esplodeva, crisi di panico vere e proprie in
cui era ingestibile, autolesionista e violenta anche verso di me. Mi
hanno in seguito spiegato che non si trattava di vera e propria
schizofrenia. Ma comunque di psicosi si trattava.
I
nonni morirono e rimanemmo totalmente soli. A quattordici anni mi
spaccavo per lavorare e guadagnare quei soldi indispensabili alla
sopravvivenza. Ero l'unico che poteva farlo.
Ovviamente
mi sfruttavano e le cose certo non miglioravano. Mia madre diventava
anoressica poiché non mangiava, niente telefono, gas,
luce… ogni cosa tagliato finché per la
società la casa risultò disabitata, come se noi
non esistessimo e ci riducemmo a sottospecie di barboni che usufruivano
di una vecchia catapecchia di proprietà di nessuno.
Lei
passava le ore in una pericolante sedia a dondolo che cigolava
fastidiosamente e che andavano ad intaccare quel desolante silenzio.
Passava
le ore così, a volte mi abbracciava cullandomi come fossi
ancora un bambino di sei o sette anni, guardava le foglie cadere e mi
ripeteva cantilenando che se sotto quel cielo ci fosse stato qualcosa
di speciale, sarebbe passato di lì prima o poi. Mi pare
fosse il verso di una canzone che andava in quel periodo e lei le si
imprimeva quella frase, solo quella. Io mi ricordavo invece quando
diceva che si stava bene lì, seduto in riva al fosso. La
corsa la lasciava fare agli altri.
Io
mi sentivo così, seduto in riva ad un fosso dove lasciavo
vivere la vita agli altri che ne avevano voglia. Io non ce l'avevo. Non
stavo bene seduto in quel posto da solo, ma era come se non avessi
scelta, se non riuscissi a fare altro.
Ad
un certo punto arrivò la foto di mio fratello cresciuto.
Solo quella. I suoi rapitori, i fautori del nostro disastro, erano
ancora in circolazione ed intorno a noi, se sapevano dove ci trovavamo
e la foto che ci era arrivata non portava il nostro indirizzo, nessuna
scritta. Era stata portata a mano.
Nel
corso di tutta la mia vita ci furono diversi segni che indicavano la
presenza di queste persone. Mi chiedevo cosa volessero ancora. Mio
padre non c'era più, avevano Yu e noi eravamo distrutti. Che
altro c'era da prendersi? Non avevo nemmeno più voglia di
aver paura. Semplicemente non ce la facevo.
Sai...
ancora adesso li sento intorno, in continuazione e so per certo che
prima o poi torneranno a farsi definitivamente vivi mostrandomi cosa
diavolo vogliono da me ora che sono resuscitato. Ed è facile
immaginarlo. Ma sarò pronto ad accoglierli. Non vedo l'ora.
La
gente, a volte, non ha bisogno di motivi specifici per fare le
bastardate. Le fa e basta. Per occupare il tempo della loro vita di
merda che possiedono.
Si
fa quel che si può!
Adesso
penso che basta sedersi vicino ad un fiume per veder passare il
cadavere del tuo nemico. Non serve cercarlo e dannarsi tanto per
eliminarlo.
Tutto
torna indietro.
Ad
ogni modo, quel momento mi vide morire di nuovo. Pieno di rabbia uscii
di testa rivedendo, rivivendo, ciò che mi era capitato a
dieci anni. Quei momenti che mai dimenticherò. E la
consapevolezza che ormai Yu era uno di loro e andava avanti credendo
chissà cosa mi mandava in bestia. Per tornare in me sbattei
la testa ripetutamente contro il muro di casa. Non serviva a nulla. Mi
chiusi in camera e per una settimana non uscii. Mi chiusi nel mio
mondo, come quando feci da bambino appena violentato. Avevo sfiorato
l'autismo e ci stavo ricadendo anche se ero già grande.
Stavo lì nel mio mondo e non posso nemmeno dire in cosa
consistesse poiché veramente anche per me ora è
oscuro.
Però
volevo uccidermi.
Non
ne potevo più e non avevo motivo di vivere. Non mi faceva
paura il dolore e desideravo la morte.
Mi
tagliai i polsi ma non sapevo come si faceva. Lo feci nel modo
sbagliato e persi solo molto sangue. Mi servì per svegliarmi
da quella chiusura misteriosa.
Mi
tamponai le ferite ed ora conservo solo cicatrici.
Sono
stupido. Per tagliarsi le vene e morire bisogna farsi tagli profondi
verticalmente dall'avambraccio al polso, alcuni poi fanno anche delle
croci.
Così
muori. E lo devi fare immerso nell'acqua calda. Cioè
immergendo i bracci nell'acqua calda, così i vasi sanguigni
si dilatano e il sangue esce più in fretta.
Allora
andai dalla polizia ma nessuno credette ad un moccioso che per la
società non esisteva nemmeno, non andavo a scuola, ero
povero, sottopeso, sciupato e malaticcio. Pensarono che fossi uno che
voleva approfittarsi della situazione (inventata a detta di loro) per
tirarmi fuori dai guai.
Non
mi aiutarono.
Dovetti
rinunciare alla mia vendetta.
Vissi
ancora fra quelle vie malfamate con lavori di sfruttamento, una madre
pazza e risse continue.
Ero
ignorante, non avevo mai studiato se non fino alle elementari comprese.
Non avevo la più pallida idea di nulla, sapevo appena
leggere e scrivere e fare quei conti facili ed elementari.
Fu
giocando a street basket e venendo costantemente picchiato che divenni
in grado di difendermi da solo... e conobbi finalmente la musica. La
mia musica. La vera musica. O per lo meno quello che per me era vera.
Una
persona, una delle poche che non ce l'aveva con me, notò
dopo il mio talento nello street, anche la mia bella voce e mi
portò in quei posti dove si improvvisano canzoni rappate. Mi
insegnò a farlo e mi consigliò di mettermi anche
a cantare come si deve.
Grazie
a lui nel giro di poco tempo divenni popolare nella mia
città. Di cose ne avevo da dire, da gridare al mondo e con
la mia rabbia e il mio odio feci strada. Considerato un genio da tutti
coloro che mi ascoltavano, riuscii a viaggiare per farmi conoscere
anche in giro. Le donne venivano con me ricoprendomi di soldi. Con le
risse e il basket mi ero fatto un fisico atletico e l'aria da ragazzo
di strada piaceva. In cambio del sesso e di un giro in mia compagnia
mangiavo tutto quello che volevo e potevo dare un tetto a mia madre...
e mi prendevo una camera per notte diversa.
Feci
una vita all'insegna di un'altra sorta di schifezza, meno putrida della
precedente. Non la rinnegai mai. Prendevo tutto quello che potevo che
mi era utile. Non ero scemo e con quella furbizia arrivai dove sono ora.
Mi
notarono persone sempre più importanti e poi un anno fa
giunse il contratto più grosso della mia vita con una casa
discografica.
Mi
portarono in America, mi coprirono di soldi in anticipo, portai mia
madre in un buon Centro di Salute Mentale, incisi il mio primo disco
serio che fece notizia e vendetti non so nemmeno io quante copie.
Sul
mio passato ho ordinato il tabù ma le mie canzoni ne parlano
e tutti affascinati da questi testi mi trovarono probabilmente
interessante, l'immagine da bello e dannato ce l'avevo di natura, nulla
di costruito e finalmente la fortuna non se ne andò
più.
Fino
ad adesso.
Non
ho mai risolto il mio personale problema col mondo, con la gente e con
la vita e penso che lo si capisca un po' in ogni cosa.
Provo
sempre rabbia e odio per tutto tranne che per la musica, l'unica mia
vera salvatrice. Inizialmente è stato un modo per fare soldi
e togliermi dalla merda, come anche questo mio corpo lo è
stato, ma poi ho capito che se non fosse stato per lei proprio sarei
affogato in un fiume, probabilmente.
E
di cose ne ho da dire... ne avrò ancora molte.
Non
so se sono un genio o solo uno con un grande intuito e una fortuna che
finalmente dopo anni si è decisa a mostrarsi a me ma devo
molto a quel tipo di cui non ricordo nemmeno il nome che mi ha
insegnato cosa sia 'questo' mondo, mi ha insegnato a rappare e mi ha
dato la chiave della mia rinascita.
Un
giorno vorrei ringraziarlo.
Chissà
che fine ha fatto.
Il
tutto si conclude col fatto che non ho mai rinunciato a trovare Yu. Non
credo nella vendetta o nella giustizia, non ci potrei mai
più credere ma semplicemente vorrei ritrovarlo e riscattarmi
come fratello. Per non sentirmi un fallito come uomo. Credo
nel riscatto. Ecco. La musica è stato il mio riscatto e
penso che anche lui lo sarebbe. Spero di poter completare quest'opera.
Non
piango, non sorrido e non ringrazio nessuno, non ne vedo ancora il
motivo.
Non
ne sarei comunque capace.
Certo
è che comunque tu, Alexis, sei la prima persona di cui io
dopo secoli mi sia fidato. Forse perché mi somigli. Quando
ti ho raccolto quelle svariate volte ho visto in te il ragazzino
selvaggio che ero io... forse solo perché entrambi abbiamo
visto l'inferno. Perché lo si capisce appena si parla con te
che tu l'hai visto e forse nemmeno ti ricordi del VERO inferno che hai
vissuto anni fa.
Io
e te nonostante le apparenze e le litigate che ci facciamo, abbiamo
molto in comune e credo che non sia stato un caso il nostro incontro.
Non
credo al destino, guarda un po', ma sono quasi certo che qualcosa ha
voluto che ti tenessi con me. Qualcosa che anni fa mi ha fatto
incontrare la musica.
Qualcosa
che va oltre la vista e la logica.
Lo
ammetto.
Vorrei
sapere cos'è, visto che non credo praticamente in nulla.
A
parte, indovina un po'? , la musica!"