CAPITOLO XVI:
ISTINTI

/Running up that hill – Placebo/
C’è qualcosa che non va.
È una sensazione molto persistente.
Io ce l’ho da Los Angeles, quando mi sono imbattuto per la prima volta con Michael Rivkin, ma Tony ce l’ha da molto prima.
La cosa mi stupirebbe se non sapessi meglio degli altri quanto sia cresciuto in tutti i sensi. È maturato molto ed ha imparato a basarsi di più sul suo istinto che sulla sua ragione.
Sono contento di lui, sa che mi fido, per questo segue ciò che sente a volte anche senza interpellarmi.
Non ne abbiamo parlato, sappiamo che nell’aria c’è qualcosa. Lo capiamo al volo guardandoci l’un l’altro.
È una sensazione strisciante crescente, ormai è impossibile da ignorare.
Quando quell’uomo è nei paraggi succedono sempre morti inspiegabili. Apparenti favori, sono solo assassini o criminali a cui diamo la caccia. Però non va bene.
E quell’uomo sta con Ziva.
Non mi piace, non mi piace per niente. Non va bene così.
Questa certezza ce l’ho da quando sono tornato da Los Angeles. È colpa di quel tipo, posso metterci la mano sul fuoco e quando ho visto Tony così ossessionato da lui ho capito che era proprio vero. Non che avessi dubbi.
Non mi ci sono messo anche io, sapere che gli stava addosso era abbastanza. Non potrei fare di meglio.
Però non mi piace sapere Rivkin in città, con Ziva e nemmeno sentire questa sensazione sgradevole e vederla identica negli occhi del mio uomo. Non mi piace nemmeno lasciarlo fare ma è giusto, è una cosa di cui si è preso carico, un istinto che deve seguire fino a che non sarà soddisfatto.
Se non lo facesse lui lo farei io.
Prima di andare a casa lo incrocio seduto alla sua scrivania. È sera, stanno andando tutti via e della nostra squadra è rimasto solo lui. Scambia due parole con Fornell riguardo al caso che abbiamo seguito oggi, che si è risolto con l’ennesima morte inspiegabile del nostro sospettato, poi rimaniamo soli noi due.
Molti uffici sono spenti ormai, la luce della sua scrivania è aperta, io mi chino e mi appoggio su di essa, avvicino il viso al suo e scrutandolo a fondo arrivo a tutto quel che ha dentro. Mi lascio penetrare a mia volta. Le nostre espressioni serie sono perfettamente identiche in questo momento.
Il suo viso un po’ più giovane del mio mi fronteggia diretto, quindi scrutando i suoi occhi azzurri, mormoro facendomi sentire solo da lui:
- Cosa ti preoccupa? – Non si affanna a negare, siamo solo noi, non ha nessuna posa da dover mantenere. Normalmente le sue maschere servono per non snudarsi davanti a tutti, ma con me non servono.
- Rivkin è in città. – Questo basta per sottintendere che questa morte misteriosa non può che essere opera sua.
- Lo so. -
- Con Ziva. – Sussurra a sua volta sempre serio quanto lo sono io.
- Quel tipo è testardo. – Per non dire altro.
- Ti infastidisce professionalmente o personalmente? – Dato che è chiaro che infastidisce anche me. Non gli serviva chiederlo. Ci capiamo al volo fino a questo punto, fino a non aver bisogno di domante inutili di chiarimento, sappiamo già cosa pensiamo ed in quale stato d’animo siamo. Sappiamo leggerci dentro come con altri non riusciamo.
- E' difficile separare le due cose. – Ed il fatto che lavoro con l’uomo che amo ne è davvero la conferma. A volte non sono certo di riuscirci così bene ma non posso mostrare esitazioni. Non mi resta sempre che seguire il mio istinto.
- Sei preoccupato. – Dice con certezza a fior di labbra. Nemmeno questa è una domanda, sa che è così e non perché si capisce guardandomi, so bene che sono impenetrabile. È intimità la nostra, anche solo in un breve dialogo mormorato come questo, parole sussurrate coi volti vicini mentre ci scrutiamo le iridi di un colore simile e sentiamo i respiri l’uno sull’altro.
- Oh si. Sono molto preoccupato. – E prima che segua il desiderio di baciarlo anche per trasmettergli sicurezza, oltre che per un mio capriccio, mi alzo riprendendo controllo. Siamo in ufficio, ci sono telecamere e persone che, nonostante l’ora tarda, passano. - Tienilo d'occhio. – Una lotta non indifferente di istinti. Uno che mi dice di farlo tornare a casa con me e dirgli di stargli alla larga, l’altro di seguirlo.
Già, a volte è difficile separare il privato dal lavoro, ma come capo squadra e agente con esperienza so che è necessario, che non posso fare ciò che la mia parte innamorata vorrebbe. Ci sono cose giuste per più persone ed in questa storia, quelle che sono in gioco, sono altrettanto importanti.
Nonostante vorrei essere egoista e portarmelo a casa, so che è meglio rimanga qua a seguire ciò che lo tormenta.
Non ha sbagliato ad intestardirsi su Rivkin. Ne sono certo.
E l’idea che stia con Ziva è davvero pericolosa.
Vorrei Tony solo per me, ma non lo è e devo lasciarlo fare.
Me ne vado lanciandogli un ultimo sguardo fugace che ricambia con consapevolezza.
Ci rivedremo fra poco e andrà tutto bene, vero?
Dannata sensazione!”

Trovare l’indirizzo di Ziva nell’elenco dei luoghi contattati dal computer dell’assassino morto, mi ha quasi fatto venire un colpo.
E da quando l’ho letto non c’è stato un secondo in cui io me lo sia detto.
Quell’uomo non se ne è andato anche se gli avevo detto di farlo.
Pensa che io sia geloso. È solo un imbecille.
La natura del mio sospetto nei suoi confronti non c’entra nulla con ciò che provo, sono solo convinto che lui sia un terrorista e che in realtà con il Direttore del Mossad, Eli David, padre di Ziva, stia progettando qualcosa di ben peggiore.
E lei ne andrà di mezzo.
Mi dispiace che sia innamorata di lui, ma non è gelosia. Per me lei è una sorella, le tengo molto e non voglio che soffra più del necessario anche se so che non posso obbligarla a fare ciò che non vuole. Se non vuole aprire gli occhi che li tenga chiusi.
Però sto andando a casa sua e se mi aprirà Rivkin sarà la prova che il mio non è solo un sospetto.
Anche se questa sensazione strisciante mi sta quasi uccidendo.
Ce l’ho da troppo tempo e di giorno in giorno ha acquistato sempre più forma e consistenza. Inizialmente pensavo che riguardasse Gibbs e la sua partenza per Los Angeles, ma così non è stato. È tornato sano e salvo.
Però è arrivato lui, Michael Rivkin, il ragazzo di Ziva.
Colpevole di troppi omicidi da quando è qua in città.
Non c’erano prove, non ce ne sono mai state ma il mio istinto non poteva sbagliare, era un idea fissa che mi stava uccidendo.
Ed ora eccomi qua con quel che cercavo.
Quando mi apre proprio lui ho un moto di caos dentro di me. Non so se essere contento oppure no.
L’ho smascherato ma farò del male a Ziva che… bè, sicuramente arriverà a pensare addirittura che io sia geloso di lei. E come posso dirle che è impossibile perché sto con Gibbs? Che la natura della mia preoccupazione oltre che per il Paese è perché la reputo un’amica preziosa ma niente di più?
Non mi è mai importato ciò che pensano gli altri e nemmeno ora questo qui mi accusa di essere paranoico o qualcosa di simile.
Quel qualcosa di questi giorni cresce ancora ed ora c’è una banda intera dentro di me che batte e batte e non mi lascia in pace.
Parlo con lui calmo cercando di mantenere il controllo di ogni cosa. Lei non c’è. Dovrei aspettare il suo arrivo, dovrei chiamare Gibbs, dovrei fare molte altre cose ma chissà se questo starà pacificamente qua ad aspettare i miei comodi!
Con ironia che non mi aiuta, mi accingo a fare il mio dovere di agente.
Era la prova che mi serviva.
Dall’esterno mostro un controllo di me che interiormente non ho, il cuore accelera, i respiri iniziano ad accorciarsi, il sudore diventa freddo, mi sembra di star per esplodere.
Ci siamo.
Era questo.
Era tutto qua.
Quella sensazione non riguardava né Gibbs né Ziva, dopo tutto.
Ma solo me.
Posso esserne contento. Se si fossero trovati loro in pericolo non me lo sarei mai perdonato, visti tutti i sospetti che ho sempre avuto su di lui. Mi sarei detto che avrei dovuto fermarlo prima, che era la salita che avrei dovuto percorrere io.
Ed ora ci sono.
Quando lo arresto e tiro fuori manette e pistola lui ha proprio la reazione che mi aspettavo e nonostante lo sapessi non riesco a limitarla ed evitarla.
Così prima che io possa rendermene conto e ragionare sono qua a lottare serrato con lui. Mi fa volare la pistola e da quel momento è un caso cosmico.
Quei tamburi aumentano, non sento nulla, il cuore va come un matto e mi sale in gola, non capisco niente, il corpo si muove da solo e nonostante i colpi che ricevo mi concentro a darne. Non mi fermo, con istinto di sopravvivenza mi butto a capofitto con la sola idea di fermarlo.
Colpire a mia volta e fermarlo.
Devo riuscirci.
Non so come agisco, come mi muovo, come gli vado contro, cosa gli faccio. Non percepisco i miei stessi movimenti e non faccio caso ai suoi.
So solo che non devo bloccarmi. Non posso.
Devo andare avanti e avanti fino a che…
Ma quando mi rompe il gomito me ne rendo conto eccome.
Mi si staccano i fili per un momento e vorrei avere il tempo di recuperare, riprendermi, respirare, tornare in me, lasciare che il dolore si attenui. Vorrei avere più tempo.
Già.
È proprio questo il punto.
Più tempo per chiamare Gibbs ma non per chiedergli aiuto, per sentire la sua voce.
Assurdamente in questo nano secondo in cui il dolore è talmente acuto che mi fa sragionare, il mio pensiero è questo.
Avere tempo per sentire la voce del mio uomo.
Forse non sono normale ma… bè, mi sta aspettando a casa.
Pensa che tornerò intero.
Non posso deluderlo.
Sia pure con un braccio rotto, conta che torno da lui o non mi perdonerebbe.
È così, pensando a Gibbs mentre Rivkin mi sta soffocando, che trovo non saprei proprio dove la forza di sbatterlo giù contro un tavolino di vetro che va in pezzi.
Rimane stordito abbastanza da mollare finalmente la presa, quindi mi trascino via verso la pistola a terra, il braccio rotto contro il corpo non lo muovo. La prendo e mi lascio cadere.
Fino ad ora è tutto andato velocissimo. Come un film che viene mandato avanti in fretta. Ma qua. Esattamente qua.
Qua tutto si ferma.
È solo un altro secondo che mi pare duri all’infinito.
Lui si alza.
Io mi giro sulla schiena.
Estrae un pezzo grande di vetro dal fianco che gli si è conficcato.
Stringo la pistola.
Mi guarda fuori di sé.
Stralunato gli dico di non farlo. Glielo dico molte volte.
Lui alza la mano col vetro, barcolla fino a me steso per terra.
È quando sta per buttarsi con le sue ultime forze che io, con le mie rimaste, tendo il braccio sano e sparo tre colpi contro di lui.
Tre.
Non uno. Non qualcosa che potesse solo fermarlo e ferirlo.
Tre. Per ucciderlo.
Oh, lo so bene… questo lo pagherò.
Ma qua a vedermi la vita passarmi davanti con la possibilità di non tornare intero da Gibbs non ho più ragionato.
È stato solo istinto.
Lui si accascia giù vicino a me, abbasso il braccio.
Sto ancora respirando?
Sono vivo? Cosa mi fa male? Come è finita, allora?
Cerco di capire cosa è di me quando la porta di casa si spalanca di botto ed io istintivamente alzo il braccio di nuovo puntando la pistola contro la persona appena entrata.
È Ziva.
Ziva che guarda Michael ferito a morte e poi torna a guardare furente me, senza abbassare la sua arma che punta con l’insana intenzione di usarla.
Ho ucciso il suo uomo per poter tornare dal mio.
Però il suo era un criminale.
Nonostante tutto non sono davvero sicuro che non premerà il grilletto.”

Il segretario della marina venuto a scambiare due chiacchiere con me sul caso di oggi, nel quale era quasi rimasto vittima, dopo aver parlato di Vance e gettato dubbio su Ziva, se ne va.
Rimasto solo nel mio solito scantinato, con un’altra barca nuova che sto costruendo, rimango a guardare i due bicchieri ora vuoti dove abbiamo appena bevuto un po’ di bourbon.
È strano vederli lì ed essere solo in casa.
Di solito, la sera, ne bevo un po’ con Tony.
Vederli vuoti mi fa sentire improvvisamente così anche me. Come se… non saprei dire.
È una sensazione fugace, quella che avevo prima in ufficio mentre parlavo con Tony.
Ho fatto bene a far vincere la mia preoccupazione per Ziva su quella per Tony?
Il mio lato professionale su quello personale?
Corrucciandomi mentre mi faccio questa insolita domanda non da me, mi giro cercando gli attrezzi per rimettermi a lavorare, ma il cellulare mi ferma.
Sbuffo mentre lo prendo.
Questo è lui che mi dice che tarda. Ma va! Non me ne ero accorto!
Sforzandomi di essere ironico per scacciare quella sensazione che martella prepotente innervosendomi più del normale, rispondo dopo aver letto il suo nome sul display.
- Tony! – Irrompo esageratamente secco. Non ha ancora detto nulla, potrei anche sforzarmi di lasciargli il beneficio del dubbio!
- Gibbs… - Ma la sua voce incerta e affaticata mi raggela. Non mi piace. Un’ondata mi sale veemente annullandomi come ricordo da molto non succedeva. Non parlo. Non respiro. Non penso. Non faccio nulla. Ascolto. E lui continua sempre con un filo di voce che non mi piace sentire. È successo davvero qualcosa e proprio ora che non ero con lui. - … sono in ospedale. A parte un braccio rotto io sto bene. Rivkin no. – La sensazione di avere il mio corpo simile alla gelatina è tremenda. Sto ancora zitto. Ancora non ragiono. Unicamente concentrato sulle sue parole così lontane e affaticate. – Gibbs, l’ho ucciso. –
Il silenzio. I suoi respiri pesanti. Non è dolore fisico sebbene un braccio rotto ne provochi.
È il suo stato d’animo che mi arriva sparato nonostante sia solo un telefono.
Lo realizzo così, come un proiettile.
Non sta bene.
Ha bisogno di me.
- Arrivo. – Mormoro solo questo con risoluzione e sicurezza, come se non ci fossero problemi che non posso risolvere, come se arrivando tutto andrà bene.
Oh, se fosse così…
Perché, invece, ho la dannata sensazione che da ora tutto sarà sempre più in salita? “