CAPITOLO XI:
PUNTO DI INCONTRO
La prima cosa che Genzo sentì fu la mano di Tsubasa che gli toccava la spalla, poi la sua voce gentile gli giunse.
Dovette chiamarlo un paio di volte, prima di farsi sentire davvero, quindi la prima cosa che captò fu:
-
Stai bene? Ti ha fatto male? Vieni, siediti un po’ sulla panchina. -
Tsubasa… l’ingenuo Tsubasa… Genzo si trovò a pensare a questo mentre lo
guardava distrattamente. Sorrideva preoccupato ed incoraggiante, non
aveva la minima idea di che cosa gli fosse successo, era solo chiaro
che avesse qualcosa e non è che facesse il vago per non essere
invadente, era vero che non immaginava nemmeno lontanamente che cosa
avesse.
Questo
fece come riscuotere Genzo che tornando sulla Terra riprese tutte le
forze in una volta e con modi decisi e quasi prepotenti, si alzò in
piedi di scatto e sfuggendo ad un perplesso Tsubasa fermo sul ring che
non sapeva proprio cosa stesse succedendo, saltò giù per precipitarsi
negli spogliatoi.
Ci aveva pensato abbastanza alle sue criptiche parole, visto che non ne capiva il senso ora gliele avrebbe spiegate lui stesso.
Chi si credeva di essere, quello?
Mica
poteva andare e venire come gli pareva, prenderlo a pugni, dirgli di
tutto, accusarlo di chissà cosa e poi piantarlo in asso come uno
stupido!
Stizzito
e seccato non notò nemmeno Roberto uscire dagli spogliatoi e guardarlo
stupito. Certamente da dietro quelle lenti scure nessuno avrebbe
comunque potuto notare il suo stupore.
“Ed ora cosa combina?”
Si chiese esitando se rimanere pronto ad intervenire per evitare che si ammazzassero oppure se lasciarli fare.
Alla
fine erano ragazzi, si disse… al massimo si sarebbero presi seriamente
a pugni e poi avrebbero fatto pace… a quell’età funzionava tutto così,
specie fra i ragazzi.
Fra
le ragazze era diverso, ovvero gridavano istericamente, litigavano e
piangevano, ma fra ragazzi no… fu lieto di avere a che fare con quella
categoria di persone che vedevano tutto in modo più semplice, poi si
disse anche che dopotutto li capiva, non erano passati molti anni da
quando lui stesso aveva quell’età. Gli sembrava una vita, ma non erano
davvero molti.
Quando
Genzo entrò nello spogliatoio appena abbandonato dall’allenatore, parve
un toro inferocito e Karl lo guardò sgranando i suoi occhi azzurri e
trasparenti, per un momento faticò a contenere un’espressione shockata,
poi parve riuscirci anche se non con molto successo.
Era sempre sull’orlo dello scoppio, di qualunque si trattasse questa volta…
Genzo
lo colse al volo e si chiese se non fosse il caso di stuzzicarlo a modo
suo per esasperarlo e spingerlo ad essere di nuovo sé stesso come
prima, almeno avrebbe potuto sentire quello che aveva davvero da dire;
poi però si ricordò delle sue accuse ed il sangue gli andò alla testa,
come se la cosa fosse poi tanto difficile…
-
Si può sapere una volta per tutte cosa ti prende o è un segreto di
stato? No, perché se vuoi qualcosa da me sappi che quello non era il
modo di ottenerlo! Se hai qualcosa da dirmi dimmela come si deve, senza
giri sibillini di parole del cazzo, non le sopporto! Di cosa mi dai la
colpa, sentiamo! Di essere innamorato di te? È questo il mio grave
reato? Come, di preciso, sarebbe colpa mia se non sono ricambiato? Come
ho fatto a perdere cosa? Parla e questa volta fallo davvero e non in
quel modo idiota! E tirati via questa dannata maschera di ragazzo che
non prova niente per nessuno, che non ti crederò mai! Tu sei come tutti
gli altri, non crederti tanto speciale e diverso! -
Karl avrebbe voluto per prima cosa trovare un interruttore per spegnerlo, poi gridare.
Gridare e basta e questa volta senza accusare niente e nessuno, solo gridare.
Perché
la gente lo doveva lasciare in pace di dire, fare e pensare quello che
voleva ma soprattutto di vivere la sua vita come voleva.
Perché doveva sempre giustificare le proprie azioni e le proprie poche rare parole?
Però
guardando Genzo da così vicino e con ancora lo shock per le parole di
Roberto, capì che forse, dopo quello che era successo, qualcosa gli
doveva e non più pugni ed accuse.
A quel punto non gli restò che crederci.
Crederci che davvero quel ragazzo facesse cose di cui non ne era nemmeno cosciente.
“Dannazione,
abbiamo solo diciassette anni… anche se la vita dura ci ha fatti
crescere prima, siamo solo dei dannatissimi diciassettenni alle prese
con ormoni e sentimenti! Cosa dovremmo dire? Cosa dovremmo fare? Perché
non possiamo semplicemente lasciarci andare e vivere noi stessi come
siamo fino in fondo, come tutti i diciassettenni fanno? La gente della
nostra età vive tutto al mille percento, non è capace di trattenere
nulla, spara fuori qualunque cosa provi o senti perché è così che si
fa, è così che fanno tutti…
No,
dannazione… noi non siamo per niente come gli altri… qua Genzo ha
torto… ma cosa c’è di sbagliato in noi? Le nostre disgrazie vissute
troppo presto? E non sono cose che capitano anche ad altri? Significa
che siamo tutti una manica di spostati che vive in modo sbagliato? Ma
porca puttana, c’è un modo giusto per vivere?”
Quesiti
su quesiti in un lasso di tempo brevissimo, nessun secondo decente per
pensarci ed assimilare decentemente, solo due occhi neri come la pece
ed inquisitori che pretendevano una risposta che effettivamente
meritava.
Era vero che Genzo la faceva semplice… ma forse aveva ragione ed era lui a complicare tutto.
Si piacevano, che altro contava?
Per
Genzo era più che sufficiente per stare insieme. Non contava che i loro
caratteri fossero contorti, strani, difficili e pieni di difetti… per
lui a quanto pareva erano tutte cose su cui poteva passarci sopra… e se
lui poteva perché non anche Karl?
Non gli era mica inferiore…
A
quell’ultima considerazione fatta alla velocità della luce mentre Genzo
continuava a chiedere risposte su risposte come una macchinetta della
Slot Machine che scaraventava fuori monete a tutto andare, Karl giunse
al suo capolinea e non facendocela più lo prese per le braccia, erano
ancora tese e sentiva la durezza merito dello sport che faceva.
Lo guardò con decisione e finalmente con un ‘taci’ secco, lo zittì.
Il silenzio calò fra loro ma non era più gelido, solo stupito.
Non poteva crederci che gli avesse gridato di stare zitto, non l’aveva mai fatto.
Soprattutto non l’aveva mai guardato così espressivo.
Se non altro per quelle novità sconvolgenti, Genzo rimase proverbialmente in silenzio.
Non
era certo un chiacchierone, ma quando si arrabbiava diventava, appunto,
una Slot Machine che sputava soldi a tutto andare per un improvviso
Jackpot.
I
due si guardarono per un attimo, parvero considerare entrambi lo shock
con cui si stavano fissando, poi Karl si decise a rompere il silenzio,
senza avere la minima idea di che cosa avrebbe detto.
Per la prima volta non lo sapeva e si sentì quasi il Genzo della situazione.
Poi si corresse… Genzo credeva di essere istintivo e spontaneo, in realtà era più ponderato di quel che lui stesso non sapesse.
-
Ma è possibile che tu davvero non ti conosca per niente? - Questa la
domanda che al momento gli sorse e che non riuscì proprio a trattenere.
Poi se ne rese conto.
Ora
si era appena trasformato nella macchina della verità… avrebbe potuto
dire qualunque cosa, sarebbero state tutte cose che pensava… solo
allora capì del pericolo per sé stesso di trattenersi tanto e poi di
scoppiare.
Ecco perché cercava di non lasciarsi mai andare.
Genzo corrugò la fronte credendo di aver capito male.
- Eh? - Fece infatti.
“A questo punto tanto vale andare fino in fondo… poi non potrà più tacciarmi di poca chiarezza!”
Così
pensando tolse definitivamente la sicura e pur mantenendosi sempre con
una certa rigidità di fondo e senza concitarsi come un matto, lo mollò
ma cominciò a parlare:
- Genzo, ma tu ti rendi conto di come sei? -
Genzo si strinse nelle spalle disorientato, aveva bevuto?
- Un gran figo? - Disse sdrammatizzando, notando la pesantezza del momento.
-
Parlo di questo! Perché scherzi se sei imbarazzato o se non capisci di
cosa si parla? Dì semplicemente che non sai cosa dico! Tu scherzi ed io
penso che sai perfettamente cosa intendo e che non vuoi ammetterlo
perché sei un pallone gonfiato, codardo ed idiota. Invece non è così.
Tu davvero non sai di cosa parlo? -
Per
un momento Genzo si perse nel sentirlo parlare così tanto e per poco si
perse anche le sue parole, poi riuscì a coglierne il senso e si
concentrò su di esse.
Stava forse scherzando?
“No, dannazione, non scherza mai lui!”
Sgranò così gli occhi neri e per poco non apparve sperduto nell’ascoltarlo.
Karl sospirò spazientito capendo che proseguendo avrebbe anche potuto demolirlo…
“Sì, e poi come lo ricostruisco?”
Fu allora che si accorse di non voler fargli davvero male.
In
seria profonda difficoltà, il ragazzo dai capelli biondi cominciò a
camminare su e giù per lo spogliatoio e a respirare a fondo, doveva
pensare, aveva bisogno di tempo per pensare come si doveva e
lucidamente, per riflettere e trovare la giusta soluzione, la giusta
cosa da fare.
Non voleva ferire Genzo perché principalmente provava qualcosa per lui e non era una novità.
Il punto era uno, ormai.
Prima
non voleva averci niente a che fare perché pensava che i suoi difetti
fossero veri e coscienti, ma se non aveva idea di come fosse, che colpa
ne poteva avere?
Magari prima di decidere se tagliarlo fuori o meno doveva fargli sapere due o tre cose su sé stesso.
“Non sono uno psicologo… questo ha bisogno di uno davvero bravo!”
Come se invece lui fosse a posto…
- Ascolta… - Fece infine fermandosi davanti all’altro con le mani alte fra loro. - Tu hai una marea di problemi… -
-
Senti chi parla! - Disse stizzito Genzo non riconoscendo l’estraneo che
aveva davanti. Poi si ricordò di aver pensato una volta che
probabilmente quando dava di matto cambiava radicalmente, allora
cominciò a divertirsi realizzando che se Karl esasperato era così,
allora era davvero comico!
-
Sì, appunto… devi farti un’analisi profonda di te stesso prima di
approcciarti agli altri e pretendere che siano loro stessi… -
Genzo
corrugò di nuovo la fronte e Karl sbuffò capendo che era ancora in alto
mare, così alzando gli occhi al cielo la semplificò ulteriormente:
-
Genzo, io avrò maschere, non sarò me stesso e non potrò mai vivere i
miei sentimenti in modo normale e da diciassettenne, ma anche tu una
maschera ce l’hai! -
-
Cosa? Io?! Ma dai i numeri? Io sono io, vero al cento percento, ciò che
vedi sono… uno stronzo opportunista presuntuoso e puttana… ma fiero di
esserlo! - Fece infervorato cominciando a scaldarsi.
-
Appunto, parlo di questo! - Lo bloccò subito Karl puntandolo con gli
indici. - Questa maschera. Queste magari sono parti autentiche di te ma
che nascondono qualcosa che tieni segregato in te come fosse chissà
cosa. Ma non te ne rendi conto. Sicuramente non hai la minima idea di
avere dell’altro, sotto questi aspetti che vai elencando fiero come un
coglione! -
Karl
cominciava a sentirsi male nel parlare e nell’esprimersi così senza
freni e decenze, non gli piaceva comunicare in quel modo ma se Genzo
capiva solo quel linguaggio…
-
Cosa vuoi dire, che da qualche parte sotto la mia stronzaggine ho un
cuore e che dovrei tirarlo fuori? - Lo disse scherzando ironico
convinto che quello avrebbe alleggerito il momento, sicuro anche che
non fosse di certo quello che stava cercando di dire, ma Karl lo
sconvolse e lo lasciò nuovamente senza parole.
-
Esatto! Più semplice di così non so mettertela! - Si accorse della sua
aria da ‘mi prendi in giro’ e sospirò facendo cadere le braccia lungo i
fianchi. Aveva voglia di mandarlo a quel paese. - Ascolta, tu hai
bisogno di pensarci e riflettere su te stesso e sulle tue parti
nascoste, mentre io di riprendermi da questo shock… non sono abituato
ad esplodere due volte in una giornata e a pormi in questo modo… non mi
piace, non mi sento a mio agio. - Era vero ma era così perché non
parlava mai con nessuno e nel momento in cui lo faceva perché
finalmente aveva qualcosa da dire, qualcosa che valesse la pena dire,
per lui era più che strano, era sconvolgente.
Genzo
lo guardava come avesse un alieno davanti e senza parole non sapeva se
mandarlo a quel paese o prendere in considerazione le sue parole.
Lì per lì rimase immobile senza la minima reazione e Karl si inserì nuovamente e questa volta per finirla:
-
Facciamo che sospendiamo tutto, ti va? Il nostro rapporto, il nostro
litigio, il nostro… qualunque cosa sia… Prendiamoci del tempo per
pensare e basta. Io ne ho bisogno. -
-
Tu pensi troppo… - Disse laconico Genzo dicendo l’ultimo pensiero al
volo mentre lo vedeva caricarsi in spalla il borsone per andarsene.
-
E tu troppo poco! - Rispose pronto sulla porta, si fermò rendendosi
conto di ciò che avevano appena detto e che l’aveva fatto come fosse
normale per loro esprimersi con quei dialoghi comici e distensivi dalla
mattina alla sera.
Bè, all’incirca prima del loro litigio era stato così… solo che ora qualcosa di diverso ci fu ed entrambi lo percepirono.
Consapevolezza, forse… di cosa ancora non era chiaro, ma di quella si trattava.
Sì, consapevolezza…
Karl
così accennò ad un vago e piccolo sorriso capendo in quell’istante ciò
che Genzo per mesi gli aveva detto e ridetto mille volte… ovvero di
lasciarsi andare e di essere meno rigido perché in realtà lui aveva
anche il senso dell’umorismo da qualche parte.
“Forse ha ragione anche lui dopotutto…”
Pensò sgusciando via da lì e lasciandolo solo.
Genzo,
rimasto nello spogliatoio con la porta che dondolava cigolando appena,
si inebetì a ripercorrere tutto quel pomeriggio assurdo.
“Pensare… sarà anche vero che non lo faccio mai, ma non è meglio agire e basta?”
Poi piegò la testa di lato e si toccò le braccia dove Karl stesso l’aveva stretto all’inizio per zittirlo. “Ma
magari posso provare a dargli retta. Almeno considerare la sua teoria…
forse qualcos’altro da mostrare c’è anche, dentro di me. Il punto è…
vale la pena mostrarla?”
Non seppe rispondersi.
Fu
una voce lontana e malinconica sulle note che creava dal pianoforte…
l’ascoltò ad occhi chiusi mantenendosi nel triste mondo del ‘Chiaro di
Luna’ di Beethoven, ma non si perse una sola parola di quella che per
lui fu una delle rivelazioni più sconvolgenti.
-
C’era quest’uomo, quando ero piccolo, che mi rinfacciava ogni secondo
di dovergli essere grato poiché mi aveva preso in casa anche se non ero
loro figlio. Quest’uomo beveva sempre e poi arrivava a casa ubriaco e
furioso e picchiava chi gli capitava a tiro. Spesso mi ha usato come
palla da calcio. Sua moglie gli gridava dietro ma non cercava di
proteggermi. Non faceva niente per me. Erano scenate terribili.
Gridavano come matti, si tiravano oggetti, si colpivano e si ferivano
ma nessuno dei due si fermava, si scusava o curava l’altro. Si
gridavano l’odio reciproco ed io sentivo. Sono cresciuto convinto che
l’odio fosse tutto ciò che si potesse provare. Anche per me lo
provavano, ero un peso per loro. Non so perché mi hanno preso in
affido. Io non ero buono, ero cattivo e li facevo arrabbiare perché non
ero capace di fare bene quello che mi ordinavano. Quando pulivo la casa
rompevo sempre qualcosa senza volerlo, oppure pulivo male. Loro mi
punivano e dopo avermi picchiato, mi rinchiudevano in cantina coi
ratti, al buio, nella puzza, senza mangiare per un giorno intero. Sono
andato avanti così fino a che, non ho proprio idea di come,
un’assistente sociale è entrato e vedendo cosa succedeva mi ha portato
via. Poco dopo sono arrivato qua. Sono arrivato a quattordici anni
sapendo solo odiare, disprezzare, picchiare e attaccare per difendermi.
Non so cosa siano i buoni sentimenti e l’amore. Sto sperimentando in
questo posto cosa sia la libertà di fare quello che voglio, per la
prima volta. Però la notte sogno ancora quei giorni d’orrore, le loro
facce, quella cantina coi ratti. Chissà se prima o poi imparerò davvero
ad amare e a non sognare più quelle cose? Mi libererò mai del mio
passato? Se ogni volta che ascolto canzoni così malinconiche ricordo
sempre tutto, io penso di no. -
Quando
aprì gli occhi la canzone si concluse e Kojiro smise di parlare, quindi
abbassò lo sguardo oltre i tasti neri e bianchi e lo vide seduto ai
piedi dello strumento, proprio accanto a sé.
Fu
così che con gli occhi lucidi ed uno slancio che non aveva mai lasciato
andare se non in rare occasioni, gli si sedette davanti con il forte
bisogno di rispondergli.
Perché
anche se lui stesso non era un grande esperto d’amore, a quanto pareva,
sapeva che qualcuno riusciva a trovarlo… ma se non altro esistevano i
riscatti. Esisteva il giorno dopo la notte e sebbene in molti non
avessero ancora vissuto il loro giorno, non poteva non credere che
sarebbe prima o poi arrivato.
Perché
sapere ciò che un ragazzo aveva passato nella sua infanzia e sentirlo
così disilluso e convinto di non potersi mai risollevare davvero, gli
faceva venire voglia -una voglia matta ed incontrastata- di credere nei
riscatti che la vita offriva.
Non
sapeva quando ed in che modo, ma voleva credere che il suo giorno
sarebbe arrivato perché ciò che provò nell’ascoltare il suo racconto
personale, Jun era certo di non averlo mai provato.
Non in quel modo preciso e diverso, non così sentitamente.
Aveva
sempre provato del dispiacere per Genzo ed il suo modo di vivere i
propri drammi personali, per quel suo tenerseli dentro e poi reagire
male. Così come aveva sempre provato fastidio per il fatto che qualcuno
non sapesse accettarli e li rifiutasse. Però lì in quell’istante per
Kojiro Hyuga provò solo puro e semplice desiderio di sollevarlo.
Sollevarlo e basta.
Una cosa che, appunto, non aveva mai provato per nessuno, non in quel modo.
Così
liberò la propria mente e si tolse ogni sicura inginocchiandosi e
avvicinandosi mettendo le mani sulle sue ginocchia piegate contro il
petto, poi mormorò serio e convinto:
-
Forse non lo dimenticherai mai, ma lo supererai. Arriverà il giorno in
cui ricorderai tutto e non ti farà più male. Ora non sei più là, ora
sei libero e nessuno ti farà più del male. Troverai l‘amore. - Anche se
lui fino a ieri non ci avrebbe creduto nemmeno sotto tortura. Non aveva
mai creduto che l’amore fosse più del rispetto e della sopportazione
reciproca, più della pace che uno riusciva ad avere con una persona.
Dopo
ieri e proprio grazie al bacio istintivo avuto con Kojiro stesso non
poteva che capirlo. Che qualunque cosa d’altro fosse l’amore, non era
tutto ciò in cui lui aveva sempre creduto. Che era molto di più.
Fu
come se Kojiro si svegliasse da un lungo incubo e fuggendo totalmente
da ciò che aveva appena brutalmente ricordato, si aggrappò alle sue
parole e alle sue braccia e premendo con forte convinzione sulle sue
parole, disse senza il minimo dubbio:
- Amami tu! Mettiti con me! Voglio stare con te, è te che voglio. -
Jun
sgranò gli occhi impreparato riguardo quella dichiarazione e quella
richiesta così aperta e diretta, un po’ troppo per i suoi gusti.
Nessuno si rivolgeva mai così a lui perché nessuno ne aveva il coraggio
visto com’era bravo a mantenere le distanze con tutti.
-
Ho bisogno di ancora un po’ di tempo per capire cosa provo. - E non
avendo affatto tempo per pensare, dovette semplicemente dire né più né
meno ciò che era e provava.
Era
ancora confuso, sapeva che per Kojiro provava qualcosa e che andava
oltre ciò che aveva mai provato per chiunque altro che non fosse un suo
parente, però era anche cosciente che poteva benissimo trattarsi di una
mera sensazione d’attrazione fisica e nulla di più. Oltretutto
accettare l’idea di essere gay non era una passeggiata. Capire di
provare desiderio per uno del proprio stesso sesso era una cosa,
lasciarsi andare e viverlo era tutt’altra, per lo meno per lui che era
l’esatto opposto dell’istintività.
Kojiro sbottò infuocandosi:
- Ma se hai lasciato la tua ragazza per me! -
Era
vero, ma non era così semplice, non era tutto lì. Per Jun non lo era
mai e Kojiro avrebbe imparato a capirlo… anche se con molta fatica.
Strinse
le labbra e sospirò paziente, quindi con lo stesso tono indulgente e
trattenuto disse comunque qualcosa che pensava veramente e gli parve
strano farlo:
-
Non mi sei indifferente, Kojiro. E non provo la stessa cosa per Yayoi.
Ma devo pensare ancora, non so buttarmi come fai tu e non sono ancora
sicuro di niente. Devi darmi un po’ di tempo. Ti prego. - Eppure alla
fine suonò tanto come una supplica… almeno per Kojiro che ne rimase
spiazzato.
Era
stato certo che si sarebbe rimangiato tutto e che l’avrebbe trattato in
modo snob, ma così, seppure con diplomazia ed un certo contegno tipico
suo, con tutta quella sincerità, non poté che spomparsi e dargli retta.
Avrebbe tanto voluto mandarlo a quel paese e fare come voleva, ovvero
baciarlo e andare ben oltre a quel piccolo contatto, ma nemmeno con
tutto il proprio impegno parve riuscirci e Jun gliene fu grato.
-
Va bene. Però sbrigati! - Una delle frasi che gli erano costate di più,
Jun lo capì e gliene fu grato. Si sentì per la prima volta contento di
essere stato ascoltato e accontentato nonostante la gente lo facesse di
continuo. Forse perché quella volta aveva mostrato una piccola parte di
sé ed era stato accettato lo stesso.
Jun
l’aveva vista come un capriccio da parte propria e si sentì oltretutto
meschino ad esserlo, però neanche con ogni sforzo possibile ed
immaginabile avrebbe potuto porsi diversamente, non quella volta.
Si
scusò mentalmente con sua madre poiché era convinto di star venendo
meno alla loro promessa. Questa volta di problemi a qualcuno ne stava
creando, ma non poteva evitarlo.
Fu
per quella gioia di non essere stato obbligato e rifiutato dall’unica
persona che al momento sentiva profondamente di volere, che volle
ringraziarlo e lo fece di slancio baciandogli spontaneo la fronte con
un sorriso intenerito che raramente aveva mostrato ad altri che non
fossero suo fratello.
-
Grazie. - Infine, più sollevato che mai ed ubriaco di quella nuova
stranissima sensazione, uscì dall’aula di musica lasciando Kojiro solo
ad imprecare per aver dimostrato tanta pazienza.
Del
resto nella vita esistevano delle priorità, priorità che cambiavano di
volta in volta a seconda dei momenti e delle situazioni che si vivevano.
Però ce n’erano sempre e non si potevano ignorare.
Rientrato in camera si trovò poco dopo uno di quegli uragani a cui ormai Jun era abituato.
Naturalmente suo fratello e naturalmente entrò senza bussare.
Scombussolato
a sua volta per quanto gli era appena successo, fu impossibile non
notare lo stato altrettanto stralunato dell’altro e capendo che doveva
essergli successo qualcosa -che naturalmente poteva intuire vista la
chiacchierata con Karl- decise di mettere da parte i propri pensieri
per concentrarsi su di lui.
-
Tanto me lo dirai anche se non te lo chiedo. - Fece Jun paziente
sedendosi sulla sua famosa poltrona in contemporanea a Genzo che si
buttava sul letto di pancia, schiacciando il viso sul cuscino ben bene.
Lo lasciò per qualche minuto a tartassarsi da solo, quindi quando
decise di essere pronto, alzò la testa e cominciò il lungo monologo
serrato in stile Jackpot:
-
Cosa diavolo gli hai detto? - Ma non aspettò nessuna risposta, infatti
continuò a ruota libera senza nemmeno prendere respiro, sedendosi,
stendendosi, alzandosi, camminando su e giù e cambiando di continuo
posizione: - Prima viene là e mi prende a pugni, poi mi dice che è
colpa mia se l’ho perso e di tirare via la mia maschera, poi diventa
uno schizofrenico e si mette a parlare e ad articolare le parole come
se il suo vocabolario non fosse al novantanove percento limitato al
silenzio e mi dice che la mia stronzaggine nasconde un lato di me che
non mostro mai e che devo imparare a tirare fuori se voglio che anche
lui viva i suoi sentimenti per me. Cioè, ha detto che ho un cuore e che
devo usarlo! Io! Lo stronzo per eccellenza! La puttana! Il presuntuoso,
egoista, egocentrico eccetera eccetera! Secondo me si è bevuto il
cervello! Alla fine è uscito dicendo che sospendiamo tutto e che
dobbiamo entrambi riflettere e calmarci. Ma che si spari una canna! Ora
capisco perché è sempre monosillabico… se toglie la sicura non la
pianta più e spara un sacco di cazzate! Meglio che non spari…
vaffanculo! Cosa diavolo gli hai detto? -
A
questo Jun si ritrovò il viso del fratello ad un centimetro dal suo…
aveva concluso il monologo piazzandosi davanti e appoggiato ai
braccioli lo fissava inquisitore come avesse fatto qualche grave
misfatto.
Jun non nascose un sorrisetto soddisfatto.
-
Niente di che… - Fece con diplomazia stringendosi nelle spalle… - Solo
che non aveva capito niente di te e che non ti conosceva davvero come
pensava. - Evitò di dirgli che gli aveva raccontato della sua reazione
all’incontro con la madre, sapeva che questo l’avrebbe mandato
leggendariamente in bestia. Genzo aveva, come tutti, degli argomenti
tabù e la madre era fra questi… figurarsi a dirgli che ne aveva parlato
con Karl!
Ma
non gli sfuggì comunque che doveva esserci stato dell’altro, ne era
certo, non esisteva che suo fratello scendesse in campo in prima
persona per dire quattro cazzate messe in croce. Si avvicinò
ulteriormente al suo bel viso rilassato e apparentemente tranquillo,
non sembrava in difficoltà ma era sicuro che nascondesse qualcosa, su
questo poteva mettere la mano sul fuoco.
Arrivando a toccare il naso col proprio, disse basso e minaccioso:
-
Se scopro cos’altro hai detto giuro che non la passi liscia, Jun
Misugi. Cuore o non cuore. - Jun che era una sfinge non si curò della
minaccia nonostante sapesse quanto pericolosa e seria fosse. Sapeva che
se l’avesse davvero scoperto probabilmente avrebbe rovinato tutto il
loro rapporto, ma aveva messo tutto in conto, sapeva che il rischio lo
valeva.
Pur di vederlo una volta per tutte felice, felice davvero, qualcosa da mettere in conto doveva esserci.
Perché
Genzo aveva bisogno di qualcuno con cui essere sé stesso e se per Karl
era arrivato al punto da ridursi in quello stato pur di averlo, allora
significava che lui era la persona giusta e visto che l’aveva trovato
non avrebbe permesso che se lo facesse sfuggire.
Semplicemente il rischio lo valeva.
Alla
fine sorrise sornione ed enigmatico e accarezzandogli la guancia con
calma e affetto, gli posò un bacio fraterno sull’altra mormorando:
- Fidati, andrà tutto bene. -
Fu
sentirglielo dire che lo rese reale perché se lo diceva dopo aver visto
tutti i suoi tentativi andati a vuoto e la sua volontà di voltare
pagina e andare oltre, significava che Jun sapeva qualcosa che lui
ignorava e se anche un giorno quel qualcosa l’avrebbe fatto
imbestialire, ora poteva fidarsi perché fra tutti di Jun si era sempre
fidato.
Alla
fine sospirò sconfitto, non si sarebbe mai scucito ed ormai i giochi
erano stati fatti… ora poteva solo pensare seriamente alle parole di
Karl e ricordandosele si incupì alzandosi dritto, poi altrettanto cupo
disse lugubre:
-
Ma è vero quel discorso sul mio lato nascosto? - Dal sorriso di Jun
capì che era vero ma capì anche che non gli avrebbe detto altro per
quella sua famosa convinzione che le persone dovessero arrivarci da
sole alle verità altrimenti non sarebbero state comprese davvero.
Fu così che scotendo il capo brontolò sventolando la mano verso il fratello come se scacciasse una mosca:
-
Sei proprio uno yakuza! - Infine senza aggiungere altro o fare inutili
domande che sapeva non avrebbero ottenuto risposta, uscì dalla camera
lasciandolo solo senza nemmeno aver notato il suo, di turbamento.
Un turbamento comunque ben nascosto perfino a suo fratello.