CAPITOLO
IV:
CAMBIAMENTO
Alzò
gli occhi al cielo uscendo di corsa dall’ennesimo ospedale.
Era
giorni che era nuvoloso, del resto l’autunno era la stagione delle
piogge.
Dai
marciapiedi e dalle strade bagnate, constatò che doveva aver smesso di
piovere da poco, guardò poi l’orologio al polso con aria sbrigativa.
Quanto era stato dentro cercando di farsi ascoltare?
Aveva
avuto una forte tentazione di chiamare Rossi e Hotchner per farsi
aiutare, o Garcia e chiederle di violare i computer degli ospedali che
aveva in lista, ma per fortuna non ne aveva avuto bisogno.
Non
era l’ultimo rimasto ma quasi, però aveva tirato un respiro di sollievo
nel constatare che doveva avercela fatta.
Non
era un tipo sensitivo, entrando in quell’edificio non aveva avuto
percezioni strane di alcun tipo se non una forte seccatura per essere
stato mandato da un parte all’altra come una trottola, però ora sì.
Ora
sì che sentiva, sentiva eccome… quell’accelerazione cardiaca, quella
sensazione asmatica, l’ansia che gli schiacciava il petto e gli torceva
lo stomaco.
Avrebbe
vomitato se avesse mangiato precedentemente, ma aveva lavorato
incessantemente per… bè, non aveva idea di quanto tempo ci avesse messo.
Sapeva
solo che aveva perso la cognizione di tutto, ma ciò che aveva provato
immergendosi nel suo vecchio mondo era stato come tornare a casa dopo
due anni di assenza.
Di
minuto in minuto, mentre analizzava e tirava fuori teorie e calcoli,
gli ingranaggi si oliavano e riprendevano a muoversi sempre più
velocemente, fino a scorrere perfetti e veloci più che mai.
Non
aveva voluto coinvolgere gli altri, non ci aveva pensato minimamente e
non per mancanza di fiducia o per orgoglio, ma perché era una cosa che
voleva fare da solo, ritrovare Morgan. Certo senza il grande lavoro che
prima Rossi e Hotchner avevano fatto, di sicuro non sarebbe potuto
essere così veloce, però c’era anche da dire che era colpa sua se erano
passati due anni. Se non si fosse spento a quel modo avrebbe potuto
ritrovarlo prima.
E
sebbene inizialmente era andato a cercare un probabile cadavere, di
ospedale in ospedale, una zona specifica ben lontana dalla loro, aveva
cominciato a credere di poter trovare una persona viva.
Mille
ipotesi si susseguivano di continuo ed ora avrebbe avuto risposte.
Non
essendo più un agente dell’FBI non aveva potuto ricavare molto, ma aver
ottenuto un indirizzo era stato già tanto.
La
sensazione di impazzire, come due anni prima, era di nuovo incombente e
questa volta non per il dolore, bensì per l’ansia.
Suonò
il campanello mentre una valanga di domande e risposte -solo ipotesi-
si alternavano a fiumi nella sua mente velocissima, poi, finalmente, la
porta si aprì ed ebbe la consapevolezza che era ora della verità.
Ed
ecco, il tempo si fermò.
Il
viso dai lineamenti un tempo sicuri e decisi era dinnanzi a lui.
La
sua pelle scura non era più liscia come un tempo, si intravedevano
cicatrici più o meno profonde, gli occhi neri una volta carichi di
certezze come due braci penetranti, ora lo fissavano smarriti ed
insicuri.
Reid
aveva pensato di trovarlo nelle peggiori condizioni, addirittura in
coma o deturpato in un modo disonorevole, ma a parte qualche segno di
poca impressione ed un’espressione che non era nemmeno l’ombra di ciò
che era sempre stato, Morgan stava bene ed era vivo.
Fu
lì, nel tempo bloccato, che al giovane dai capelli biondi parve di
essere lui a cadere da quel precipizio sfracellandosi nel fiume, fra
rocce e massi, trascinato via in una corrente gelida terribile, portato
istantaneamente via lontano.
E
prima ancora che parlasse e si spiegasse, capì da solo. Capì
nell’immediato come un pugno allo stomaco.
-
Hai perso la memoria… - Eppure era la soluzione più ovvia e più
terribile insieme.
Talmente
logica da far ridere e al tempo stesso crudele da far piangere, ecco
perché non aveva mai osato nemmeno pensarlo.
Perché
non recuperare la memoria in due anni equivaleva a non recuperarla più,
a perdere Morgan lo stesso, a non poterlo avere ancora e forse per
sempre.
-
Sì? - Disse allora l’altro che aveva perso un po’ la forma perfetta ed
atletica di un tempo. Era sciupato a sua volta, i capelli trascurati
erano più lunghi del solito, la barba incolta e l’aria di chi non
dormiva mai.
Il
tormento nel suo viso, nella sua espressione, nella sua postura
ritirata e insicura, nel tono della sua voce.
Quello
del suo Morgan non aveva nulla, solo il corpo.
La
testa cominciò a girargli constatando il significato reale e tremendo
di quella realtà, quindi si aggrappò allo stipite e il non aver
mangiato per quegli ultimi giorni di lavoro incessante, il non aver
dormito, il non essersi fermato un secondo gli gravò tutto in una volta
sulle spalle, schiacciandolo implacabile.
-
Sono Spencer… ti prego, Derek, dimmi che ti ricordi di me… - Il pallore
fu spaventoso ma i suoi occhi cercavano di rimanere aggrappati alla
labile speranza che si sbagliasse.
Poteva
sbagliarsi, non era mai successo ma quella volta pregò che succedesse.
Così
non fu.
Morgan
scosse il capo smarrito e preoccupato insieme vedendolo stare male in
modo evidente.
-
No, mi spiace… io… ho perso la memoria e non ricordo niente… ma tu stai
bene? - In quello, oltre alla lacerazione dovuta alle sue parole, un
piccolo fuoco tentò di riscaldare la sua pelle gelida.
Quelli
erano i suoi vecchi modi di fare. Eludere le domande su sé stesso e
preoccuparsi subito per gli altri. Per lui.
Aprì
la bocca cercando di rispondere, ma non riuscendo più a mettere in
ordine i propri pensieri troppo impetuosi e confusi, si ritrovò a
scivolare giù come se le ginocchia perdessero di consistenza o gli
tagliassero i fili.
L’ultima
sensazione tattile che ebbe, mentre i sensi gli si ovattavano
mescolandosi confusamente fra loro, furono le sue mani che lo
prendevano per le braccia cercando di reggerlo.
Una
scarica elettrica lo percorse ed invece di riprendersi, gli diede il
colpo di grazia.
Dopo
due anni, Morgan lo stava toccando.
Non
era morto.
Era
vivo.
Stava
bene.
Però
aveva perso la memoria.
Non
si ricordava più di lui.
Un
tuono vicino irruppe con fragore all’esterno facendo andar via la luce
in un tremolio prolungato dei vetri.
Col
buio circostante, anche Reid vi cadde inevitabilmente.
Raccolse
i propri pensieri quando ricominciò a distinguere il caos cosmico in
cui era sprofondato e dando un nome ad ogni immagine che gli si
sovrapponeva, rivisse ciò che aveva dovuto aver passato Morgan.
Dalla
caduta, allo sbattere ripetutamente violentemente contro rocce, al
venir trascinati dalla gelida corrente, al finire lontano in una sponda
di fortuna, da qualche parte sconosciuta di quel bosco troppo fitto.
Troppo lontano dalla sua città d’appartenenza. Troppo lontano da tutto.
Privo
di sensi per chissà quanto, poi per miracolo si doveva essere
risvegliato, si era forse trascinato in qualche sentiero e lì di sicuro
era stato trovato da alcuni escursionisti.
Portato
in un ospedale, curato, salvato, rimasto probabilmente in coma per dei
giorni, delle settimane, ripresosi non aveva più recuperato la memoria.
Dopo le riabilitazioni aveva cercato di capire chi lui fosse senza
successo, sperando di trovare delle risposte aveva cercato di andare
avanti alla meglio così, da solo, senza nessuno, senza ricordi, senza
nemmeno sé stesso.
E
lui l’aveva saputo, quando si era deciso ad andare a cercarlo, che
doveva essere successo qualcosa del genere, anche se non aveva osato
ipotizzare la perdita di memoria.
Ma
come far fronte, ora, ad una realtà simile?
Però
in fondo da che avevano cercato un cadavere, a che avevano trovato una
persona viva… potevano ritenersi contenti, dopotutto.
Era
ancora fra i vivi.
Vivi…
era vero… Derek era ancora con lui… con lui… non era morto come per due
anni aveva creduto.
Era
vivo…
Quando
riaprì gli occhi di scatto, erano pieni di lacrime che scendevano
copiose e la luce fioca delle candele per il blackout non lo fermarono
dal trovare subito Morgan e aggrapparsi istintivamente al suo collo
stringendolo forte come fosse la sua ancora di salvezza.
Non
aveva idea di cosa stesse passando lui, se l’aver rivisto un viso
conosciuto, il viso della persona amata, se l’averlo toccato, poteva
aver giovato o peggiorato, ma al momento non poteva far altro che
essere egoista e curare sé stesso.
Solo
un attimo.
Uno
piccolo piccolo.
Al
suo termine si sarebbe ripreso, avrebbe tirato su le maniche e con la
sicurezza che a Morgan mancava e che lui non aveva mai avuto, l’avrebbe
aiutato restituendogli lentamente tutto ciò che aveva perso.
Lentamente
ma con decisione, con risolutezza, testardaggine e senza mai mollare.
In
un modo o nell’altra se lo sarebbe ripreso ed in vita sua,
improvvisamente, poteva dire di non essere mai stato tanto sicuro di
qualcosa come in quell’istante.
E
stringerlo con forza e disperazione, piangendo come un bambino,
sentendo di nuovo il suo calore ed il suo corpo, dopo giorni passati a
sognarlo e basta, lo ricaricò come non fosse mai stato male.
Titubanti
sentì le mani appoggiarsi sulla sua schiena magra, tremavano, al
contrario suo che finalmente era fermo e stava bene, seppure avesse
pensato di impazzire solo un istante prima.
Non
ricordava ancora.
Prese
un profondo respiro, si fece coraggio e si separò da lui asciugandosi
le lacrime con fare infantile, tirò su col naso e lo guardò scacciando
tutto il suo dolore e la sua insicurezza.
Adesso
era ora di occuparsi della persona che amava, l’avrebbe curato lui.
Morgan
lo guardò smarrito ma con pazienza e preoccupazione.
-
Tutto bene? - Chiese incerto sperando che qualunque cosa avesse non
fosse grave.
Era
consapevole che non ricordava ancora niente e che per lui era una
nebbia terribile nella quale sapeva che qualcosa di familiare era
vicino, ma non era certo facile far funzionare tutto come niente.
-
Adesso andrà bene. - Disse con sicurezza, sorridendo fra le lacrime che
gli illuminavano gli occhi lucidi.
Lo
vide colpirsi di quello sguardo risoluto ma gentile, di chi aveva
trovato ciò che da tempo aveva disperatamente cercato e capì che
essendo di nuovo insieme, le cose non sarebbero potute andare che bene.
E
questo oltre a sperarlo e crederlo con tutto sé stesso, era anche una
certezza.
-
Io… mi dispiace, ma non ricordo niente, come ti dicevo… immagino che ci
conoscevamo… - Cominciò allora Morgan impaziente di capire chi fosse,
sapendo che finalmente anche per lui erano arrivate le tanto attese
risposte.
-
Ora è così ma non devi smettere di credere che presto tornerai come
prima. Vedrai. - La sicurezza con cui parlava e la luminosità del suo
sguardo parevano rubati dall’uomo che aveva davanti, che ora lo fissava
interrogativo e smarrito. Allungò di nuovo la mano fino a toccarlo,
quindi stringendogli la spalla, disse calmo:
-
Io sono Spencer Reid, tu sei Derek Morgan. Adesso ci penserò io a te. -
E
così sarebbe stato, con una canzone da ascoltare ed un orologio a
pendolo da caricare per poter ricominciare a contare i rintocchi da
capo e vedere quanto tempo, ora, avrebbero passato insieme.
Fuori
aveva smesso di piovere e tuonare e sebbene l’autunno non permettesse
grossi slanci di bel tempo, il sole riuscì timidamente a farsi strada
da sotto le nuvole grigie che ora si scostavano.
Anche
il loro sole personale, rimasto nascosto per due lunghi anni, stava
lentamente tornando a farsi vedere mentre una musica nostalgica
accompagnata da parole che dicevano di credere ancora, si insinuava
nelle loro menti.
FINE