CAPITOLO III:
CIO’ CHE PIU’ CONTA
 
/Shadow on the sun - Audioslave/
Era davvero molto presto quando bussarono alla sua porta e naturalmente solo dopo un bel po’, Genzo, si accorse che qualcuno insisteva per entrare.
Capendo a scoppio decisamente molto ritardato di essere ancora al mondo, rotolò giù dal letto e senza nemmeno vedere l’ora e ancora al buio completo della propria camera, si trascinò ad aprire pensando in un primo momento che fosse qualcosa di grave e che poi comunque avrebbe ammazzato chiunque si fosse trovato davanti.
Quando la luce del corridoio lo colpì togliendogli brevemente la vista, rimase aggrappato alla porta come uno zombie per un po’, aspettando che qualcosa gli restituisse i cinque sensi scomparsi.
Fu una voce familiare a ridarglieli e fu piuttosto dolce, trattandosi di quella vellutata e calda del fratello minore.
- Genzo, stai ancora dormendo? - Era una domanda retorica e in una situazione normale l’avrebbe anche capito, ma lì c’era ben poco di normale e Genzo non lo colse, infatti brusco e con voce oltretombale rispose:
- Mi piaceva! -
Il moro dai capelli più spettinati che mai ed in boxer e canottiera intima, con ancora i segni delle lenzuola sulla pelle, teneva gli occhi chiusi quindi poté solo sentire l’altro rispondere con calma e pacatezza tipici suoi, con un sorriso divertito sulle labbra:
- So che è presto ma poi temevo di non riuscire più a beccarti da solo, così sono venuto appena pronto. -
Genzo allora aprì, seppure a fatica, mezzo occhio, quindi schifato sia dalla luce che da quello che aveva lontanamente capito, disse con voce biascicata:
- Non ti chiedo né l’ora né che diavolo devi fare già sveglio! - Poi si scostò facendolo entrare e si rituffò nel letto di peso borbottando: - Jun, che cazzo vuoi? -
Il fratello entrò, chiuse la porta ed aprì la luce dal comodino cercando di non invadere troppo gli occhi dell’altro, quindi vedendo che si stava riaddormentando anche se aveva ancora i piedi fuori dal letto, lo scosse con gentilezza ma fermezza:
- Genzo, svegliati, ascoltami un attimo! - Era incerto che poi si sarebbe ricordato ma la speranza era l’ultima a morire.
Dopo un paio di tentativi falliti, visto che il moretto si era anche girato dall’altra parte per dormire meglio, aveva deciso di aprire gli scuri della finestra con una grave terapia d’urto.
La luce dell’alba invase la stanza buia fino ad un attimo prima, quindi colpì il ragazzo steso nel letto che si lamentò con un miagolio che poi si trasformò in ringhio. Dopo un po’ si decise a dar retta a quella specie di orco che tutti scambiavano per angelo e seccato si tirò su a sedere:
- CHE CAZZO C’E’, PORCO DIAVOLO! - Gridò quindi con voce roca ed arrabbiato, fissandolo come se fosse un grave peccatore.
Jun lo guardò soddisfatto capendo di avere tutta la sua attenzione e che non si sarebbe dimenticato quello che doveva dirgli, così cambiando repentinamente tono ed espressione si fece serio, sospirò ed un’inconfondibile luce di malinconia che Genzo conosceva bene, gli fece capire cosa stava per dire e soprattutto che giorno era quello.
Infatti il castano disse con un filo di voce:
- Volevo ricordarti che oggi è l’anniversario della mamma e che ti aspetto stasera dopo il coprifuoco in aula di musica. - Non servì specificare per che cosa, lo facevano ogni anno, anche da prima dell’istituto. Bastava un pianoforte o qualunque altro strumento ed un po’ di solitudine.
Si prendevano dei privilegi che solo loro due avrebbero potuto prendersi, ma considerando l’evento non ci poteva certo essere niente di male.
Nessuno notava che Jun suonava ‘Il lago dei cigni’ proprio la stessa notte, una volta all’anno.
Genzo si spompò, solo il fratello era capace di sgonfiarlo così repentinamente, quindi si riaccasciò steso sul letto e guardando da un’altra parte, fuori dalla finestra, oltre lo sguardo penetrante e triste di Jun, ricordò la madre e con stizza si rese conto, come ogni volta, che fra i due quello che vi era più affezionato era proprio l’altro visto che l’aveva vissuta al meglio e a pieno, al contrario suo che per i primi anni non aveva mai potuto vederla, costretto a nascondersi per non creare scandalo.
Dovendo credere che la sua mamma fosse morta dandolo alla luce.
Per un momento riebbe il flash di lui che si ritrovava davanti una donna bellissima che sembrava una principessa con in braccio un bambino piccolo che le assomigliava già molto.
I loro sguardi identici. Gentili.
Non li avrebbe mai dimenticati.
La sua prima vera famiglia.
Dopo l’iniziale rifiuto causato dalla rabbia, aveva accolto con gioia quelle due persone nella sua vita.
Peccato che quando aveva cominciato ad abituarsi era finito tutto e lei era morta portandosi dietro per poco anche suo fratello.
Solo crescendo aveva capito con amarezza che in realtà lei era una persona da biasimare perché a lui aveva preferito un altro uomo che non era suo padre ed un altro figlio che non era lui.
Genzo e Mikami erano stati solo la seconda scelta e in adolescenza l’aveva vissuta in tal modo, rovinandosi anche quei pochi ricordi belli con lei.
Ora che era un po’ più grande non sapeva più che memoria dovesse avere di lei ed anno dopo anno, anche se la ricordavano come lei aveva sempre voluto, con la sonata del suo brano preferito, era sempre combattuto nei suoi confronti.
Questo non lo faceva di certo sentire meglio, anzi.
Quello era esattamente l’unico giorno dell’anno in cui faceva di tutto per non pensare a lei per poi finire col ricordarla guardando e ascoltando Jun suonare quella dannata canzone troppo triste.
Jun capì di essere ormai di troppo e non sapendo cosa dire, uscì silenzioso dalla stanza senza fare nient’altro.
Come inizio era proprio pessimo, si disse Genzo mordendosi il labbro e calciando una ciabatta da terra.
 
 
- Non vieni a cena? - Gli chiese Karl monocorde vedendolo andare verso la camera invece che in mensa. Non aveva inclinazioni particolari nel viso, come al solito, ma a Genzo non sfuggì il breve lampo di stupore che l’aveva attraversato. Qualcosa che solo lui avrebbe potuto cogliere, tanto piccolo era.
- No, non ho fame. - Disse lugubre senza la minima voglia di scherzare e menargliela per quella premura nei suoi confronti.
Karl allora si fermò:
- Hai fatto gli allenamenti di boxe, dovresti mangiare. - Semplice e lineare. Se ci si stanca fisicamente serve il carburante per andare avanti. Senza altre spiegazioni.
- Non ho voglia! - Tagliò corto dandogli le spalle e continuando verso il corridoio dov’era la sua camera.
Sapeva che non era frequente quella versione di sé stesso ma d’altronde con Karl uno strappo lo poteva anche fare.
Non si interessò, per una volta, alla reazione -o non reazione- del biondo, quindi solo giunto in camera si rese conto di essere seguito proprio da lui, più silenzioso che mai, col suo solito passo felpato.
Genzo non nascose lo stupore, quindi mettendolo alla prova, sicuro che la sua risposta sarebbe stata quella di sempre, gli disse ammiccante:
- Ti va di entrare? -
Però dovette stupirsene nel sentirgli dire un ‘sì’ come sempre incolore. Ma comunque sempre un sì, era!
Genzo sgranò gli occhi neri credendo lo prendesse in giro, ma vedendo l’amico precederlo nella propria camera, si disse che doveva essere giunto il momento.
Bastava mostrarmi scontroso per poterlo avere? A saperlo l’avrei fatto prima!!”
Pensò divertito, dimenticando per un momento il motivo per cui era stato tutto il giorno più nero che mai.
Bè,” Aggiunse alzando le spalle con leggerezza, tornando cupo mentre entrava anche lui: “mi pare giusto approfittarne!”
Anche perché, aggiunse poi, poteva essere vista pure al rovescio, ovvero Karl che approfittava di un attimo di debolezza di Genzo!
Chiuse la porta e con essa liberò tutte le sue frustrazioni di quella lunga giornata cominciata col piede sbagliato.
Vide Karl appoggiato davanti al balcone con la finestra aperta che faceva entrare una fresca brezza serale.
Non perse tempo in futili considerazioni per sciogliere il ghiaccio, cosa impossibile visto quanto spesso fosse quello di Karl, né per prepararlo meglio a quello che per lui era chiaro avrebbero fatto.
Aaccettare di entrare nella sua camera, la camera del lupo, equivaleva ad accettare di andare a letto con lui.
Non ne avevano mai parlato ma era evidente e tutto sommato aveva un po’ di tempo prima di andare da Jun, poteva anche farlo.
Era un buon modo per combattere quello stato terribile.
Non dello stesso avviso, evidentemente, era il suo compagno.
Karl incrociò subito le braccia al petto appena Genzo si sfilò la maglia sottile che indossava, senza mai smettere di fissarlo penetrante, con quell’aria enigmatica che diceva tutto e niente.
In quel momento appariva estremamente uguale a suo fratello ma non se ne sarebbe mai reso conto.
- Non sono qua per fare sesso con te, puoi rivestirti. - Disse infatti freddo e diretto il ragazzo nordico le cui origini, purtroppo per lui, non erano chiare visto che era stato abbandonato quando era un neonato. Si capiva che fosse un occidentale del nord. Tutto lì. A lui non era mai importato molto sapere il resto.
Genzo alzò un sopracciglio scettico, ma non si rivestì.
- Ah no? E perché sei qui, allora? - Imperterrito continuò a slacciarsi i jeans della diesel sempre fissandolo in quel modo affettato ed irritante. Se lo stava già mangiando con gli occhi ma al tempo stesso non lasciava trasparire nulla di sé. Karl doveva basarsi sui precedenti comportamenti strani e sul fatto che non ci stava provando con lui come sempre, ovvero come uno spaccone a cui il corpo del compagno gli fosse dovuto!
- Perché hai bisogno di parlare, è tutto il giorno che stai male. Volevo fare, per una volta, l’amico. - Si scoprì tanto, per i suoi canoni, e sebbene Genzo se ne rendesse conto, se ne stizzì perché anche lui, come sua madre all’epoca, doveva aspettare una situazione difficile per venirgli incontro.
Non potevano venire quando stava bene?
Perché per forza quando stava male?
Genzo si tolse del tutto i pantaloni con gesti secchi e rimanendo candidamente coi boxer attillati, gli si avvicinò con passo sinuoso e sicuro:
- Tu non vuoi parlare. Vuoi vedere cosa succede se rimaniamo soli in questa camera. - Ed il tono basso e suadente che usò nel dire questo, fu quanto di più seducente e penetrante avesse mai sfoderato il ragazzo in quel momento più tenebroso che mai.
Era come se avesse raggiunto un limite.
Un limite che conteneva da tempo.
Karl capiva che non era sé stesso per qualcosa che gli era successo, ma un atteggiamento simile non sapeva proprio comprenderlo, nonostante normalmente non avesse grandi problemi a riuscirci.
Non si mosse dalla sua postazione e non sciolse le braccia dal petto, sapeva che non l’avrebbe fatto con la forza.
O per lo meno lo sperava.
- Tu hai bisogno di parlare del perché oggi stai così male, ma se non vuoi farlo peggio per te. - Dopo di questo, con altrettanta apparente indifferenza, Karl fece per sgusciargli accanto diretto alla porta.
Fu esattamente mentre lo sfiorava che lo prese per il braccio e con la forza del campione di pugilato, lo strattonò spingendolo poco più in là, sul muro. Premette sapendo che si sarebbe potuto liberare quando voleva, ma cominciò a schiacciarsi contro con tutto il corpo, trattenendo i polsi alti ai lati della testa.
Lo guardò da vicino.
I suoi lineamenti duri ed impassibili erano qualcosa che gli erano entrati da quando l’aveva conosciuto, entrato lì dentro. Bello. Semplicemente bello.
Diverso da tutti gli altri giapponesi, uno straniero irraggiungibile a tutti e che invece da lui e lui soltanto si era fatto avvicinare.
Karl rimase in quella posizione apparentemente sottomesso senza muoversi, lo fissò impassibile aspettando che si esprimesse, sapendo che doveva esserci uno scoppio, dopo di questo.
- Cosa cazzo dovrei dire? - Iniziò così a denti stretti vedendo che aspettava quello. La rabbia cominciava a montargli, in lotta col desiderio di baciarlo e farlo suo. Prendersi quell’essere lontano a tutti. - Che otto anni fa è morta mia madre e oggi io e Jun dobbiamo ricordarla, come ogni dannatissimo suo anniversario, mentre lui suona la sua cazzo di canzone preferita ed io l’ascolto? E che mentre l’ascolto vengo preso dalla merda che era la mia vita prima che loro arrivassero nella mia? Che i rimorsi mi mangiano perché, porca puttana, lei è morta, ma io sono qua a pensare di essere stato una fottutissima seconda scelta per lei!? Lei che aveva deciso di nascondermi con mio padre per vivere con la famiglia che preferiva?! E che poi la sua morte è stata l’inizio di un’altra fine?! Dopo essere riuscita a farsi amare da me e avermi dato la mia prima e unica famiglia se ne è andata, è morta, porca troia, e per poco si stava portando via anche mio fratello… quel… quel cosino che all’inizio ho odiato con tutto me stesso perché era lui che si era preso tutto il suo amore! Lui col suo cuore che si è quasi fermato, quel giorno, e che ora deve vivere una lotta quotidiana fra il suo lato divino e quello mortale! Secondo te ho il diritto ad essere incazzato perché non so se sono più dispiaciuto che sia morta o che sia entrata nella mia vita? Perché dopo essere riuscita a farsi amare da me, avermi dato una famiglia e la felicità, mi ha tornato a portare via tutto, e per poco anche mio fratello che comunque è sempre in bilico fra la vita e la morte. Ed io, ogni volta che la devo per forza ricordare in quel modo, sto sempre male perché non so come cazzo mi devo sentire! È questo di cui dobbiamo parlare? È questa la conversazione che ti aspettavi? E magari pensavi anche di riuscire a tirare fuori qualche bella frase ad effetto, no? Tu che non ne metti più di due in fila e solo per puro culo! Ma non farmi ridere! Vuoi sapere invece cosa voglio, in questo fottutissimo giorno di merda? Scopare con te, perché sei quello che desidero dalle viscere e non voglio pensare ad altro che a chi mi piace e mi fa stare bene, non a quella che mi dilania e lo farà finchè vivo! - Non aveva gridato ma aveva parlato concitatamente, premendo le mani ed il resto del corpo contro quello dell’altro immobile che non si ribellava ma anzi, lo ascoltava senza mostrare turbamento.
Possibile che non ci fosse niente che lo inquietasse?
Sembrava un robot!
Genzo allora, con la rabbia che gli era uscita in quel modo insolito per lui, abituato solitamente a prendere a pugni chi gli capitava a tiro o addirittura il muro, dopo lo sfogo a voce sentì la testa esplodergli e la sensazione pressante di stare per impazzire.
Trattenere, trattenere e trattenere per poi finire dove?
Al manicomio?
Aveva bisogno di buttare via tutto. Aveva un dannatissimo bisogno di buttare via tutto.
E i suoi primi fottutissimi anni di vita nel senso di colpa per aver creduto di aver ucciso sua madre, e quando invece si era rivelato tutta una bugia ed l’aveva odiata come anche suo fratello, e quando poi dopo essersi fatta amare si era portata via tutta la sua felicità morendo e condannando ad una fine simile e prematura Jun, e il buio che aveva dentro che non riusciva a scacciare, e quella luce lontana da lui, che pareva non volerlo ma che lo illudeva e lo attirava crudelmente.
- Di certo non ti fa bene tenere tutto dentro. - Disse quindi incisivo e senza la minima sensibilità. Aveva un modo di consolare tutto personale, Karl, ma quella fu la goccia e Genzo decise di assecondarlo.
- Allora seguo il tuo consiglio. Non terrò più nulla dentro! - Così dicendo, con quella luce negli occhi quasi folle -in realtà solo un dolore sordo soppresso per troppo tempo- lo baciò premendo prepotentemente le labbra sulle sue, divorandogliele e facendole sue subito con la lingua che sembrava lottare, invece di sedurre.
Karl sulle prima non reagì, forse troppo sorpreso, ma quando sentì le mani invasive di Genzo spostarsi e scendere fra le sue gambe, sotto ai pantaloni e ai boxer per raggiungere la sua eccitazione, si scosse e lo spinse via con fermezza, dimostrando che le ore di judo pomeridiane servivano effettivamente a qualcosa.
Il moro se l’era aspettata, quindi senza preoccuparsi tornò all’attacco prendendolo per le braccia e spingendolo sul letto con una tale forza che probabilmente non metteva nemmeno negli incontri ufficiali di boxe.
Karl si trovò steso con lui sopra rendendosi conto che quello era il punto di non ritorno e sebbene prima avrebbe potuto farlo ragionare e spomparlo, ora non era più possibile.
La ferita sarebbe stata enorme ma non c’era altra soluzione.
Genzo non capì mai lo stato d’animo del compagno che, sotto di lui, inizialmente stava fermo come se gli lasciasse esplorare il suo corpo con la bocca assetata e irruente.
Solo quando lo sentì prenderlo per il collo e farlo volare a terra con un calcio ben piazzato, si rese conto che era finita.
E questa volta davvero.
Rimase a terra con la fronte premuta sul tappeto e i pugni chiusi ai lati di essa, a gattoni, rannicchiato, coi muscoli tesi come se stesse per esplodere. Carico di tanta rabbia quanta vergogna che dolore.
Non sapeva cosa far vincere in sé e a Karl dispiacque solo per ciò che gli provocava dolore, perché sapeva che era l’unica cosa che non era giusto ci fosse in lui.
Lo guardò dall’in piedi accanto. Non si piegò e non fece niente, solo disse glaciale nel tono e addolorato nello sguardo finalmente libero dalle proprie costrizioni poiché non lo vedeva nessuno.
- Non verrò mai a letto con te, Genzo. Tu non mi piaci. - Ed era vero ma la frase sarebbe stata da completare. Non gli piaceva nel modo in cui era attualmente. Non quando faceva lo sbruffone prepotente viziato irresponsabile ed irrispettoso. Però gli piaceva quando si accorgeva di ogni stupidissimo dettaglio che gli attraversava un viso per tutti inespressivo, gli piaceva quando era l’unico a capirlo e a fare per lui quello di cui aveva bisogno, gli piaceva quando faceva pugilato e quando scaldava chiunque gli stesse accanto. Gli piacevano addirittura quelle tenebre che cercava tanto di celare dentro di sé.
Ma si tenne tutto e senza dire nulla di più, uscì dalla camera sapendo che così finiva tutto.
Genzo, da solo, urlò guardando il baratro in cui stava finendo in quello schifosissimo giorno che non avrebbe mai dimenticato.
E si chiese se ci fosse una fine al dolore che un essere umano riusciva a portare.