CAPITOLO
VI:
LA
TUA VITA SULLE MIE SPALLE
/Teardrop
- Gonzales/
“Quando
mi arriva la notizia mi rendo conto di cosa significhi avere un
mancamento.
Mi
cade quel che tengo in mano e non capisco più niente.
Ho
un vuoto.
Nero.
Il
nulla per alcuni istanti, quanti?
Non
sto male, non sto bene… ma poi le orecchie mi fischiano
fortissime ed ogni sensazione è amplificata. Ricomincio a
sentire tutto a partire dal sangue che mi scorre nelle vene
più intenso e furioso che mai, la testa sembra esplodermi,
gli occhi mi bruciano, il nodo alla gola è gigantesco e sale
minaccioso, tutto il corpo è di piombo.
Il
cuore sembra si sia proprio fermato ma poi per come galoppa forse
uscirà dal mio petto.
È
terribile.
Non
credo di essermi mai sentito peggio, lo giuro.
Solo
ora che mi sento così me ne rendo conto.
Don
è stato accoltellato ed è in ospedale.
Una
pallottola in piena fronte non poteva essere peggiore.
Cerco
di respirare ma nulla sembra più funzionare in me come
dovrebbe. Non so, non so davvero, sono proprio nel panico
più totale.
Penso,
ma a cosa?
Mi
muovo, sto seguendo qualcuno, mi stanno portando… dove? Da
lui?
No,
non ci sono veramente e vorrei ragionare, riflettere, dire qualcosa ma
non mi viene o forse lo sto facendo ma non me ne rendo conto.
Vorrei
dirmi almeno che non sta davvero male, vorrei cercare di crederlo, di
sperarlo… ma non ci riesco.
Non
so… aver cercato di evitarlo con tutte le mie forze dopo che
mi sono dichiarato ed averlo visto così poco facendo finta
di nulla, ora mi sembra proprio la cosa più stupida che
potessi fare. Anche se lui stesso non me ne ha più parlato,
anche se… miseria, quanto sto male!
Sento
vagamente David e Nikki spiegare l’accaduto, sempre vagamente
capisco che è spuntato un quinto uomo
dall’agguato, uno non previsto, che lo ha accoltellato.
È
sulle parole di colpevolezza di Nikki che mi pare… si, mi
pare proprio di dirlo… e lo dico mentre io stesso lo
realizzo con il panico che impazzisce in me.
Non
capisco niente, solo questo…
Non
era colpa di nessuno, solo mia… ero stato io a fargli il
calcolo di quest’agguato. Avevo detto che sarebbero stati in
quattro ed invece quel quinto uomo… se solo… se
solo avessi fatto bene il mio dovere… se solo non avessi
avuto fretta di scappare da lui… se…
È
colpa mia se Don ora sta per morire, dovevo considerare meglio i dati e
fare un calcolo più preciso.
È
questo, è solo questo che mi ripeto.
David
mi chiede di aiutarlo col caso perché
c’è una cosa che ho fatto altre volte che li
porterebbe significativamente avanti con le indagini, io dico che
potrei farlo ma…
-
Il mio posto è qua… - non intendo andarmene. A
tratti capisco cosa succede intorno a me, ogni tanto qualche frase mi
arriva ed allora rispondo senza rifletterci davvero. Vago in trance. Il
panico è ancora dentro di me, non so cosa sto facendo e cosa
dico ma non voglio andarmene da Don. Non lo lascio. No.
Però
è papà a prendere in mano la situazione e a dire
che invece devo andare perché Don lo vorrebbe. Prima che
possa elaborare questa cosa mi ritrovo trascinato via.
Non
voglio.
Devo
stare con Don, io… è colpa mia se lui…
Però
di nuovo tutto si confonde e non capisco più niente.
Il
resto della giornata la passo nello stesso limbo, non mi riposo, cerco
di concentrarmi sul caso, da un lato capisco che devo proprio aiutarli
e farlo per Don ma dall’altro il suo pensiero non mi si
stacca di dosso un attimo.
Specie
quando ha un arresto davanti a me.
Lui
era là e stava per morire. Il suo cuore stava cessando di
battere a pochi metri da me.
È
stato di nuovo il momento peggiore della mia vita.
La
capacità di pensare e capire completamente interrotta, come
se non fossi nulla, come se morissi io stesso.
Avere
tutto il male possibile e al tempo stesso non sentirlo veramente.
L’hanno
salvato ma non hanno assicurato che non possa succedere ancora di
peggio.
Ed
è così che io poi sono andato avanti.
Così.
Nel
corpo di un altro, col cervello di qualcuno che si attivava
disperatamente rimanendo sempre sospeso nel caos, facendo azioni e
dicendo cose di cui non ero consapevole.
Agivo
per forza d’inerzia, per Don, perché era giusto,
perché almeno questo glielo dovevo… prendere il
bastardo che l’aveva accoltellato.
Ma
io… io ho davvero fatto tutto quello o è stato
solo un sogno?
Ho
viaggiato in questo stato fino a che la notizia del suo risveglio non
mi è giunta, sono riuscito ad attivarmi meglio, a ragionare
in modo più utile. Quando ho chiesto a David di farmi fare
l’esca per prendere il colpevole, lentamente ho capito di
essere tornato in vita.
Non
mi importava di ciò che sarebbe potuto succedermi, non mi
importava che tutto potesse andare peggio di quel che avessi calcolato,
come era successo per Don, non mi importava proprio… volevo
solo guardare in faccia quello che aveva accoltellato mio fratello.
Ed
anche se non è davvero mio fratello è come se lo
fosse nonostante io lo ami.
Quello
che provo per lui è talmente complicato da non poter essere
definito con un semplice termine, ma lo amo e questo non cambia in
nessun caso.
Solo
quel pensiero mi ha portato avanti fino alla fine.
Per
lui, mi ripetevo.
Per
Don.
Perché
lo amo e glielo dovevo, dopo l’errore tremendo che ho fatto.
Glielo
dovevo, dannazione, e lo volevo fare.
Poi
così come questa storia terribile è iniziata,
è finita con la conclusione del caso, il colpevole preso e
arrestato col mio prezioso aiuto; un aiuto che però
all’inizio si era rivelato sbagliato e che era costato la
vita della persona che per me contava sopra ogni cosa.
Dai
miei calcoli dipendono le vite di molte persone ma sopra ogni cosa dei
ragazzi che lavorano ai casi. Di mio fratello. E lui non è
uno qualunque.
Dai
dati che io fornisco loro può morire o vivere qualcuno.
Non
sono giochi.
Fino
ad ora non l’avevo mai vissuta così, non
l’avevo mai vista in questo modo.
Non
è una sciocchezza quella che faccio. Devo decidere se
è il caso di continuare. Se reggo a tutto questo.
Anche
dalle decisioni di Don dipendono ogni giorno le vite di moltissime
persone, ma lui ha scelto di fare questa vita, lui la sa fare, lui ce
la fa, lui regge… ed io… io non voglio che lui
muoia per colpa mia…
Non
voglio…
Quando
mi ritrovo da solo con lui, in camera, dopo che mio padre si
è portato via tutti quelli che c’erano per
lasciarci soli, sono come terrorizzato.
Ho
questo nodo che ancora non è uscito. Sono stato
sull’orlo di piangere per tutta la durata del caso, una
tortura tremenda. Pensavo di scoppiare da un momento
all’altro eppure solo l’incoscienza di me stesso me
lo ha impedito,, però ora questo nodo è tutto
ciò che mi è rimasto dopo la tensione che
è svanita. Il caso è risolto, il colpevole
è stato preso, ho ricompensato almeno un po’
l’errore che avevo fatto… non
c’è più niente che mi tenga su.
Don
è qua, steso nel letto d’ospedale, appoggiato con
la schiena al cuscino che mi guarda in quel modo strano ed
indecifrabile. Ha un vago sorriso che aleggia ma non lo tira fuori,
sembra aspetti, sembra mi studi, sembra… non so…
-
Quindi hai fatto l’esca, eh? - parla con voce roca e bassa,
ogni respiro è molto lento e faticoso per lui eppure non
evita il mio sguardo, né il dialogo. Mi guarda diretto ed
anzi cerca il mio sguardo. Io sfuggo, non ce la faccio.
-
Non dico che voglio farla ancora. - Anche per me ogni parola
è una fatica immensa ma non per il suo stesso motivo, mi
sembra di avere un blocco, è questo dannato nodo…
Sento
gli occhi lucidi ed evito con tutto me stesso di guardarlo altrimenti
mi renderei conto di ciò che gli ho fatto. Cosa dirgli? Non
so proprio cosa sia giusto tirare fuori a questo punto, così
con ancora la mente che non funziona parlo senza riflettere, dicendo la
prima cosa che mi viene:
-
Quando eravamo bambini mi stavi sempre dietro. Mi proteggevi. - Ed
è vero… lo ricordo bene. Nonostante fosse cupo e
chiuso, nonostante fosse venuto da noi che era già un
ragazzino, nonostante non fossimo mai uniti davvero lui mi proteggeva
comunque a modo suo. Non mi ha mai permesso di farmi del male.
Chissà perché mi viene in testa adesso.
Lo
guardo di sottecchi e rimango incantato dall’espressione
stranissima che ha, più di prima. Quel sorriso che premeva
per uscire ora lo illumina del tutto, è… mi sento
quasi male nel vederlo. È dolce…
tenero… non l’ha mai fatto, a nessuno, ne sono
sicuro. Mi accarezza con quel suo sguardo gentile e pieno
d’amore ma non vorrei solo illudermi di vedere qualcosa che
spero ci sia ma magari in realtà non
c‘è. Forse non è come sembra.
-
Charlie non volevo questo tipo di vita per te. - Dice poi sospirando.
Anche se ha quell’aria dolce, non capisco ancora a cosa
pensi. Non riuscirò mai ad arrivare a lui, vero?
-
Siamo in due. - Dico spontaneamente. No che non lo volevo…
non volevo avere il peso della tua vita sulle mie spalle. Non volevo
essere io a contribuire alla tua fine o alla tua salvezza, questo
è troppo per me. Tu ci riesci ogni giorno, ma io non posso.
Come glielo dico? E poi non so nemmeno cosa voglio fare ora di preciso.
- Ok, riposati un po’. Mangerai quella carne? -
Indico poi quella che gli ha lasciato papà di nascosto,
è convinto che qua dentro non mangerà. Lui
divertito me la porge:
-
No, prendila tu. - L’afferro e faccio per uscire incerto: -
Ci vediamo in ufficio, amico. - Aggiunge poi. Ora questo nodo
è appena dietro i miei occhi. Respiro a fondo, mi faccio
forza e mi giro a guardarlo e nel farlo di nuovo la verità
di cui ormai sono consapevole da un po’, si apre
più crudele che mai.
-
Già… vorresti… - Dico mio malgrado
dimostrando i miei dubbi su ciò che voglio fare. Posso
continuare a prendermi un carico del genere? Ce la farò? Per
quanto tempo?
Mi
volto, muovo qualche passo nel corridoio, poi mi fermo e mi giro
ancora. Ha la testa appoggiata sul cuscino, è stanco,
pensieroso e sciupato. Guarda da un’altra parte. Cosa pensa?
Perché non me lo dice?
Forse
non lo saprò mai.
Però
la verità è che io lo amo e non posso lasciarlo
solo. Non posso e nemmeno voglio. Voglio stargli vicino il
più possibile, sempre, ogni istante della mia vita.
Però
vederlo morire no, questo mai.
Cosa
devo fare?
La
confusione non mi ha mai schiacciato e divorato più di ora.
Guardo
avanti e me ne vado vedendo solo il buio mentre le lacrime finalmente
scendono liberatorie, angoscianti e silenziose sulle mie
guance.“