CAPITOLO IV:
MEMORIA
 
/Swan Lake - Tchaikovsky - piano/
Il risveglio fu faticoso, quasi che cullandosi nel sonno potesse illudersi di aver sognato tutto.
Eppure aprendo gli occhi dovette per forza rendersi conto che nessun incubo gli aveva dato la grazia di riaversi e pensare che andasse tutto bene.
Sospirò col primo pensiero del mattino, di quel mattino specifico.
Sua madre.
Accendendo la luce del comodino, la prima immagine che vide fu proprio la sua foto.
Un viso molto dolce, un sorriso gentile e materno dei lineamenti delicati ed aristocratici, capelli castano rossi ordinati che scendevano sulle spalle ed un aura che naturalmente in foto non la si poteva notare ma lui la ricordava perfettamente come l’avesse vista solo il giorno prima.
Un’aura quasi angelica.
Era un sciocco paragone banale e inverosimile.
Gli angeli non esistevano se non in cielo, non certo potevano essere delle persone.
Sua madre non era un angelo ma agli occhi di un figlio rimasto orfano, quella che gli pareva di ricordare intorno a lei sarebbe sempre stata un’aura angelica, anche se con la logica sapeva che quelle cose non esistevano.
Si tirò su e andò alla finestra aprendola. La luce esterna dell’alba che cominciava non gli diede fastidio o per lo meno non la notò troppo assorto in altri pensieri, in un passato non molto lontano eppure remoto al tempo stesso.
Rimase incantato senza vedere niente davvero, poi scosse il capo e si infilò in bagno cercando di darsi una sistemata e svegliarsi come si doveva.
Concluse tutte le operazioni del risveglio, si fermò davanti allo specchio per assicurarsi di essere in ordine e a posto. Lo era ma rimase più del dovuto e non per vanità, solo per vedere alla propria immagine impeccabile quella quasi identica della madre sovrapporsi.
Mikami glielo diceva spesso… mano a mano che cresceva assomigliava sempre più a lei e ne era contento. Del vero padre non aveva preso niente; non ce l’aveva con lui, ci pensava con affetto solo che non aveva molti ricordi, aveva vissuto troppo poco con quell’uomo. Conservava le sue foto in un album che ne conteneva altre di tutta la famiglia, anche di Genzo e Mikami. Le sue due famiglie. Non l’esponeva per rispetto al fratello, pensando che si infastidisse di vedere insieme a sua madre foto di un altro uomo che sapeva perfettamente aveva odiato con tutto sé stesso.
- Ciao mamma. - Disse guardando lei nei propri occhi castani allo specchio, poi con tristezza uscì diretto alla camera di Genzo.
Sapeva che era presto ma doveva fare una visita dal dottore e l’aveva fissata a quell’ora per poter seguire tutte le lezioni giornaliere.
Erano passati otto anni da quando si era manifestata la malattia cardiaca.
Otto anni da quando sua madre era morta.
 
Uscito anche dalla camera di Genzo i suoi occhi erano rimasti amareggiati e lucidi nel lasciare il fratello in quelle condizioni, gli faceva male dover essere lui a ricordargli che quel giorno sarebbe stato male, ma sapeva che era inevitabile e che soprattutto non poteva fare niente per aiutarlo. Specie perché il proprio viso ricordava così tanto quello di loro madre, motivo della sua cupezza.
Poteva solo immaginare perché stava in quel modo, l’avevano vissuta diversamente, in fondo, ed anche se gli anni passavano non era mai facile.
Però dovevano ricordare.
Era giusto così.
Arrivato davanti alle scale soppesò l’idea di andare da Yayoi, in un momento simile avrebbe dovuto cercare conforto in qualcuno che potesse sostenerlo, ma quando il volto della sua ragazza apparve nella mente, venne subito sfumato dalla cinica consapevolezza che lei non l’avrebbe mai capito né potuto aiutare. Non ne era in grado.
Per quanto bene stesse con lei non lo capiva mai, o per lo meno lui non si sentiva capito.
Non si sentiva capito mai da nessuno.
 
La sua giornata era stata quella di sempre, come se nessuna ricorrenza speciale gravasse sulle sue spalle. Aveva assistito da lontano ai malumori tenebrosi di suo fratello senza fare niente per lui, di proposito in effetti. Riteneva infatti che non ci fosse nulla in grado di tirarlo su, quindi nemmeno ci si metteva.
Da parte sua aveva sopportato tutti quelli che lo circondavano e l’aveva fatto esternamente come sempre, con educazione, internamente con molta più fatica del solito.
Non gli piaceva come lo guardavano, convinti che fosse quel Dio sceso in terra a cui tutti volevano somigliare, di cui speravano di ottenere l’amicizia, che idealizzavano e basta.
Lui non era quello che tutti pensavano ma il non riuscire a porsi in modo diverso che non fosse l’educazione inculcatagli dalla madre, giocava di certo a suo sfavore.
Lo sapeva ma ormai era anche una sorta di corazza, quel muro di vetro che metteva fra sé e gli altri.
Quel vetro oscurato che gli permetteva di vedere tutti ma di non farsi vedere a sua volta.
Pur Yayoi sapesse che giorno fosse quello e avesse avuto la delicatezza di fargli capire che lo ricordava senza essere troppo invadente, non aveva accettato sostegno di alcun tipo da lei, anche se non l’aveva mai mandata via.
Del resto non è che si fosse imposta od offerta di chissà quali gesti straordinari… forse aspettava fosse lui a chiedere o a muoversi per primo. In questo poteva sempre contare. Yayoi non si sarebbe mai sbilanciata.
Non ci ragionava su molto, con lei se voleva faceva qualcosa, se non voleva e non era costretto, non la faceva. Almeno una cosa positiva nel rapporto con la sua ragazza poteva dire di averla. Non lo obbligava mai a gesti o discorsi che non venivano spontaneamente, per questo stavano insieme, accettava i suoi silenzi ed i suoi distacchi senza pretendere di farne parte, semplicemente non lo infastidiva e se voleva riflettere senza troppe cerimonie, poteva farlo, lei non lo seccava.
Non lo obbligava a chiacchierate estenuanti, non doveva raccontarle tutti i suoi segreti e soprattutto lei aspettava. Aspettava sempre che a lui andasse di fare o dire qualcosa senza prendere mai iniziative o avanzare pretese; riteneva che quello con lei fosse il massimo del rapporto positivo che potesse avere con anima viva.
Era convinto che di meglio non potesse sperare di costruire con nessuno e si teneva Yayoi come una sorta di male minore.
La verità era che non avevano mai fatto l’amore e non ci pensavano nemmeno. Lui per lo meno.
Nessun contatto di quel genere, solo qualche bacio e per di più molto contenuto.
Arrivò in aula di musica, dopo il coprifuoco, dopo essersi congedato con educazione da lei, lieto che non gli chiedesse di assistere allo speciale spettacolo riservato in realtà solo a Genzo.
Tornò con la mente al moro che non era mai mancato anche se sapeva che veniva solo perché glielo chiedeva lui, non certo perché lo volesse di sua iniziativa.
Per Jun era importante farlo insieme al fratello.
Quella sera non arrivò e dopo averlo aspettato un po’, capì che attenderlo oltre sarebbe stato inutile, così dopo essersi accomodato dietro al pianoforte a coda, sospirò profondamente un paio di volte e chiudendo gli occhi riportò alla mente la melodia e le note che avrebbe dovuto suonare quella notte per lei.
E cominciò.
Gli occhi chiusi, le dita affusolate che correvano sui tasti bianchi e neri molto freddi, la testa alta, dritto in posizione da pianista esperto. Il respiro ridotto ai minimi termini e lentamente ogni parte di sé che si mescolava con il tutto intorno fino a trasportarlo ad otto anni prima.
Aveva sei anni. Era a casa con Mikami e Genzo, ricordava perfettamente quello che stava facendo anche se era passato molto tempo. Quello che non ricordava mai era il dopo.
Lui e suo fratello si erano messi in testa di fare una torta per la madre e naturalmente avevano costretto Mikami ad assisterli senza però intervenire troppo. Avevano entrambi il pallino dei cuochi sebbene fossero piccoli, specie Jun.
Quando arrivò la telefonata l’uomo rispose dicendo di aspettarlo per mettere le uova, ma ovviamente non l’avevano fatto e ne erano cadute un paio dentro con tutte le bucce. Così mentre il piccolo Jun teneva la terrina dell’impasto, Genzo cercava di togliere i gusci per non dover rifare tutto daccapo. Il padre parlò lì al telefono e lo videro impallidire e con allarme ed urgenza chiedere dove fosse.
Ricordò che disse che arrivava subito.
Quel giorno non c’era la tata, erano soli con lui, così quando mise giù la comunicazione guardò i figli e Jun non si potrebbe mai dimenticare il suo sguardo smarrito e carico di lacrime che cercavano di non uscire. Pensò per un attimo che potesse scoppiare.
I due bambini si erano fermati immobili e le sue parole rimasero incise nelle menti come marchiate a fuoco.
La mamma non sta bene, ha avuto un incidente ed è in ospedale.”
Perché non mentire a dei bambini e tacergli tutto spedendoli dai vicini?
La verità era che Mikami stesso era andato nel panico e non riuscendo a ragionare aveva solo fatto quello che gli era venuto ed aveva detto loro subito la verità, mettendoli immediatamente in faccia la cruda realtà.
Le piccole mani di Jun fecero cadere la terrina piena di impasto dolce che si sparse per il pavimento e Genzo il suo mestolo.
Dopo di quello Jun ricordava solo di essere stato come teletrasportato in ospedale, il tragitto era un buco nero.
Era piccolo, troppo piccolo per assistere a certe cose e forse era anche troppo fragile.
Furono piantati davanti ad una porta la cui metà inferiore era in plastica e quella superiore in vetro.
Lui non riusciva a vedere al di là ma suo fratello e Mikami sì. Si stringeva alle sue gambe come se fosse una montagna sulla quale dovesse arrampicarsi e sentiva che qualcosa non andava, che non gli stavano dicendo qualcosa di importante, che il suo corpo stesso era strano, ma non riusciva più a capire niente. Era preoccupato per la madre e per la faccia che riusciva a vedere in Genzo, una faccia cupa. Così cupa che non l’avrebbe più scordata, inchiodata anch’ella a fuoco nella mente.
Quando poi Mikami entrò da solo, lui fu lasciato fuori col fratello ed allora gli si aggrappò forte succhiandosi l’indice anche se non l’aveva mai fatto. Ricordò il braccio esile di Genzo cingergli la schiena e poi il suo silenzio mentre fissava qualcosa al di là del vetro con sempre più scurezza in viso.
Dopo poco li fecero entrare e il padre disse loro fra le lacrime ed un aria distrutta che dovevano salutare la mamma perché non l’avrebbero più rivista.
Jun ora poteva chiedersi se fosse stato davvero necessario, se evitando quel momento il suo cuore avrebbe retto senza mai rivelarsi. Facendo una vita sedentaria e tranquilla come poi aveva fatto, magari sarebbe potuto vivere per sempre senza sapere niente e sarebbe di certo stato meglio.
Ma poi si rispondeva sempre che pur di salutare la sua mamma, poteva anche sopportare il fardello che portava nel petto.
Sapeva anche che non era stata un’idea di Mikami ma un ultimo desiderio della madre ormai in fin di vita con niente al mondo che potesse salvarla.
Fu preso in braccio da lui che tenne per mano Genzo, quindi finalmente entrarono anche loro nella stanza e poté vedere.
Flash rarefatti.
Era stato messo in piedi su una sedia insieme a Genzo per vederla meglio.
Tubi, garze, lividi, sangue… anche se era stata sistemata alla meglio per fargliela vedere, si capiva che quello nascosto era sangue.
Ed un lenzuolo a coprire chissà cos’altro.
Lei era quasi irriconoscibile ma sorrideva nonostante si vedeva soffrisse.
Jun non ricordava bene ma immaginava mettendoci del suo fra i buchi neri che aveva di quel momento.
La sensazione della mano debole della madre che stringeva la sua piccola insieme a quella di suo fratello, non l’avrebbe mai dimenticata.
E le parole.
Ricordatemi con quello che mi piaceva e mi faceva felice.”
Successivamente Mikami aveva cominciato a far ascoltare ogni notte d’anniversario la sua canzone preferita, Swan Lake, al pianoforte fino a che quasi subito Jun l’aveva imparata suonandola lui stesso.
Non seppe come così piccolo in quell’istante capì che la madre stava morendo, a cercare di ricordarlo dettagliatamente da grande non ci riusciva, però sapeva che guardandola in quegli ultimi aliti di vita aveva capito, seppur avesse solo sei anni, che lei stava morendo.
Allora qualcosa esplose in lui.
L’ultima cosa che sentì furono le braccia di Genzo sostenerlo e poi i suoi occhi neri carichi di lacrime che non capivano cosa succedesse.
Poi dolore.
Un dolore acuto che lo confondeva togliendogli il fiato.
Era l’addio alla madre?
Separarsi da lei faceva così male?
Pensare che stava morendo e avere quella morsa al petto che si espandeva bollente ed acuta, fu un tutt’uno per lui.
Poi il buio.
Il buio ed il caos per non poteva dire quanto.
Solo quando vide una calda luce ed in qualche modo assurdo aveva cominciato a chiamarla mamma, solo quando aveva addirittura sentito la sua voce dolce che gli diceva che era ora di svegliarsi e di non fare i capricci, si era separato a malincuore da quel bagliore tiepido e dal suo tono sempre più lontano.
Per tutto il resto dei suoi giorni Jun aveva creduto quello fosse solo un sogno ed ogni volta che ci pensava non sapeva quando collocarlo, se durante il coma del suo primo attacco di cuore oppure successivamente, ma gli piaceva sempre pensare che fosse stata sua madre a riportarlo in vita impedendogli di seguirla.
Il suo addio speciale.
Così piccolo non era stato capace di distinguere tutti quei fatti.
Quando aveva aperto gli occhi credendo di essersi solo addormentato, si era sentito davvero molto stanco ma si era preoccupato vedendo lo sguardo cupo e allucinato di Genzo che lo fissava come non avesse fatto altro per giorni.
Incollato al suo letto doveva averlo vegliato come a sfidare il destino a portarsi via anche il fratello, oltre che la madre.
Torvo, astioso, tenebroso seppure avesse solo nove anni.
Quando aveva visto che si era svegliato, l’aveva abbracciato forte piangendo.
L’aveva fatto solo quella volta, in seguito non c’erano mai state manifestazioni del genere. Non un abbraccio, non una lacrima, per lo meno non con lui.
Però quel buio nel suo viso non si era rischiarato per molto tempo ed ora poteva dire che non era comunque svanito del tutto, anche se lo nascondeva con atteggiamenti spavaldi e arroganti ed un mucchio di altri difetti ben visibili.
Solo lui sapeva cosa celavano quei modi.
Le sue tenebre non le aveva ancora vinte, aveva solo imparato a controllarle.
Sapeva di essere uguale a lui più di quello che non apparisse esternamente.
Apprendere all’età di sei anni che soffriva di cuore e che aveva addirittura subito un’operazione che comunque non aveva risolto il problema, che invece se lo sarebbe dovuto tenere per sempre, non era facile. Non l’aveva comunque capito fino a che, sempre suo fratello, un giorno, esasperato dal fatto che gli chiedesse di continuo quando sarebbe guarito, gli aveva gridato rabbioso che non sarebbe mai successo e che per colpa di quella donna sarebbe stato male per sempre!
Aveva avuto uno scoppio d’ira pazzesco, aveva rotto tutto e gridato contro la madre che prima toglieva, poi dava e poi tornava a togliere, dicendo un sacco di cose brutte indice solo del suo dolore.
Ci era rimasto male a guardarlo, Jun, tanto delle sue parole quanto dalla notizia su di sé.
Un malato di cuore a vita.
Però non aveva mai dimenticato le parole della madre in quella specie di sogno, o qualunque cosa fosse stata.
Di svegliarsi e non fare i capricci.
Jun non li avrebbe mai fatti.
Ecco cosa forgiò poi il suo carattere.
Mai un lamento, mai una debolezza, mai un capriccio di alcun genere.
Accettare sempre tutto con tranquillità apparente anche se dentro moriva.
Accettare tutto a qualunque prezzo, di qualunque cosa si trattasse.
Solo quando sentì una presenza toccargli la spalla ed aprì gli occhi bruscamente, si ritrovò smarrito nell’aula di musica, davanti al pianoforte e guardandosi intorno vide un volto familiare che ancora non era riuscito a mettere a fuoco.
Si rese conto di star piangendo solo allora, quando riflesso negli occhi scuri del ragazzo che aveva accanto, vide lo stupore seguito dal fastidio verso qualcosa che non comprese.
- Ciao… - Mormorò con fatica, la voce roca e debole. Cercava di essere gentile come generalmente era, ma non riusciva ancora a mettere fuoco il ragazzo seduto accanto a sé, sapeva solo che non era suo fratello.
La mente ancora troppo annebbiata dai ricordi di otto anni prima.
- Cosa fai? - Con la domanda non molto intelligente, riconobbe la voce e ad essa associò quel poco del suo viso che riusciva a vedere nella penombra dell’aula.
Era Kojiro Hyuga.
Continuavano ad incontrarsi in quel modo casuale che era davvero comico.
- Suonavo… - Disse quindi calmo. L’istinto fortissimo di finirla lì, non dirgli altro. Non voleva parlare in un momento simile, non voleva fare conversazioni di circostanza anche se era lui, l’unico che non gli aveva ancora dato sui nervi per comportamenti fastidiosi. Però fu appunto per questo che invece si sforzò e continuò come la sua famosa educazione gli aveva insegnato: - Non volevo disturbarti, ma in questa notte io suono sempre fino all'alba. -
Ma non gli era davvero importato di poter interrompere il sonno di qualcuno, doveva essere sincero.
- Cos’era? - Lo scrutò con attenzione cercando di capire se ad un tipo simile potesse davvero interessare che opera stesse suonando… a giudicarlo per quel che aveva visto di lui, avrebbe giurato che quell’Hyuga ne sarebbe sempre rimasto alla larga dalla musica classica… chiedere addirittura il nome di una canzone, poi…
Più per stupore che altro, rispose:
- Il lago dei cigni di Tchaikovsky. - Era scuro per poter notare perfettamente ogni sua sfumatura, ma Jun giurò di vedere nemmeno il minimo interesse per quell’informazione, proprio come aveva immaginato. Cercava comunque di riprendersi dai ricordi che l’avevano scosso prima che quel ragazzo si accorgesse del suo reale stato d’animo, l’avrebbe infastidito dover rispondere a domande personali. Insomma, avrebbe di certo mentito dicendo che andava tutto bene, ma aveva come la sensazione che quel tipo non fosse tanto facile da convincere. Aveva un po’ la stoffa di suo fratello… un po’…
- Perché? - Infatti gli chiese dopo un po’ irruente, mandando a quel paese quel poco di riguardo avuto. Jun non si sorprese che glielo chiedesse anche se dovette andare ad intuito.
Perché’ cosa?
Volendo avrebbe potuto fare facilmente lo gnorri e rispondere ad un qualsiasi altro ‘perché’ implicito. Come ad esempio ‘perché si chiamava così la canzone’, o ‘perché suonava proprio quella’. Invece era ovvio si riferisse al ‘perché proprio stasera’.
Comunque avrebbe avuto molte possibilità, invece che dirgli la verità come poi fece.
E non se ne spiegò perché.
- E' l'anniversario della morte di mia madre. Adorava questa opera, ce la suonava sempre. - No, Jun non l’avrebbe mai e poi mai detto ad anima viva, in condizioni normali, ma forse troppo frastornato dal tuffo doloroso nei ricordi o forse confuso dal suo insolito interesse, glielo disse.
Non ebbe comunque il tempo di proseguire e da un lato fu lieto di essere interrotto bruscamente, dall’altro, quando si accorse cosa l’avesse fermato dall’aprirsi ulteriormente, rimase basito.
Le labbra di Kojiro si erano premute improvvise sulle proprie rimanendo così, fermo, per un lungo momento.
O forse più corto di quel che sembrò ad entrambi.
Le sue labbra erano morbide e calde e combaciavano perfettamente. Impetuosa l’ondata di calore lo riscaldò fino alla radice dei capelli mandandolo in confusione, dimenticandosi completamente di dover reagire. Di accettare o rifiutare il bacio.
Dimenticandosi di essere fidanzato e quindi di doverlo mandare via.
Dimenticandosi, per un fatidico momento, anche la tristezza per la madre.
Fu questo che non lo fece agire subito, prima di ogni cosa.
Non pensava più alla madre.
Non era più il giorno dell’anniversario della sua morte ma una notte in cui era stato baciato.
Bè, in realtà non proprio un bacio, solo un premersi infantile di labbra, come se non sapesse come fosse uno vero.
Provò un moto di tenerezza per quella creatura che probabilmente non aveva avuto mai occasione di fare quelle cose e di sicuro molte altre ancora.
Lo squarcio di quel che doveva essere stata la vita di Kojiro, fu interrotta con la fine di quel contatto quasi tenero.
Separandosi rimasero un attimo a guardarsi negli occhi da vicino, sentendo i respiri altrui addosso e per poco anche i battiti fortissimi.
Aveva una sfumatura di occhi molto simile a quella di Genzo, ma erano un po’ più chiari; nei suoi, con attenzione, si distingueva la pupilla mentre in quelli del fratello no.
Non poteva giurarci, ma pensava di vederci confusione, imbarazzo ed emozione.
E lui?
Come si sentiva, invece, Jun?
Bene… doveva ammetterlo almeno a sé stesso. Non aveva fatto niente, però si sentiva bene in un gesto così sciocco e appena accennato.
Sostegno? Era quello il nome appropriato di quella cosa?
Non ne era sicuro, non aveva mai fatto in modo di doverne aver bisogno se non davanti a Genzo, ma lui non lo toccava mai, non lo consolava, non lo abbracciava e lui, di suo, non chiedeva nulla. Gli pareva forse di fare dei capricci a dimostrare la propria debolezza, il proprio malessere interiore e a chiedere del sostegno.
Ma se gliene veniva dato di iniziativa altrui e lui non poteva far altro  che accettarlo, perché non bearsi anche dei benefici?
Si sentiva stranissimo, anche se poi non era successo niente di che.
A parte un ragazzo che l’aveva baciato.
- Sei gay? - Il tono delicato, non voleva metterlo sulla difensiva.
- Lo sono? - Gli chiese a sua volta confuso. Jun rimase spiazzato ma fino ad un certo punto, come se in realtà si fosse aspettato una cosa simile.
L’osservò notando per la prima volta che indossava solo una canottiera intima e dei pantaloni stretti. Si imbarazzò e ringraziò il buio che mascherò il suo rossore!
- Ti è piaciuto il bacio? - Fece allora Jun controllandosi con maestria, con calma e quasi dolcezza, continuando a guardarlo negli occhi neri confusi e stupiti. Gli faceva davvero tenerezza… cosa doveva aver vissuto per essere così inesperto anche su cose talmente semplici?
- Sì… -  Il proprio calore aumentò, ora oltre alle guance in fiamme aveva anche le orecchie e benedisse il buio!
- Lo rifaresti? - Però voleva anche saperle lui, quelle cose, oltre che aiutarlo a comprenderle.
- Sì e anche meglio! - Così gli apparve chiaro e semplice e per assurdo ne fu addirittura contento. Anche se la tenne stretta a sé questa strana gioia. 
- Allora lo sei. -
- Ed è male? - Poi di nuovo questa sua confusione gli strinse il cuore, ebbe l’istinto di carezzargli la guancia per tranquillizzarlo anche se si sforzava di non agitarsi come uno sciocco, ma si contenne come suo solito.
- Dipende dai punti di vista… - Dando sempre risposte generiche tentava di tastare il terreno prima di dire ciò che gli altri volevano sentire e al contempo ciò che era meglio per sé stesso. 
- Dal tuo? - Però gli piacque che a Kojiro interessasse il suo parere e basta. Una piccola scossa elettrica l’attraversò. Di solito tutti volevano sapere il suo punto di vista, era normale, ma sapere che anche quel selvatico Kojiro lo voleva, gli fece piacere in quel momento. 
- No. - Ed era vero, essere maschi o femmine non contava, per amarsi, purché i sentimenti che si esprimevano fossero sinceri. E manifestazioni fisiche con gente dello stesso sesso erano solo affare di chi le faceva, non certo di chicchessia!
Tanto più che suo fratello andava spesso e volentieri con ragazzi, oltre che con ragazze. Per non parlare del fatto che era chiaro fosse innamorato di Schneider!
- Ma lo sei anche tu? - Però glielo chiese a bruciapelo e non ebbe il tempo di elaborare una risposta migliore della semplice e pura verità così com’era. 
- No. - Del resto era proprio così. Lui stava anche con Yayoi e lo sapevano tutti.
- No? - Notò il suo stupore a caratteri cubitali e se ne dispiacque capendo che doveva essere stato un equivoco
- No. - Che non sapesse della sua relazione?
Forse era lì da troppo poco tempo… non ebbe il tempo di sincerarsene e dirglielo che vide il moro avvampare, irrigidirsi e quindi correre via con uno scatto da medaglia d’oro.
Rimase in un attimo solo come prima di iniziare a suonare, lui, il pianoforte ed il buio. E dei ricordi insoliti, inaspettati, che l’avevano scaldato sostituendosi a quelli cupi, dolorosi e crudeli di sua madre.
Ne era stato proprio strappato via. Dopo un dolore sordo che l’aveva fatto addirittura piangere come un bambino, era riuscito addirittura a stare bene.
Si toccò spaesato le labbra con le dita e con lo sguardo perso nel vuoto, gli parve di rivederlo, risentirlo, provando un incontrollato ed imbarazzante desiderio che andasse oltre a quel breve contatto di labbra.
A quello però l’immagine di Yayoi gli sovvenne prepotente e piegandosi sul pianoforte, appoggiò la fronte al legno freddo chiudendo gli occhi.
In realtà non doveva sentirsi in colpa, non aveva fatto niente di male.
Aveva creduto Kojiro lo sapesse, lo sapevano tutti, tanto più che comunque non gli aveva dato il tempo di dirglielo, di spiegargli, di reagire. Nemmeno di accettare o respingerlo.
Aveva fatto tutto lui.
Però… però doveva essere sincero.
Anche se era stato un equivoco di un istante che mai si sarebbe ripetuto, gli era inspiegabilmente piaciuto.
Un innocente ed insignificante fatto che, però, non avrebbe raccontato a Yayoi.