CAPITOLO II:
RINTOCCHI

Centottanta i rintocchi totali dell’orologio a pendolo in un giorno intero, comprendendo anche quelli delle mezze ore.
Centotrentunmilaquattrocento i rintocchi totali dell’orologio a pendolo in due anni.
Reid non aveva proprio passato tutto quel tempo davanti all’ingranaggio ad ascoltarli e contarli, ma quasi, e se avesse dovuto perdersene qualcuno, aveva calcolato ugualmente quanti ne erano scoccati in sua assenza.
Perdersi lo scorrere ritmato del tempo per lui equivaleva a perdere la connessione dei propri sentimenti.
Conoscere perfettamente quanto passava di preciso fra lui e la separazione da Morgan era ormai tutto quello che gli era rimasto dell’uomo che aveva amato e che comunque, rintocco dopo rintocco, era certo non avrebbe mai smesso.
Contarli cercando di sentirli quanti più poteva era come rimanere consacrato a lui e non aveva altro per dimostrare ciò che provava, forse un giorno si sarebbe aggiunta la gratitudine poiché col suo sacrificio gli aveva permesso di vivere.
Erano passati esattamente due anni da quel giorno.
Un giorno marchiato indelebilmente nella sua mente eidetica dalla quale mai nulla, nemmeno miliardi di rintocchi, avrebbero potuto cancellare quanto aveva visto e vissuto in prima persona.
Due anni.
Due anni che Morgan se ne era andato.
Due.
E lui non aveva mai smesso di contare i rintocchi del suo orologio a pendolo e calcolare quanto tempo lo stesse separando dal suo compagno.
Sicuramente non avrebbe mai cessato di farlo.

***

Reid non era stato salvato da Hotchner e gli altri.
Reid era stato scaricato poco dopo la morte di Morgan, del resto l’avevano voluto per la sua mente geniale… nel momento in cui non era stata più tale, l’interesse nutrito nei suoi confronti era svanito e sicuri che ormai quel giovane catatonico completamente svanito e ammutolito fosse semplicemente impazzito, si erano maledetti per aver sottovalutato il legame di quei due e l’avevano abbandonato nel bosco. Certi che si sarebbe ucciso da solo veramente, senza dover simulare nulla per non sporcarsi le mani.
Era stato trovato poco dopo mentre vagava fra gli alberi imboccando sentieri a casaccio senza nemmeno rendersene conto.
Era stato curato e avevano tentato di aiutarlo ma senza successo, dopo aver detto confusamente ciò che era avvenuto era tornato nel suo preoccupante silenzio e perciò condotto a casa nella speranza che dopo un po’ di riposo sarebbe stato pronto per aiutarli a prendere i colpevoli di tutto quello.
Avevano cercato il corpo di Morgan ai piedi della scarpata ripida che terminava in un fiume dalla forte corrente.
Sarebbe stato capace di calcolare la percentuale di sopravvivenza per uno che si buttava da quell’altezza in un luogo simile ed anche il posto preciso in cui il corpo sarebbe potuto finire, ma Reid dopo essersi spento non si era più riacceso spinto anche dalla notizia che non l’avevano trovato.
I primi giorni li aveva passati a rifiutarsi di credere che Morgan fosse morto.
Non era possibile, non era stato trovato, non aveva visto il suo corpo contuso ricoperto dalle ferite che una caduta simile avrebbe dovuto procurargli. Non aveva costatato fisicamente che era morto, ergo per lui non lo era.
Aveva iniziato a contare i rintocchi per vedere quanto ci avrebbe messo per tornare e nonostante si sforzasse di riaccendersi per essere utile alla squadra e aiutarli nelle ricerche, non ci riusciva, era come se fosse più forte di lui.
Non era come se la sua mente si fosse spenta e non funzionasse più, in lui tutti i dati necessari arrivavano a fiumi, ma non riusciva ad esprimerli, a comunicarli, metterli in ordine e a leggerli.
Riusciva solo a calcolare i suoni del pendolo che non lo deludevano e ora dopo ora, mezz’ora dopo mezz’ora, riempivano l’aria del suo salotto.
Quantificare quanto tempo li separasse era tutto ciò che sembrava funzionare in lui.
Dopo un po’, semplicemente, aveva anche smesso di lottare per riprendere il possesso della propria mente.
In fondo era stato il proprio genio ad uccidere Morgan. Se non avesse avuto un Q.I. così famoso, non sarebbe stato preso di mira da nessun pazzo criminale e il suo ragazzo non sarebbe morto in quel modo.
Quando aveva realizzato a sé stesso quel concetto si era anche reso conto che non credeva più al fatto che in un modo inspiegabile potesse essere vivo, anche se dentro di sé da qualche parte sapeva che poteva esserci una possibilità e conosceva anche il modo in cui eventualmente ce l’avrebbe potuta fare. Ma non riusciva proprio ad analizzarla.
Lentamente i suoi ingranaggi si erano fermati. Arrugginiti. Bloccati. Incagliati.
Al contrario di quelli dell’orologio che invece funzionavano alla perfezione.
Ogni lunedì lo caricava con la chiavetta metallica. Ad ogni cambio ora sistemava manualmente le lancette e toglieva la polvere che si formava ogni due giorni.
Per il resto stava lì a fissarlo come fosse tutto ciò che gli era rimasto.
Quel regalo della madre di molti anni prima, un oggetto che aveva sempre infastidito Morgan per quei ‘Don’ ridondanti allo scoccare di tutte le ore e le mezz’ore.
Stabili, regolari, costanti.
Si poteva sempre contare sul fatto che suonassero.
Il quadrante coi numeri romani, la quarta ora con quattro lineette invece che una I ed una V vicine, il pendolo in ottone che oscillava con la sua calma placida, la cassa elaborata in legno di mogano e vetro sottile, la posizione assolutamente dritta per non farlo fermare.
Prima ora, l’una di notte.
‘Don’.
Solitudine.
Buio tutto intorno.
Il letto matrimoniale abitato solo da una persona.
La porta sempre aperta ma mai varcata.
Prima mezz’ora, una e mezza.
‘Don’.
Nessun cambiamento.
Seconda ora, le due di notte.
‘Don-Don’.
Solitudine.
Buio tutto intorno.
Il letto matrimoniale abitato solo da una persona.
La porta sempre aperta ma mai varcata.
Seconda mezz’ora, due e mezza.
‘Don’.
Nessun cambiamento.
Terza ora, le tre di notte.
‘Don-Don-Don’.
Solitudine.
Buio tutto intorno.
Il letto matrimoniale abitato solo da una persona.
La porta sempre aperta ma mai varcata.
Terza mezz’ora, tre e mezza.
‘Don‘.
Nessun cambiamento.
E poi il giorno fino a raggiungere le ore dodici, mezzogiorno, dodici rintocchi.
Ancora solitudine e silenzio.
La luce del sole ad illuminare la casa.
La porta costantemente chiusa anche se non a chiave.
Dodicesima mezz’ora.
Un solo rintocco.
Nessun cambiamento.
Tredicesima ora, le tredici del pomeriggio.
‘Don’.
Ancora solitudine e silenzio.
La luce del sole ad illuminare la casa.
La porta costantemente chiusa anche se non a chiave.
Tredicesima mezz’ora.
Sempre un unico rintocco.
Tutto dannatamente uguale.
E così la quattordicesima ora, la quindicesima, la sedicesima… fino alla ventiquattresima coi suoi dodici rintocchi a riempire la casa silenziosa e vuota.
Tutta la sua compagnia erano quei suoni inevitabili che ricorrevano costanti senza mai deluderlo e abbandonarlo.
Morgan era stato così, poi l’aveva abbandonato, non era più tornato, non c’era più stato.
E lui prima l’aveva aspettato, poi aveva semplicemente visto il tempo scorrere allontanandolo sempre più da lui.
Il giorno seguente la stessa cosa.
Quello dopo ancora uguale.
E quello successivo.
Spento.
Aggrappato a quei rintocchi, unica connessione col mondo che proseguiva nel suo corso, rintocchi che gli consentivano di stare fermo, sospeso in un nulla.
Il non fare niente anche se il tempo proseguiva, e lui si accertava che fosse così contando i ‘Don’, era come un fermare sé stesso mentre gli altri andavano avanti.
Gli era assurdamente di conforto, non sapeva come.
Dopo i primi giorni di assenza totale, erano venuti in maniera ossessiva i suoi compagni di squadra, una volta al giorno a turno andavano ad assicurarsi che fosse vivo, lo obbligavano a mangiare e lui privo di interesse li accontentava senza smettere di ascoltare le ore del pendolo.
Si occupavano di lui e come fosse un bambino regredito li lasciava fare, assecondandoli.
La sua mente analitica ed estremamente intelligente non era stata mai capace di dargli la risposta a quella domanda.
Perché Morgan?
Senza trovarla non si sarebbe rimessa in movimento.
Eppure a sue spese stava scoprendo che contrariamente a quanto aveva sempre creduto, non c’erano risposte a tutto.
Semplicemente non c’erano, anche se certe domande avevano un bisogno assoluto di essere solute per permettere al suo enigmista di andare avanti.
Per Reid era importante, lui aveva sempre funzionato così. C’erano state volte in cui non era riuscito a trovare qualche risposta, raramente, ma aveva cercato una soluzione alternativa accettabile. Non gli era mai importato se fosse positiva o negativa, per lui contava sapere.
Ora non sapeva più ed era quanto di più essenziale fosse per andare avanti.
Non riusciva più a sapere.
Non riusciva più ad andare avanti e contando il tempo il proprio si fermava, quindi preferiva rimanere così. Bloccato.
A lavoro gli avevano dato tutte le ferie possibili, la malattia e l’aspettativa, dopo avevano dovuto congelare il suo contratto trovando un modo per permettergli di tornare se un giorno avesse voluto.
Non l’avevano sostituito.
Morgan sì, anche se non era certo stato facile.
Ogni giorno avevano continuato ad andare da lui cercando di scuoterlo invano, sperando di trovare una risposta accettabile. Utopia. Non c’era una che potesse essere abbastanza valida.
Uno diverso da lui avrebbe reagito in un altro modo, piangendo ogni giorno, arrabbiandosi col mondo, sfogandosi in ogni modo possibile. Lui non sapeva farlo. Lui aveva solo un Q.I. sopra la media e il sapere.
Ed ora si erano arrugginiti.
Avrebbero mai ripreso a muoversi?

Un anno dopo, semplicemente aveva cambiato lavoro.
I sessantacinquemilasettecento rintocchi contati erano stati sufficienti per fargli capire che anche il suo di tempo doveva riprendere anche se il sapere ormai l’aveva abbandonato.
Essendo che non riusciva più ad ottenere le risposte importanti non si era più fatto domande ed aveva deciso di cambiare radicalmente, incapace di fare ciò che faceva prima.
Incapace anche di farlo senza la persona che amava.
Alla ricerca di una vita che non gli parlasse di Morgan, anche se dormiva sul letto in cui avevano fatto sempre l’amore, ascoltava l’orologio a pendolo che lui detestava e continuava a quantificare il tempo che trascorreva dalla sua scomparsa.
Un lavoro normale, un ragazzo sciupato e silenzioso, cupo, mai sorridente, di poche parole, senza risposte a qualsiasi tipo di domanda, anche la più semplice, incapace di fare un solo calcolo semplicissimo o di leggere un libro non in cinque minuti ma nemmeno in una settimana.
Lontano dalla sua vita di prima, lontano da ciò che era stato e diventato grazie a Morgan.
Lontano da tutti.
Vivo per forza d’inerzia.
Per curiosità.
Curiosità di vedere come, oltre a contare il tempo, si poteva vivere senza chi aveva significato tutto per te in quei pochi anni di unione.
‘Don’t stop believing’ non l’aveva più ascoltata.

***

Attorcigliò il manico che stringeva nelle sue mani premendolo sul grande secchio in plastica rosso, vide le morse chiudersi sul moccio appena bagnato nell’acqua e detersivo e quando fu abbastanza strizzato mollò tirandolo su. Dopo di che si girò e tornando al punto in cui si era interrotto, riprese a passare il pavimento pieno di impronte dell’edificio, era l’ultima cosa che gli rimaneva da pulire del piano di sua competenza, dopo avrebbe finito.
Con il volto immerso in nulla di specifico se non quello che stava già facendo, terminò l’angolo del corridoio quindi tornò a sciacquare il moccio e a strizzarlo, lo agganciò al carrello quasi più grande di lui, prese il secchio con l’acqua ormai nera che non profumava proprio per niente di detersivo e avviato al bagno lì accanto, già rigorosamente lucidato anch’esso, lo svuotò nel sanitario facendo un’attenzione maniacale a non gocciolare in giro. Ritirandosi controllò che il pavimento fosse ancora splendente e che non avesse lasciato ricordi, quindi costatando che era tutto a posto, chiuse la luce e la porta, dopo di ciò spinse il carrello per le pulizie nel ripostiglio, si tolse la divisa che doveva indossare per igiene durante il lavoro e indossando la sua giacca uscì dallo stanzino pieno d’odore stantio e detersivi fastidiosi.
Immerso nelle strade serali di Washington DC sprofondò le mani nelle tasche con noncuranza, quindi si lasciò schiaffeggiare dall’aria fresca autunnale che gli scostò appena i capelli biondi trascurati che gli incorniciavano il viso magro e pallido.
Alzò gli occhi cerchiati da occhiaie scure per il solito poco sonno e quando trovò l’enorme orologio alla fine della strada, lesse l’ora sentendo i rintocchi delle ore venti. Otto rintocchi.
Anche il suo orologio interno era preciso… terminava il suo lavoro di pulizie alla solita ora, preciso e spaccato.
Lavorava su due turni in due posti diversi, ad ora di pranzo puliva la posta centrale mentre nel tardo pomeriggio il settimo piano di quegli uffici che fortunatamente si svuotavano quando lui arrivava.
Ci aveva impiegato un po’ a decidere su che lavoro buttarsi… aveva voluto uno che non avesse nulla a che fare con la persona che era prima. Niente calcoli, niente che gli impegnasse la mente in alcun modo, niente a che fare col suo sapere, con lo psicologico e nemmeno che lo mettesse a contatto con la gente. Non un lavoro pubblico che lo obbligasse a socializzare. Soprattutto non qualcosa di eccessivamente faticoso, visto che non era per niente muscoloso.
Sarebbe anche andato a fare il magazziniere, per quanto gli sarebbe importato, però c’era stato un problema logistico di impedimento fisico. Di suo non era mai stato molto forte, aggiungendo la propria trascuratezza di quell’ultimo periodo era naturale che non potesse fare qualcosa di quel tipo.
Era rimasto poco altro.
L’uomo delle pulizie gli era sembrato il posto migliore, non gli importava di avere tutte le lauree ed i dottorati possibili e di fare qualcosa di umile, per lui contava essere lontano dalla vita che aveva prima poiché da quella gli mancava il principale protagonista e nemmeno sforzandosi poteva fare come niente fosse.
Davanti a certe cose non si può fingere indifferenza, davanti ad altre invece sì.
Poteva fregarsene di pulire pavimenti e bagni, non poteva fregarsene di lavorare per il BAU senza Morgan.
Faceva quella vita da un anno, quello precedente l’aveva passato nell’apatia più totale, dopo semplicemente si era rassegnato.
Il suo cambiamento non aveva abbracciato solo il suo lavoro.
Fermo alla fermata della metropolitana -non aveva più guidato d’allora- aspettava l’arrivo del mezzo con aria spenta insieme a molte altre persone. Alcune con la medesima espressione, altre con l’argento vivo addosso.
In un angolo un artista di strada suonava un violino con un cappello ai suoi piedi, alcune persone ci mettevano pochi centesimi dentro mentre altre erano impegnate nel discutere sul nome dei suoi pezzi, tutti più o meno famosi.
C’era chi sosteneva che fosse Chopin, chi Bach, chi Mozart… artisti talmente diversi fra loro che veniva da chiedersi come potevano confonderli fra loro.
Una ragazza dall’aria sveglia, presa dalla discussione per farsi vedere più intelligente di quello che in realtà non fosse, gli chiese cosa secondo lui suonasse quel giovane.
Reid l’aria intelligente l’aveva sempre mantenuta anche senza fare o dire niente di particolare.
L’ex profiler guardò lei e la sua amica, quindi come se l’avessero insultato, provando effettivamente a riconoscere la sonata, sentì come un lontano richiamo.
La conosceva.
Strinse gli occhi e corrugò la fronte.
Sì, era sicuro di averla ascoltata molte volte e forse a casa aveva anche dei dischi di quell’artista.
Ma chi era?
Gli sfuggiva il nome e non era solo una questione di memoria corta, cosa che lui non aveva mai avuto. Era una questione ben peggiore per uno come lui.
Se un tempo lo aveva saputo, ora non più.
Come se il suo sapere precedente l’avesse abbandonato del tutto lasciandolo nell’ignoranza più assoluta.
- Non so. - Liquidò frettoloso. Non mentiva, non ne era mai stato capace.
Con turbamento si allontanò dalle due sedendosi su una panchina di pietra consumata, accanto ad un altro ragazzino intento su un libro di matematica a cercare di finire dei compiti prima di arrivare a casa, probabilmente.
Li guardò con indifferenza e prima di rendersene conto stava leggendo l’equazione da scuola superiore.
Una parte di sé tornò a dirgli che un tempo avrebbe saputo subito la risposta ma oscurando la propria espressione già poco luminosa di suo, distolse lo sguardo infastidito.
Non sapeva.
Non sapeva più niente di ciò che un tempo invece gli veniva con una tale facilità da lasciar basiti chiunque.
Morgan sopra tutti.
Ma anche se avesse avuto quelle risposte, se le avesse ricordate e se il suo cervello gli avesse elaborato le informazioni che aveva, pur dandole il suo compagno non avrebbe più fatto battute per sminuire la sua intelligenza, non l’avrebbe guardato semi schifato per poi scherzare a proposito del suo genio.
Morgan non avrebbe cercato di alleggerire il carico della propria mente che spesso gli pesava troppo sulle spalle.
Allora per lui non aveva più senso sforzarsi e funzionare ancora come un tempo.
Il sapere e il strabiliare tutti era ormai privo di interesse.
E non era comunque vero che amava strabiliare tutti, lui voleva sapere perché gli piaceva, perché gli veniva naturale, perché ci riusciva. Però c’era solo una persona che amava lasciar di stucco e quella non c’era più.
No, quel mondo per lui aveva perso di interesse, così come l’aveva perso il sapere le risposte a tutte le domande.
Poco più in là sentì un ragazzo dell’accademia musicale dire che il giovane violinista stava suonando il ‘Notturno’ di Chopin, ma anche sapendolo, ora, non aveva sentito né caldo né freddo. Solo un campanellino che confermava che era quello il nome giusto.
Sì, continuava a sapere le cose, solo che si fermavano nella sua mente fra questa e la parte adibita al decifrare.
E onestamente non gliene importava un bel niente, ormai, di sbloccare quella parte di sé. Di tornare a sapere tutto.
Non gli interessava proprio.
Anche se questo significava infrangere la promessa che gli aveva fatto quel giorno terribile che gli aveva cambiato totalmente la vita.
“Mi dispiace ma non ci riesco a credere nonostante tutto. Non sono come te. Perdonami.”