CAPITOLO IV:
MEMORIA
Il
risveglio fu faticoso, quasi che cullandosi nel sonno potesse
illudersi di aver sognato tutto.
Eppure
aprendo gli occhi dovette per forza rendersi conto che nessun incubo
gli aveva dato la grazia di riaversi e pensare che andasse tutto
bene.
Sospirò
col primo pensiero del mattino, di quel mattino specifico.
Sua
madre.
Accendendo
la luce del comodino, la prima immagine che vide fu proprio la sua
foto.
Un
viso molto dolce, un sorriso gentile e materno dei lineamenti
delicati ed aristocratici, capelli castano rossi ordinati che
scendevano sulle spalle ed un aura che naturalmente in foto non la si
poteva notare ma lui la ricordava perfettamente come l’avesse vista
solo il giorno prima.
Un’aura
quasi angelica.
Era
un sciocco paragone banale e inverosimile.
Gli
angeli non esistevano se non in cielo, non certo potevano essere
delle persone.
Sua
madre non era un angelo ma agli occhi di un figlio rimasto orfano,
quella che gli pareva di ricordare intorno a lei sarebbe sempre stata
un’aura angelica, anche se con la logica sapeva che quelle cose non
esistevano.
Si
tirò su e andò alla finestra aprendola. La luce esterna dell’alba
che cominciava non gli diede fastidio o per lo meno non la notò
troppo assorto in altri pensieri, in un passato non molto lontano
eppure remoto al tempo stesso.
Rimase
incantato senza vedere niente davvero, poi scosse il capo e si infilò
in bagno cercando di darsi una sistemata e svegliarsi come si doveva.
Concluse
tutte le operazioni del risveglio, si fermò davanti allo specchio
per assicurarsi di essere in ordine e a posto. Lo era ma rimase più
del dovuto e non per vanità, solo per vedere alla propria immagine
impeccabile quella quasi identica della madre sovrapporsi.
Mikami
glielo diceva spesso… mano a mano che cresceva assomigliava sempre
più a lei e ne era contento. Del vero padre non aveva preso niente;
non ce l’aveva con lui, ci pensava con affetto solo che non aveva
molti ricordi, aveva vissuto troppo poco con quell’uomo. Conservava
le sue foto in un album che ne conteneva altre di tutta la famiglia,
anche di Genzo e Mikami. Le sue due famiglie. Non l’esponeva per
rispetto al fratello, pensando che si infastidisse di vedere insieme
a sua madre foto di un altro uomo che sapeva perfettamente aveva
odiato con tutto sé stesso.
-
Ciao mamma. - Disse guardando lei nei propri occhi castani allo
specchio, poi con tristezza uscì diretto alla camera di Genzo.
Sapeva
che era presto ma doveva fare una visita dal dottore e l’aveva
fissata a quell’ora per poter seguire tutte le lezioni giornaliere.
Erano
passati otto anni da quando si era manifestata la malattia cardiaca.
Otto
anni da quando sua madre era morta.
Uscito
anche dalla camera di Genzo i suoi occhi erano rimasti amareggiati e
lucidi nel lasciare il fratello in quelle condizioni, gli faceva male
dover essere lui a ricordargli che quel giorno sarebbe stato male, ma
sapeva che era inevitabile e che soprattutto non poteva fare niente
per aiutarlo. Specie perché il proprio viso ricordava così tanto
quello di loro madre, motivo della sua cupezza.
Poteva
solo immaginare perché stava in quel modo, l’avevano vissuta
diversamente, in fondo, ed anche se gli anni passavano non era mai
facile.
Però
dovevano ricordare.
Era
giusto così.
Arrivato
davanti alle scale soppesò l’idea di andare da Yayoi, in un
momento simile avrebbe dovuto cercare conforto in qualcuno che
potesse sostenerlo, ma quando il volto della sua ragazza apparve
nella mente, venne subito sfumato dalla cinica consapevolezza che lei
non l’avrebbe mai capito né potuto aiutare. Non ne era in grado.
Per
quanto bene stesse con lei non lo capiva mai, o per lo meno lui non
si sentiva capito.
Non
si sentiva capito mai da nessuno.
La
sua giornata era stata quella di sempre, come se nessuna ricorrenza
speciale gravasse sulle sue spalle. Aveva assistito da lontano ai
malumori tenebrosi di suo fratello senza fare niente per lui, di
proposito in effetti. Riteneva infatti che non ci fosse nulla in
grado di tirarlo su, quindi nemmeno ci si metteva.
Da
parte sua aveva sopportato tutti quelli che lo circondavano e l’aveva
fatto esternamente come sempre, con educazione, internamente con
molta più fatica del solito.
Non
gli piaceva come lo guardavano, convinti che fosse quel Dio sceso in
terra a cui tutti volevano somigliare, di cui speravano di ottenere
l’amicizia, che idealizzavano e basta.
Lui
non era quello che tutti pensavano ma il non riuscire a porsi in modo
diverso che non fosse l’educazione inculcatagli dalla madre,
giocava di certo a suo sfavore.
Lo
sapeva ma ormai era anche una sorta di corazza, quel muro di vetro
che metteva fra sé e gli altri.
Quel
vetro oscurato che gli permetteva di vedere tutti ma di non farsi
vedere a sua volta.
Pur
Yayoi sapesse che giorno fosse quello e avesse avuto la delicatezza
di fargli capire che lo ricordava senza essere troppo invadente, non
aveva accettato sostegno di alcun tipo da lei, anche se non l’aveva
mai mandata via.
Del
resto non è che si fosse imposta od offerta di chissà quali gesti
straordinari… forse aspettava fosse lui a chiedere o a muoversi per
primo. In questo poteva sempre contare. Yayoi non si sarebbe mai
sbilanciata.
Non
ci ragionava su molto, con lei se voleva faceva qualcosa, se non
voleva e non era costretto, non la faceva. Almeno una cosa positiva
nel rapporto con la sua ragazza poteva dire di averla. Non lo
obbligava mai a gesti o discorsi che non venivano spontaneamente, per
questo stavano insieme, accettava i suoi silenzi ed i suoi distacchi
senza pretendere di farne parte, semplicemente non lo infastidiva e
se voleva riflettere senza troppe cerimonie, poteva farlo, lei non lo
seccava.
Non
lo obbligava a chiacchierate estenuanti, non doveva raccontarle tutti
i suoi segreti e soprattutto lei aspettava. Aspettava sempre che a
lui andasse di fare o dire qualcosa senza prendere mai iniziative o
avanzare pretese; riteneva che quello con lei fosse il massimo del
rapporto positivo che potesse avere con anima viva.
Era
convinto che di meglio non potesse sperare di costruire con nessuno e
si teneva Yayoi come una sorta di male minore.
La
verità era che non avevano mai fatto l’amore e non ci pensavano
nemmeno. Lui per lo meno.
Nessun
contatto di quel genere, solo qualche bacio e per di più molto
contenuto.
Arrivò
in aula di musica, dopo il coprifuoco, dopo essersi congedato con
educazione da lei, lieto che non gli chiedesse di assistere allo
speciale spettacolo riservato in realtà solo a Genzo.
Tornò
con la mente al moro che non era mai mancato anche se sapeva che
veniva solo perché glielo chiedeva lui, non certo perché lo volesse
di sua iniziativa.
Per
Jun era importante farlo insieme al fratello.
Quella
sera non arrivò e dopo averlo aspettato un po’, capì che
attenderlo oltre sarebbe stato inutile, così dopo essersi accomodato
dietro al pianoforte a coda, sospirò profondamente un paio di volte
e chiudendo gli occhi riportò alla mente la melodia e le note che
avrebbe dovuto suonare quella notte per lei.
E
cominciò.
Gli
occhi chiusi, le dita affusolate che correvano sui tasti bianchi e
neri molto freddi, la testa alta, dritto in posizione da pianista
esperto. Il respiro ridotto ai minimi termini e lentamente ogni parte
di sé che si mescolava con il tutto intorno fino a trasportarlo ad
otto anni prima.
Aveva
sei anni. Era a casa con Mikami e Genzo, ricordava perfettamente
quello che stava facendo anche se era passato molto tempo. Quello che
non ricordava mai era il dopo.
Lui
e suo fratello si erano messi in testa di fare una torta per la madre
e naturalmente avevano costretto Mikami ad assisterli senza però
intervenire troppo. Avevano entrambi il pallino dei cuochi sebbene
fossero piccoli, specie Jun.
Quando
arrivò la telefonata l’uomo rispose dicendo di aspettarlo per
mettere le uova, ma ovviamente non l’avevano fatto e ne erano
cadute un paio dentro con tutte le bucce. Così mentre il piccolo Jun
teneva la terrina dell’impasto, Genzo cercava di togliere i gusci
per non dover rifare tutto daccapo. Il padre parlò lì al telefono e
lo videro impallidire e con allarme ed urgenza chiedere dove fosse.
Ricordò
che disse che arrivava subito.
Quel
giorno non c’era la tata, erano soli con lui, così quando mise giù
la comunicazione guardò i figli e Jun non si potrebbe mai
dimenticare il suo sguardo smarrito e carico di lacrime che cercavano
di non uscire. Pensò per un attimo che potesse scoppiare.
I
due bambini si erano fermati immobili e le sue parole rimasero incise
nelle menti come marchiate a fuoco.
“La
mamma non sta bene, ha avuto un incidente ed è in ospedale.”
Perché
non mentire a dei bambini e tacergli tutto spedendoli dai vicini?
La
verità era che Mikami stesso era andato nel panico e non riuscendo a
ragionare aveva solo fatto quello che gli era venuto ed aveva detto
loro subito la verità, mettendoli immediatamente in faccia la cruda
realtà.
Le
piccole mani di Jun fecero cadere la terrina piena di impasto dolce
che si sparse per il pavimento e Genzo il suo mestolo.
Dopo
di quello Jun ricordava solo di essere stato come teletrasportato in
ospedale, il tragitto era un buco nero.
Era
piccolo, troppo piccolo per assistere a certe cose e forse era anche
troppo fragile.
Furono
piantati davanti ad una porta la cui metà inferiore era in plastica
e quella superiore in vetro.
Lui
non riusciva a vedere al di là ma suo fratello e Mikami sì. Si
stringeva alle sue gambe come se fosse una montagna sulla quale
dovesse arrampicarsi e sentiva che qualcosa non andava, che non gli
stavano dicendo qualcosa di importante, che il suo corpo stesso era
strano, ma non riusciva più a capire niente. Era preoccupato per la
madre e per la faccia che riusciva a vedere in Genzo, una faccia
cupa. Così cupa che non l’avrebbe più scordata, inchiodata
anch’ella a fuoco nella mente.
Quando
poi Mikami entrò da solo, lui fu lasciato fuori col fratello ed
allora gli si aggrappò forte succhiandosi l’indice anche se non
l’aveva mai fatto. Ricordò il braccio esile di Genzo cingergli la
schiena e poi il suo silenzio mentre fissava qualcosa al di là del
vetro con sempre più scurezza in viso.
Dopo
poco li fecero entrare e il padre disse loro fra le lacrime ed un
aria distrutta che dovevano salutare la mamma perché non l’avrebbero
più rivista.
Jun
ora poteva chiedersi se fosse stato davvero necessario, se evitando
quel momento il suo cuore avrebbe retto senza mai rivelarsi. Facendo
una vita sedentaria e tranquilla come poi aveva fatto, magari sarebbe
potuto vivere per sempre senza sapere niente e sarebbe di certo stato
meglio.
Ma
poi si rispondeva sempre che pur di salutare la sua mamma, poteva
anche sopportare il fardello che portava nel petto.
Sapeva
anche che non era stata un’idea di Mikami ma un ultimo desiderio
della madre ormai in fin di vita con niente al mondo che potesse
salvarla.
Fu
preso in braccio da lui che tenne per mano Genzo, quindi finalmente
entrarono anche loro nella stanza e poté vedere.
Flash
rarefatti.
Era
stato messo in piedi su una sedia insieme a Genzo per vederla meglio.
Tubi,
garze, lividi, sangue… anche se era stata sistemata alla meglio per
fargliela vedere, si capiva che quello nascosto era sangue.
Ed
un lenzuolo a coprire chissà cos’altro.
Lei
era quasi irriconoscibile ma sorrideva nonostante si vedeva
soffrisse.
Jun
non ricordava bene ma immaginava mettendoci del suo fra i buchi neri
che aveva di quel momento.
La
sensazione della mano debole della madre che stringeva la sua piccola
insieme a quella di suo fratello, non l’avrebbe mai dimenticata.
E
le parole.
“Ricordatemi
con quello che mi piaceva e mi faceva felice.”
Successivamente
Mikami aveva cominciato a far ascoltare ogni notte d’anniversario
la sua canzone preferita, Swan Lake, al pianoforte fino a che quasi
subito Jun l’aveva imparata suonandola lui stesso.
Non
seppe come così piccolo in quell’istante capì che la madre stava
morendo, a cercare di ricordarlo dettagliatamente da grande non ci
riusciva, però sapeva che guardandola in quegli ultimi aliti di vita
aveva capito, seppur avesse solo sei anni, che lei stava morendo.
Allora
qualcosa esplose in lui.
L’ultima
cosa che sentì furono le braccia di Genzo sostenerlo e poi i suoi
occhi neri carichi di lacrime che non capivano cosa succedesse.
Poi
dolore.
Un
dolore acuto che lo confondeva togliendogli il fiato.
Era
l’addio alla madre?
Separarsi
da lei faceva così male?
Pensare
che stava morendo e avere quella morsa al petto che si espandeva
bollente ed acuta, fu un tutt’uno per lui.
Poi
il buio.
Il
buio ed il caos per non poteva dire quanto.
Solo
quando vide una calda luce ed in qualche modo assurdo aveva
cominciato a chiamarla mamma, solo quando aveva addirittura sentito
la sua voce dolce che gli diceva che era ora di svegliarsi e di non
fare i capricci, si era separato a malincuore da quel bagliore
tiepido e dal suo tono sempre più lontano.
Per
tutto il resto dei suoi giorni Jun aveva creduto quello fosse solo un
sogno ed ogni volta che ci pensava non sapeva quando collocarlo, se
durante il coma del suo primo attacco di cuore oppure
successivamente, ma gli piaceva sempre pensare che fosse stata sua
madre a riportarlo in vita impedendogli di seguirla.
Il
suo addio speciale.
Così
piccolo non era stato capace di distinguere tutti quei fatti.
Quando
aveva aperto gli occhi credendo di essersi solo addormentato, si era
sentito davvero molto stanco ma si era preoccupato vedendo lo sguardo
cupo e allucinato di Genzo che lo fissava come non avesse fatto altro
per giorni.
Incollato
al suo letto doveva averlo vegliato come a sfidare il destino a
portarsi via anche il fratello, oltre che la madre.
Torvo,
astioso, tenebroso seppure avesse solo nove anni.
Quando
aveva visto che si era svegliato, l’aveva abbracciato forte
piangendo.
L’aveva
fatto solo quella volta, in seguito non c’erano mai state
manifestazioni del genere. Non un abbraccio, non una lacrima, per lo
meno non con lui.
Però
quel buio nel suo viso non si era rischiarato per molto tempo ed ora
poteva dire che non era comunque svanito del tutto, anche se lo
nascondeva con atteggiamenti spavaldi e arroganti ed un mucchio di
altri difetti ben visibili.
Solo
lui sapeva cosa celavano quei modi.
Le
sue tenebre non le aveva ancora vinte, aveva solo imparato a
controllarle.
Sapeva
di essere uguale a lui più di quello che non apparisse esternamente.
Apprendere
all’età di sei anni che soffriva di cuore e che aveva addirittura
subito un’operazione che comunque non aveva risolto il problema,
che invece se lo sarebbe dovuto tenere per sempre, non era facile.
Non l’aveva comunque capito fino a che, sempre suo fratello, un
giorno, esasperato dal fatto che gli chiedesse di continuo quando
sarebbe guarito, gli aveva gridato rabbioso che non sarebbe mai
successo e che per colpa di quella donna sarebbe stato male per
sempre!
Aveva
avuto uno scoppio d’ira pazzesco, aveva rotto tutto e gridato
contro la madre che prima toglieva, poi dava e poi tornava a
togliere, dicendo un sacco di cose brutte indice solo del suo dolore.
Ci
era rimasto male a guardarlo, Jun, tanto delle sue parole quanto
dalla notizia su di sé.
Un
malato di cuore a vita.
Però
non aveva mai dimenticato le parole della madre in quella specie di
sogno, o qualunque cosa fosse stata.
Di
svegliarsi e non fare i capricci.
Jun
non li avrebbe mai fatti.
Ecco
cosa forgiò poi il suo carattere.
Mai
un lamento, mai una debolezza, mai un capriccio di alcun genere.
Accettare
sempre tutto con tranquillità apparente anche se dentro moriva.
Accettare
tutto a qualunque prezzo, di qualunque cosa si trattasse.
Solo
quando sentì una presenza toccargli la spalla ed aprì gli occhi
bruscamente, si ritrovò smarrito nell’aula di musica, davanti al
pianoforte e guardandosi intorno vide un volto familiare che ancora
non era riuscito a mettere a fuoco.
Si
rese conto di star piangendo solo allora, quando riflesso negli occhi
scuri del ragazzo che aveva accanto, vide lo stupore seguito dal
fastidio verso qualcosa che non comprese.
-
Ciao… - Mormorò con fatica, la voce roca e debole. Cercava di
essere gentile come generalmente era, ma non riusciva ancora a
mettere fuoco il ragazzo seduto accanto a sé, sapeva solo che non
era suo fratello.
La
mente ancora troppo annebbiata dai ricordi di otto anni prima.
-
Cosa fai? - Con la domanda non molto intelligente, riconobbe la voce
e ad essa associò quel poco del suo viso che riusciva a vedere nella
penombra dell’aula.
Era
Kojiro Hyuga.
Continuavano
ad incontrarsi in quel modo casuale che era davvero comico.
-
Suonavo… - Disse quindi calmo. L’istinto fortissimo di finirla
lì, non dirgli altro. Non voleva parlare in un momento simile, non
voleva fare conversazioni di circostanza anche se era lui, l’unico
che non gli aveva ancora dato sui nervi per comportamenti fastidiosi.
Però fu appunto per questo che invece si sforzò e continuò come la
sua famosa educazione gli aveva insegnato: - Non volevo disturbarti,
ma in questa notte io suono sempre fino all'alba. -
Ma
non gli era davvero importato di poter interrompere il sonno di
qualcuno, doveva essere sincero.
-
Cos’era? - Lo scrutò con attenzione cercando di capire se ad un
tipo simile potesse davvero interessare che opera stesse suonando…
a giudicarlo per quel che aveva visto di lui, avrebbe giurato che
quell’Hyuga ne sarebbe sempre rimasto alla larga dalla musica
classica… chiedere addirittura il nome di una canzone, poi…
Più
per stupore che altro, rispose:
-
Il lago dei cigni di Tchaikovsky. - Era scuro per poter notare
perfettamente ogni sua sfumatura, ma Jun giurò di vedere nemmeno il
minimo interesse per quell’informazione, proprio come aveva
immaginato. Cercava comunque di riprendersi dai ricordi che l’avevano
scosso prima che quel ragazzo si accorgesse del suo reale stato
d’animo, l’avrebbe infastidito dover rispondere a domande
personali. Insomma, avrebbe di certo mentito dicendo che andava tutto
bene, ma aveva come la sensazione che quel tipo non fosse tanto
facile da convincere. Aveva un po’ la stoffa di suo fratello… un
po’…
-
Perché? - Infatti gli chiese dopo un po’ irruente, mandando a quel
paese quel poco di riguardo avuto. Jun non si sorprese che glielo
chiedesse anche se dovette andare ad intuito.
‘Perché’
cosa?
Volendo
avrebbe potuto fare facilmente lo gnorri e rispondere ad un qualsiasi
altro ‘perché’ implicito. Come ad esempio ‘perché si chiamava
così la canzone’, o ‘perché suonava proprio quella’. Invece
era ovvio si riferisse al ‘perché proprio stasera’.
Comunque
avrebbe avuto molte possibilità, invece che dirgli la verità come
poi fece.
E
non se ne spiegò perché.
-
E' l'anniversario della morte di mia madre. Adorava questa opera, ce
la suonava sempre. - No, Jun non l’avrebbe mai e poi mai detto ad
anima viva, in condizioni normali, ma forse troppo frastornato dal
tuffo doloroso nei ricordi o forse confuso dal suo insolito
interesse, glielo disse.
Non
ebbe comunque il tempo di proseguire e da un lato fu lieto di essere
interrotto bruscamente, dall’altro, quando si accorse cosa l’avesse
fermato dall’aprirsi ulteriormente, rimase basito.
Le
labbra di Kojiro si erano premute improvvise sulle proprie rimanendo
così, fermo, per un lungo momento.
O
forse più corto di quel che sembrò ad entrambi.
Le
sue labbra erano morbide e calde e combaciavano perfettamente.
Impetuosa l’ondata di calore lo riscaldò fino alla radice dei
capelli mandandolo in confusione, dimenticandosi completamente di
dover reagire. Di accettare o rifiutare il bacio.
Dimenticandosi
di essere fidanzato e quindi di doverlo mandare via.
Dimenticandosi,
per un fatidico momento, anche la tristezza per la madre.
Fu
questo che non lo fece agire subito, prima di ogni cosa.
Non
pensava più alla madre.
Non
era più il giorno dell’anniversario della sua morte ma una notte
in cui era stato baciato.
Bè,
in realtà non proprio un bacio, solo un premersi infantile di
labbra, come se non sapesse come fosse uno vero.
Provò
un moto di tenerezza per quella creatura che probabilmente non aveva
avuto mai occasione di fare quelle cose e di sicuro molte altre
ancora.
Lo
squarcio di quel che doveva essere stata la vita di Kojiro, fu
interrotta con la fine di quel contatto quasi tenero.
Separandosi
rimasero un attimo a guardarsi negli occhi da vicino, sentendo i
respiri altrui addosso e per poco anche i battiti fortissimi.
Aveva
una sfumatura di occhi molto simile a quella di Genzo, ma erano un
po’ più chiari; nei suoi, con attenzione, si distingueva la
pupilla mentre in quelli del fratello no.
Non
poteva giurarci, ma pensava di vederci confusione, imbarazzo ed
emozione.
E
lui?
Come
si sentiva, invece, Jun?
Bene…
doveva ammetterlo almeno a sé stesso. Non aveva fatto niente, però
si sentiva bene in un gesto così sciocco e appena accennato.
Sostegno?
Era quello il nome appropriato di quella cosa?
Non
ne era sicuro, non aveva mai fatto in modo di doverne aver bisogno se
non davanti a Genzo, ma lui non lo toccava mai, non lo consolava, non
lo abbracciava e lui, di suo, non chiedeva nulla. Gli pareva forse di
fare dei capricci a dimostrare la propria debolezza, il proprio
malessere interiore e a chiedere del sostegno.
Ma
se gliene veniva dato di iniziativa altrui e lui non poteva far
altro che accettarlo, perché non bearsi anche dei benefici?
Si
sentiva stranissimo, anche se poi non era successo niente di che.
A
parte un ragazzo che l’aveva baciato.
-
Sei gay? - Il tono delicato, non voleva metterlo sulla difensiva.
-
Lo sono? - Gli chiese a sua volta confuso. Jun rimase spiazzato ma
fino ad un certo punto, come se in realtà si fosse aspettato una
cosa simile.
L’osservò
notando per la prima volta che indossava solo una canottiera intima e
dei pantaloni stretti. Si imbarazzò e ringraziò il buio che
mascherò il suo rossore!
-
Ti è piaciuto il bacio? - Fece allora Jun controllandosi con
maestria, con calma e quasi dolcezza, continuando a guardarlo negli
occhi neri confusi e stupiti. Gli faceva davvero tenerezza… cosa
doveva aver vissuto per essere così inesperto anche su cose talmente
semplici?
-
Sì… - Il proprio calore aumentò, ora oltre alle guance in
fiamme aveva anche le orecchie e benedisse il buio!
-
Lo rifaresti? - Però voleva anche saperle lui, quelle cose, oltre
che aiutarlo a comprenderle.
-
Sì e anche meglio! - Così gli apparve chiaro e semplice e per
assurdo ne fu addirittura contento. Anche se la tenne stretta a sé
questa strana gioia.
-
Allora lo sei. -
-
Ed è male? - Poi di nuovo questa sua confusione gli strinse il
cuore, ebbe l’istinto di carezzargli la guancia per
tranquillizzarlo anche se si sforzava di non agitarsi come uno
sciocco, ma si contenne come suo solito.
-
Dipende dai punti di vista… - Dando sempre risposte generiche
tentava di tastare il terreno prima di dire ciò che gli altri
volevano sentire e al contempo ciò che era meglio per sé stesso.
-
Dal tuo? - Però gli piacque che a Kojiro interessasse il suo parere
e basta. Una piccola scossa elettrica l’attraversò. Di solito
tutti volevano sapere il suo punto di vista, era normale, ma sapere
che anche quel selvatico Kojiro lo voleva, gli fece piacere in quel
momento.
-
No. - Ed era vero, essere maschi o femmine non contava, per amarsi,
purché i sentimenti che si esprimevano fossero sinceri. E
manifestazioni fisiche con gente dello stesso sesso erano solo affare
di chi le faceva, non certo di chicchessia!
Tanto
più che suo fratello andava spesso e volentieri con ragazzi, oltre
che con ragazze. Per non parlare del fatto che era chiaro fosse
innamorato di Schneider!
-
Ma lo sei anche tu? - Però glielo chiese a bruciapelo e non ebbe il
tempo di elaborare una risposta migliore della semplice e pura verità
così com’era.
-
No. - Del resto era proprio così. Lui stava anche con Yayoi e lo
sapevano tutti.
-
No? - Notò il suo stupore a caratteri cubitali e se ne dispiacque
capendo che doveva essere stato un equivoco
-
No. - Che non sapesse della sua relazione?
Forse
era lì da troppo poco tempo… non ebbe il tempo di sincerarsene e
dirglielo che vide il moro avvampare, irrigidirsi e quindi correre
via con uno scatto da medaglia d’oro.
Rimase
in un attimo solo come prima di iniziare a suonare, lui, il
pianoforte ed il buio. E dei ricordi insoliti, inaspettati, che
l’avevano scaldato sostituendosi a quelli cupi, dolorosi e crudeli
di sua madre.
Ne
era stato proprio strappato via. Dopo un dolore sordo che l’aveva
fatto addirittura piangere come un bambino, era riuscito addirittura
a stare bene.
Si
toccò spaesato le labbra con le dita e con lo sguardo perso nel
vuoto, gli parve di rivederlo, risentirlo, provando un incontrollato
ed imbarazzante desiderio che andasse oltre a quel breve contatto di
labbra.
A
quello però l’immagine di Yayoi gli sovvenne prepotente e
piegandosi sul pianoforte, appoggiò la fronte al legno freddo
chiudendo gli occhi.
In
realtà non doveva sentirsi in colpa, non aveva fatto niente di male.
Aveva
creduto Kojiro lo sapesse, lo sapevano tutti, tanto più che comunque
non gli aveva dato il tempo di dirglielo, di spiegargli, di reagire.
Nemmeno di accettare o respingerlo.
Aveva
fatto tutto lui.
Però…
però doveva essere sincero.
Anche
se era stato un equivoco di un istante che mai si sarebbe ripetuto,
gli era inspiegabilmente piaciuto.
Un
innocente ed insignificante fatto che, però, non avrebbe raccontato
a Yayoi.