CAPITOLO
29:
L’OMBRA
SUL SOLE
/Posso dirti perché
La gente impazzisce
Posso mostrarti come
Puoi fare lo stesso
Posso dirti perché
La fine non arriverà mai
Posso dirti che sono
Un'ombra sul sole
Forme di ogni grandezza
Si muovono dietro i miei occhi
Porte nella mia testa
Sigillate dall'interno
Ogni goccia di fiamma
Illumina una candela
Ricordi di colui
Che vive nella mia pelle/
- Audioslave -
- Ho
trovato tuo padre! -
Aveva
detto solo questo Alexander ad Alexis, in quel suo modo
freddo e metallico, quasi fosse un robot che dispensava notizie
qualunque. Lei
ne rimase colpita, non da lui, sapeva che l’avrebbe detto così come
sapeva che
ci sarebbe riuscito, la colpì il fatto che era giunto il momento.
Così
si concesse solo un istante per incassare il colpo, un
millesimo di secondo necessario per inghiottire a vuoto e prendere le
forze,
cercare di ascoltare il proprio interno, i battiti che da
impercettibili
diventavano sempre più udibili e forti, lo stomaco che le si serrava a
doppia
mandata ed i rumori che diventavano ovattati fino a farsi strada di
nuovo
lentamente, più chiari e capibili, come una musica rock sinuosa che
partiva
lenta e piano per andare sempre più veloce e forte.
Ecco,
a quel punto disse:
-
Andiamo! -
Con
due occhi azzurri decisi e determinati, di una serietà
sconcertante. Si rese conto che non aveva più tempo per dubbi e
ripensamenti,
una volta trovato il vero padre era impossibile lasciar perdere e non
andare a
vederlo, lo sapeva. Ormai erano finiti i momenti dei giochi, persino Yu
lo capì
dal momento che si limitò ad ascoltare senza guardarli o proferire
parola.
-
Andiamo da suo padre, non so dirti quando torneremo… tu non
distruggermi la casa! -
Anche
questo Alexander l’aveva detto freddo e distante, con la
mente rivolto al luogo in cui stava per andare, Yu non rispose e non
fece cenno
d’aver sentito ma tutti sapevano che invece aveva sentito eccome. Quel
tono così
gelido chi poteva ignorarlo?
Così
presero il necessario per il viaggio ed uscirono lasciando la
casa a Yu che, una volta da solo, appoggiò la testa sullo schienale del
divano
mettendo il gioco della Play Station in
pausa.
“Almeno lei ha la possibilità di incontrarli e conoscerli, i
suoi…
io so chi erano e so che sono morti, niente di più, niente di meno. E
so che li
ho odiati per tutta la mia vita senza saperne il reale motivo. In
qualunque
modo andranno le cose, oggi avrà qualcosa di guadagnato comunque!”
La
struttura si presentava a loro alta e comune a molti altri
ospedali di cura mentale.
Bianca,
moderna, spaziosa, pulita.
Entrati
nell’edificio a più piani si veniva catapultati in un
enorme spazio vuoto di forma quadrata, attraversato solo da persone
alcune in
camice altre in borghese, su tutta la lunghezza delle mura vi si
affacciavano
tutti i piani tramite sorte di balconi posti lungo le quattro mura in
modo che
anche dall’ultimo livello si potesse vedere il pavimento del piano
terra.
- Un
centro di salute mentale… -
Mormorò
Alexis a fior di labbra una volta entrata e guardatasi
intorno.
-
Sì… come mia madre… -
Lei
lo guardò credendo di aver capito male:
- Ma
non è mica lo stesso… -
-
No… dove l’avevo messa io era il migliore. Questo non so com’è…
-
Lasciò
in sospeso la frase per evitare di ferire la ragazza che
sicuramente in cuor suo sperava di potersi riunire al padre perduto e
con un po’
di fortuna anche alla madre.
Inghiottì
per l’ennesima volta senza rispondere, disse solo:
-
Dov’è? -
Alexander
sparì un attimo per chiedere alla consolle dove si
poteva trovare l’uomo che rispondeva al nome di Harry Thorogood. Gli
diedero un
numero di stanza e di piano, in seguito si diressero da lui senza più
proferire
parola. Alex avrebbe potuto dire quello che aveva scoperto su di lui,
avrebbe
potuto spiegarle prima come stavano le cose, ma siccome lei non
ricordava nulla
del suo passato preferì evitare qualunque informazione a riguardo. Non
sapeva
come sarebbero andate le cose ma i ritagli di giornale risalenti
all’epoca,
erano raccapriccianti… come la scena che si era presentata innanzi agli
agenti
di polizia occorsi troppo tardi.
Sapeva.
Lui
sapeva.
Sapeva
solo perché lei aveva chiesto di trovarlo, altrimenti non
avrebbe saputo, non avrebbe nemmeno VOLUTO sapere, ognuno aveva i
propri
scheletri macabri nell’armadio, scheletri di sofferenza e dolore che
talvolta
andavano dimenticati per difesa naturale della mente, per impedire il
crollo
alla persona.
Giunti
al piano, l’ultimo, si affacciarono al parapetto che
contornava tutto il reparto mentre dall’altra parte v’erano le camere
dove i
pazienti risiedevano, guardarono in basso e subito una strana
impressione li
attraversò facendoli rabbrividire. Cadere da lì avrebbe ucciso chiunque.
Quando
un’assistente giunse da loro per riceverli, glielo dissero:
- Ma
non è pericoloso la struttura in questo modo? -
-
Non dovete preoccuparvi principalmente perché qua ci sono solo
le persone in fase di guarigione, o meglio chi dorme in questa parte è
al 90 %
guarito e non presenta un pericolo in nessun caso, in secondo luogo
sono
parapetti spessi, alti e robusti… -
Non
sindacarono sul perché non cambiassero totalmente quella
specie di terrazzo, in quel momento avevano un’altra priorità.
-
Cerchiamo il signor Harry Thorogood… -
-
Certo… per di qua… devo avvertirvi che come tutti gli altri che
sono qua sopra, Harry è in una buonissima fase di guarigione, è
cambiato molto
dall’inizio della sua malattia e non presenta per nulla alcun pericolo
per gli
altri… -
Mentre
la donna spiegava la situazione mentale attuale dell’uomo,
Alexis fece una sorta di viaggio nel periodo in cui era stata sistemata
in
istituto. I suoi ricordi partivano da lì, da quando ancora non parlava.
Per lei
da allora fino al momento precedente all’incontro con Alexander,
passando per
tutte le famiglia che avevano tentato di adottarla senza mai riuscirci
grazie
al suo caratteraccio, era stato un lungo periodo d’inverno. Un unico
pesante e
freddo dicembre durante il quale mille brividi l’avevano scossa sin nel
profondo. Non aveva idea di cosa le fosse successo prima dell’istituto
anche se
vi si era trovata già grandicella per non ricordarlo, l’aveva sempre
infastidito quel fatto ma non aveva mai potuto farci nulla e non era
tipo da
rivolgersi a gente che utilizzava i metodi ipnotici, non credeva a
quelle
sciocchezze. Sapeva d’essere sempre stata una persona dal carattere
complicato
e forte, che non si arrendeva a nulla e cercava di ottenere quel che
desiderava
con unghie e denti, senza mai mollare… ma passando tutti gli anni della
sua
giovane vita a lottare in quel modo, arrivata ad un certo punto uno si
stancava
e cedeva, a lei era capitato incontrando Alexander. Lui era stato la
sua
salvezza. Decisamente.
Non
l’avrebbe mai ringraziato abbastanza ed era convinta di non
aver fatto nulla per lui, non si rendeva conto che gli aveva restituito
i
propri sentimenti perduti volontariamente. Le aveva restituito un’anima.
Infastidita
dal dover rituffarsi nel suo per lei seccante passato,
decise di sbrigarsi e darci un taglio a tutte quelle attese
insopportabili. Non
le interessava sapere in anticipo da terzi le giustificazioni, voleva
sapere
dall’interessato ogni cosa, considerando che era praticamente guarito
da
qualunque genere di malattia mentale che aveva avuto, poteva
considerarsi
tranquilla.
Ne
era sicura.
Eppure
qualcosa le stonava, non le tornava, una strana ansia alla
bocca dello stomaco che quasi le toglieva il respiro, la faceva
impallidire a
vista d’occhio. Non era tranquilla ma si disse che era normale, per cui
anche
in quell’occasione non perse tempo, non era tipo da perderne.
Ecco
perché sentenziò svelta:
-
Voglio andarci da sola… -
Quando
le indicarono la porta e lei si avviò, l’infermiera chiese
chi fosse la ragazza, Alexander così rispose capendo il peso di quella
risposta:
- La
figlia. -
La
donna impallidì in modo preoccupante ma non osò dire nulla.
Nessuno
osò, nemmeno lui.
“Entro richiudendomi la
porta alle mie spalle, do un’occhiata veloce e generica alla stanza
anonima
senza vederla realmente, cerco agitata un’unica persona. Un uomo. Mio
padre che
non ho idea di chi, cosa o come sia. Non so nulla e sono molto curiosa,
la
curiosità di un gatto randagio che rovista ovunque un po’ per
sopravvivere ed
un po’ per vedere cosa si può trovare in giro.
Finalmente vedo la sagoma maschile di una persona voltata di
spalle che si allena, è appeso ad una sbarra ad U che scende dal
soffitto, vi
si tiene con le mani e si alza e si abbassa facendo forza sulle spalle
e sulle
braccia, da qua si notano anche tutti i muscoli ben modellati della
schiena
fasciata in una canottiera madida di sudore.
Quanti anni avrà? Chi può dirlo… sembra abbastanza giovane.
Non mi ha sentito così la tensione sale, non so come
comportarmi,
sarò solo me stessa. Vediamo… penso di doverlo chiamare, come lo devo
chiamare?
Devo dargli del ‘tu’? Dannazione, io che mi faccio tutti questi
scrupoli?
Quando mai? È mio padre, certo che gli do del ‘tu’! Ma non lo sento
tale quindi
non lo chiamerò ‘papà’!
Tossisco, poi mi decido e sommessamente dico:
- Scusa… -
Che inizio di merda! Potevo pensarci meglio, ma del resto è
stato
tutto così improvviso… cazzo, forse è meglio chiamare dentro Alex, per
quel che
ne so potrebbe anche essere… sulle mie considerazioni lui gira a metà
la testa
e mi cerca, quando mi vede si scusa per non avermi sentito così salta
giù e
torna sul pavimento. Ecco, ora lo vedrò bene, chissà che faccia ha mio
padre,
se gli somiglio oppure no… da chi avrò preso questi occhi così azzurri
che
colpiscono tutti?
Finalmente si gira e lo vedo, prima di dire qualunque cosa
ci
guardiamo a fondo nello stesso modo: ora si capisce l’età che ha: è
sulla
quarantina ma è ben tenuto, un bell’uomo dal fisico prestante, viso
affascinante,
capelli biondo scuro e occhi azzurri. Eccoli lì i miei occhi! Lo
sapevo, li
avevo presi da lui. Mentre l’osservo l’ansia comincia a sparirmi anche
se
rimane sempre in agguato, è un bel tipo e sembra gentile, di cosa
dovrei
preoccuparmi? Qualunque cosa sia successa si risolverà, ne sono sicura!
O forse solo lo spero.
- Chi sei? -
Ha un tono adulto ma gentile. Ok, ci sono, che cavolo gli
dico a
questo punto? Devo rispondergli ed anche se gli dico il mio nome non
credo mi
conoscerà… o forse sì… uffa, al diavolo!
- Sono tua figlia! -
Tiè, eccotela qua, senza troppi giri di parole!
Silenzio, trattengo il respiro e mi torco le mani mentre lo
guardo
cercando di capire come reagirà, vedo la sorpresa nel suo sguardo così
uguale
al mio, si passa una mano fra i capelli togliendosi il sudore
dell’allenamento
con il lembo della canottiera, nel farlo noto una grande cicatrice sul
fianco,
fa quasi impressione. Poi gli chiedo anche questo, devo sapere tutto di
lui.
Intanto ti prego, rispondimi. Fa qualche altra mossa, prende tempo
credo, forse
cerca di ripescare nei suoi ricordi il suo passato dimenticato, forse
sono
morta e sepolta per lui, forse non mi vuole fra i piedi. Non è stato
intelligente venire qua ma del resto mi deve una spiegazione.
Voglio sapere chi sono, quando sono nata e soprattutto
perché mi
hanno messo al mondo per poi abbandonarmi in questo modo!
- Alexis? -
Oddio, allora questo è il mio vero nome, si ricorda di me,
non mi
aveva dimenticato… sono direi felice, mi sembra così bello, è una cosa
piacevole, no? Ho bisogno di Alex ma devo fare a meno di lui, devo
riuscirci.
Non ho voglia di essere abbracciata da lui, in fondo non lo conosco
però vorrei
mi dicesse qualcos’altro. Annuisco. Forse devo spiegargli che ci faccio
qua, in
fondo non tutti i giorni gli capiteranno figli a trovarlo. Credo. In
realtà non
so neanche questo.
- Ecco, mi dispiace dell’improvvisata ma sono venuta appena
ti ho
trovato… cioè appena ho deciso di volerti trovare. Prima non avevo
sentito il
bisogno di incontrare la mia vera famiglia ma poi dopo una serie di
eventi
surreali ho sentito il bisogno di ritrovarti. Io… ecco… non so nulla di
me
nella mia infanzia, non ho ricordi del periodo in cui stavamo insieme
per cui
sono venuta a chiederti chi sono, la mia storia, perché sono sola senza
una
vera famiglia… -
Rimango in piedi davanti alla porta a cambiare posizione
ogni
momento col fiato corto e di nuovo quell’ansia fastidiosa. E se fosse
meglio
non sapere?
Quanti dubbi, non li sopporto! Parla e toglimi questo peso.
- Non voglio fermarmi con te… cioè non ti chiedo di rifare
la tua
vita daccapo, in realtà oltre a tue parole non chiedo altro, mi rendo
conto che
cambierei troppe cose nella tua vita e non credo tu voglia, altrimenti
mi
avresti cercato! -
- Non farti problemi, non pensavo che questo giorno sarebbe
arrivato. Credevo tu mi odiassi e non volessi più vedermi, credevo che
pregassi
di essere riuscita ad uccidermi veramente. Non mi sarei mai aspettato
di
rivederti e di avere la possibilità di spiegarmi… -
Ha un tono di voce strano e anche se sembra contento, quel
che
dice mi stranisce, cosa significa?
- Cosa dici? -
Lui mi guarda sospendendo anche il suo fiato, poi capisce
che non
ricordo niente e così sospira mettendosi una mano sui fianchi e l’altra
dietro
il collo, guarda in basso e cerca le parole per spiegare.
- Ci sono molte cose che devo dirti allora… vorresti
sederti? -
Comincio a sentirmi peggio ed un mal di testa mi porta via
la
tranquillità acquistata a fatica.
- No, va bene qua, voglio solo sapere… cosa devi dirmi? -
Io non so, è strano, troppo. Come ho detto questa frase un
brivido
mi ha percorso e l’inquietudine è salita.
Ho paura.”
-
Non chiederti quanto vera sia la mia malattia mentale,
personalmente penso di essere stato rinchiuso qua dentro per comodità
di chi si
occupava di me. Tu sei Alexis Thorogood, figlia mia e di Michelle
Carlisle. Sei
sempre stata una bella bambina dal carattere impossibile, iperattiva,
viziata,
fastidiosa, urlante, dinamica ed impossibile da tenere. Hai portato tua
madre ad
un esaurimento e intenzionata a non badare più a te è andata via di
casa
abbandonandoci. Siamo rimasti soli finché anche io non ho ceduto.
Ripeto, non
so se possa trattarsi di una malattia quella che mi prese, non so
nemmeno che
nome darle… ma successe che… -
Si
interruppe vedendo il volto della ragazza che si stava
sconvolgendo sempre più, le si avvicinò fino ad arrivarle davanti, lei
improvvisamente sentì una repulsione totale per lui e indietreggiò
arrivando
alla porta; cristallina come l’acqua mostrò il suo stato d’animo, non
ricordava
ma sapeva che era sul momento di riuscirci e ne aveva paura, non voleva
più
sapere, vedere, ascoltare… eppure avrebbe saputo, visto ed ascoltato.
Mostrò il
rifiuto per quell’uomo che si nascondeva dietro ad una malattia per ciò
che
aveva fatto.
Ora
era lei la colpevole di tutto?
Cos’era
quel tutto?
Colpevole
di COSA?
-
Alex, ti prego, guardami… so che è difficile ma voglio spiegarti
bene tutto… non rifiutarmi di nuovo… -
Solo
in quel momento se ne rese conto, l’aveva veramente capito.
Lo guardò negli occhi per accertarsene e col senno di poi avrebbe
dovuto non
farlo, ma lo fece e vide la luce della ragione che abbandonava
quell’uomo, vide
la pazzia che subdola e strisciante come un maledetto serpente
avvolgeva la
mente ed il cervello di quell’uomo innanzi a lei.
Fu
un lampo veloce, ma un lampo seguito dal tuono e dal rombo
assordante che scaricò tutta l’energia potente su di lei.
Ricordò
ogni singola cosa di quel passato dimenticato dalla sua
testa per proteggerla.
Rivide
in flash veloci i momenti in cui quell’uomo al tempo grasso
le dava più carezze del dovuto, come quando lei combinava qualche
disastro di
troppo e veniva punita severamente fino a farla piangere dal dolore per
poi
venire consolata sempre da lui che sembrava pentirsene. COME la
consolava.
Rivide
tutto e le parve di risentire sulla pelle le sensazioni di
allora, ogni tocco, ogni carezza, più lui faceva cose sempre più
audaci, più il
suo carattere peggiorava facendole fare cose più cattive.
Ma
può una bambina essere cattiva?
Rivide
l’ultimo momento in cui lui era arrivato al limite, ricordò
che la luce nei suoi occhi era la stessa di ora, ricordò anche l’odore
di
alcool nel sua alito, ricordò che per l’ennesima bevuta del padre lei
gli aveva
buttato via tutte le scorte, ricordava che per questo lui l’aveva prima
picchiata e poi aveva provato ad abusare di lei.
Ci
aveva provato fin quasi riuscirci, le riaveva addosso le sue
mani, le risentiva concretamente e nella realtà la voce dell’uomo
riprese a
parlare toccandola, prendendola per le braccia e premendola contro la
porta,
-
Devi ascoltarmi… tu eri posseduta da qualche demone ma eri bella
quanto ora, non mi permettevi più di vivere, mi mettevi un muro sulla
mia
felicità, non potevo più fare nulla se non dedicarmi a te e credendo di
far
bene a darti ogni mia attenzione, OGNI mia attenzione, ho fatto quello
che ho
fatto. Ma non capivo mai cosa volevi, perché combinavi tutte quelle
brutte
cose, perché mi castigavi in quel modo… -
Sospesa
fra passato e presente, un passato terribile che si
presentava di nuovo nel suo presente, Alexis cadde nel panico, riviveva
quel
momento terribile senza uscirne più, col corpo che riprovava la stessa
sensazione di repulsione perché lui le era di nuovo addosso, di nuovo
su di
lei, di nuovo intenzionato ad averla.
Cosa
voleva?
Il
suo perdono?
Le
sue scuse?
Tornare
come un tempo?
Qualche
spiegazione di un comportamento a circolo vizioso?
Cosa
voleva da lei?
Se
lo vedeva nella sua mente e lo risentiva nella realtà che le si
premeva contro cercando il suo viso che nascondeva, cercando un
contatto
maggiore, ottenendo un effetto deleterio sulla ragazza che sull’orlo di
un
baratro, sull’orlo di ricascare in quel buio che le aveva cancellato la
memoria
e la parola per un lungo tempo, cercava di aggrapparsi a qualcosa per
poter
tornare, di rimanere l’Alexis del presente forgiata da Alexander, un
motivo per
tornare senza sentire le proprie urla di bambina, urla che poi
diventavano
tante, numerose e forti, disperato, accusatorie, di chi non si
arrendeva.
Non
si arrendeva.
Ricordò
che anche quella volta aveva reagito, fu per questo che
decise di fare altrettanto.
Aprì
la porta dietro di sé piegandosi in due per sfuggire alla sua
presa, al suo corpo, al suo abbraccio, al suo volto.
(gli aveva morso la lingua)
Non
ebbe tempo e testa per urlare, solo per correre. Corse fuori
con ancora lui addosso che la teneva.
(aveva preso un coltello come aveva visto fare in un film)
Non
le si staccava, lottarono ma fu velocissimo, nessuno riuscì ad
intervenire, solo a guardare impotenti quei due fulmini che andavano
veloci
fino al parapetto del piano.
(l’aveva affondato con tutte le sue forze nella pancia
sporcandosi
di sangue)
Un
urto improvviso, un ostacolo sulla sua fuga, lei piegata in avanti
per sgusciare via dal folle che aveva addosso.
(sangue ovunque e lui lentamente si era accasciato a terra)
Lei
si era fermata grazie al parapetto ma lui no, lui non riuscì a
fermarsi per il colpo improvviso e si sbilanciò finendo sopra di lei ed
infine
oltre.
(era sembrato morto)
E
cadde giù percorrendo in volo tutti i piani di quell’edificio
strano fino a schiantarsi al suolo duro e senza perdono.
(lei era però caduta in un vuoto mentale, oblio buio, parole
bloccate)
Venne
poi un brusio indistinto dalla gente lì intorno che aveva
assistito alla scena inspiegabile, senza forza e TEMPO di reagire.
Venne
un brusio indistinto ed in seguito l’immagine che concludeva
la sua infanzia dimenticata, un uomo che doveva essere morto in un lago
di
sangue, lei senza apparente ragione, in uno stato catatonico.
Un
inferno scordato per poter riprendere la propria vita.
Un
inferno che aveva dovuto affrontare comunque, che aveva
affrontato in quel modo shockante, che l’avrebbe fatta impazzire se non
avesse
esternato tutto, se in quel momento non l’avesse fatto.
Ora
DOVEVA reagire.
Buttare
fuori tutto.
Ora
sapeva e doveva espellere i mostri della sua vita.
Lo
schifo, la sensazione terribile, le lacrime mai versate per sé
stessa, la morte dell’anima.
E lo
fece.
L’urlo
che uscì dalla sua gola, dai suoi polmoni, dalla bocca su
un viso minuto dove le mani correvano a coprirsi gli orecchi per non
sentire la
voce di bambina che non aveva mai fatto più uscire, quell’urlo fu
quanto di più
potente, straziante, disperato e graffiante si fosse mai sentito.