CAPITOLO VI:
PUNTO
DI ROTTURA
Seduti
al tavolo.
Glielo
disse seduti al tavolo della mensa, come se niente fosse, in una
conversazione come tante altre.
Genzo
e la sua faccia tosta questa volta colpirono a fondo facendo
strabordare di netto il limite di Karl.
Un
limite che apparentemente sembrava nemmeno avere perché non reagiva
mai, non si seccava mai, non gridava mai.
Però
Genzo capiva sempre quando invece era seccato, arrabbiato ed
infastidito. Lo capiva anche se il ragazzo straniero non faceva
plateali ed evidenti scenate come soleva invece fare lui stesso.
E
sì che l’opportunità gliel’aveva comunque data, si disse Karl
ascoltandolo mentre si vantava di aver ‘svezzato’ -parole sue- il
nuovo arrivato.
Da
che erano entrati in mensa e si erano seduti insieme a mangiare, il
moro non aveva mai smesso di parlare di tale Kojiro Hyuga, il nuovo
ragazzo che poi si era anche iscritto nel club di lotta a fare boxe.
Aveva
detto di quanto detestabile fosse ma anche interessante sotto un
certo aspetto, declamando il suo talento latente per il pugilato-come
si era visto- e per quello che prometteva diventare un gran bel
corpo.
-
Comunque già ora non è male… ero curioso di vedere se uno
sbruffone come lui bravo a menar le mani fosse altrettanto bravo
anche a dar piacere agli altri! Sai, avevo la fissa che fosse un
verginello, tutto fumo e niente arrosto. Avevo ragione! -
Esordì
infine con un certo trionfo marcato sul bel viso ghignante.
A
Karl ovviamente non piacque. Né il discorso, né il modo in cui lo
fece, né l’espressione -seppure di sua fosse piuttosto eccitante
presa da sola.-
Inspirò
a fondo un paio di volte mentre continuava a faticare l’indifferenza.
Gli occhi azzurri puntati testardamente sul vassoio da cui mangiava
quel che gli sembravano mattoni.
Genzo
proseguì sempre più spaccone vantandosi alacremente di ciò che la
sera prima, negli spogliatoi della palestra, aveva fatto con Kojiro.
-
Mi sono divertito a svezzarlo un po’, nulla di speciale, sai, però
gli ho detto che ero disponibile per le altre lezioni… sai, anche
se lo prenderei a pugni dalla mattina alla sera è comunque
scopabile. Penso di poterci tirare fuori qualcosa di decente, sia per
quel che riguarda la boxe, che per il sesso! -
Karl
continuò a non dire niente e a guardare il proprio piatto ormai
quasi vuoto. Voleva solo sbrigarsi a finire e andarsene senza
mostrare alcuna debolezza, non voleva dargli a vedere che quel che
diceva per fargli avere una reazione in effetti lo toccava. Se avesse
lasciato il pranzo a metà l’avrebbe dimostrato eccome.
Eppure
rimanere lì ad ascoltarlo sapeva bene dove poteva condurlo.
Perché
non capiva?
Ma
cosa avesse davvero in testa, quello, per lui ormai era un mistero.
“Davvero
pensa che farmi reagire serva a qualcosa?”
-
Non dici niente? -
Chiese
a quel punto.
Karl
alzò finalmente i suoi occhi chiari così diversi da quelli della
massa e li puntò su quelli neri e magnetici di Genzo come se lo
calcolasse davvero solo in quel momento.
Esternamente
parve totalmente disinteressato dal discorso, in realtà non era vero
che non provava niente, era solo bravo a controllarsi e nascondere
tutto.
Genzo
lo sapeva, quel che non sapeva era ciò che provava e che, appunto,
nascondeva.
O
meglio era convinto di saperlo e quindi lo provocava in ogni modo
possibile proprio per tirarlo fuori, in realtà non era proprio fuori
strada ma c’era dell’altro: Karl voleva solo che crescesse e che
smettesse esattamente di fare ciò che insisteva tanto per fare.
Lo
sbruffone.
Bastava
solo che rispettasse gli altri esseri umani che lo circondavano,
invece che trattarli a suo piacimento per ottenere i propri
interessi.
Quel
suo modo di parlare delle persone lo rivoltava.
-
A proposito di cosa? - Come a dire che non c’era niente da
commentare. In realtà da dire ne avrebbe avute un paio ma era molto
meglio che se le tenesse per sé o l’avrebbe demolito a parole e
non si sarebbe più ripreso.
-
Che mi sono fatto Hyuga! - Rispose schietto incredulo all’idea che
davvero non gli importasse niente come appariva. Cercava di
penetrarlo con lo sguardo per andare in profondità, ma non arrivava
a scalfire la superficie, doveva dire che ormai ci arrivava sempre
meno, una volta gli veniva più facile e questo lo turbava alquanto.
Karl
alzò appena le spalle e bevve dell’acqua cercando disperatamente
la forza di calmare il proprio stato d’animo che definirlo alterato
era sminuirlo.
-
Affari tuoi. - Lo liquidò abilmente sperando che non insistesse più.
-
E non te ne frega niente davvero? -
Karl
ingoiò l’ultimo boccone a fatica, quasi gli andò di traverso ma
ce la fece, poi prese un respiro profondo d’insofferenza e
trapassandolo con due lame di ghiaccio, disse tagliente:
-
Dovrebbe? -
A
questo Genzo non ce la fece e buttando all’aria le sue carte di
quel gioco pericoloso, esplose alterato tendendosi verso di lui
rigido ed impassibile:
-
Certo che dovrebbe! Perché non lo ammetti che sei geloso? Fai di
tutto per mascherarlo ma io so che è così! - Karl si sentiva sempre
più male, come se lo colpissero con un pugno.
Come
diavolo faceva a leggergli così dentro?
Eppure
sapeva di essere una sfinge.
Quando
cominciava a credere che l’amico non lo capisse più tanto bene,
poi lo spiazzava riuscendo a scrutarlo a quel modo. Sapeva che era
per questo che ne era innamorato e che non riusciva a toglierselo
dalla testa e lasciarlo perdere, per questo il sentimento che provava
per lui c’era ed era sincero e non riusciva a bloccarlo
semplicemente come faceva con tutto il resto.
Perché
Genzo era davvero l’unico a capirlo, anche se non sempre, non su
tutto, non fino in fondo, comunque lo capiva quando nessuno arrivava
nemmeno a quel livello.
Però
non poteva liquidare tutto a quello!
‘Io
ti piaccio, tu mi piaci, mettiamoci insieme!’
Rimaneva
il fatto che tanti suoi atteggiamenti sbagliati non li sopportava e
non poteva passarci sopra, non ci riusciva. In tutti quegli anni che
lo conosceva ci aveva provato ma era arrivato ad un punto tale che
non poteva più far finta di nulla e aspettare che crescesse.
Il
limite ce l’aveva ed era esattamente quello.
-
Sei uno sbruffone troppo pieno di te. - Disse gelido domando a stento
il respiro, spaventato all’idea che potesse sentire come il cuore
galoppava vertiginosamente. Detestava litigare e trattarlo così ma
non conosceva altri modi efficaci con uno come lui. E comunque le
cose dolci e diplomatiche non erano nel proprio DNA!
-
Questo è vero ma non cambia che io ti piaccia! Ammettilo, una volta
per tutte, porca puttana! - Si stava alterando sempre più e
gesticolava inferocito, ancora poco ed avrebbe urlato davanti a
tutti.
Non
poteva dargliela vinta, non sarebbe stato giusto, non avrebbe mai
capito niente e mettendosi insieme rimanendo così com’erano si
sarebbero solo scannati entro il primo mese.
Lo
sapeva, per questo facendo violenza su sé stesso trovò la forza di
asserire con indifferenza apparente:
-
Ti avevo detto di non volerne più parlare. Tu non mi piaci. - E non
serviva dire che non glielo avrebbe più detto perché non gli
avrebbe nemmeno più parlato, in un disperato estremo tentativo di
farlo maturare una buona volta.
In
fondo era vero, che non gli piaceva. Non gli piacevano alcuni suoi
lati caratteriali che purtroppo erano eccessivamente accentuati e che
componevano gran parte di Genzo.
Non
poteva bastargli il fatto che lo capisse e che lo seducesse con un
solo sguardo.
Era
realista. Sapeva che non gli sarebbe bastato.
A
quello però Genzo non resistette e gridò come lui stesso aveva
immaginato di finire per fare:
-
QUANDO LO CAPIRAI CHE E’ COME DICO IO?! -
La
presunzione era il suo pane, ma in realtà questa volta non aveva
tutti i torti, solo che questo per Karl non era sufficiente, non
poteva.
C’era
molto di più della ragione o del torto che importavano in una
relazione. Molto più del ‘ci piacciamo, mettiamoci insieme’.
E
Genzo stesso doveva dimostrare quel ‘molto di più’.
Tutta
la mensa si ammutolì come poco prima aveva fatto per lo scoppio
inusuale di Ken Wakashimazu, quindi fissò il campione di boxe che
gridava contro quello di judo come fossero alieni.
Loro
che litigavano, per giunta davanti a tutti?
Non
era decisamente da loro!
Karl
in un perfetto silenzio decise che non valeva più la pena di
combattere e che comunque aveva esaurito le forze e la capacità di
mascherarsi.
Adesso
era ora che Genzo se la cavasse da solo.
Dunque
a quello si alzò e liquidandolo con ciò che gli rimaneva del suo
gelo, comunque sufficiente per demolire definitivamente il moro, se
ne andò con passo invariato e neutro.
Quello
che Genzo aveva da offrirgli così com’era non era sufficiente,
senza un minimo cambiamento non avrebbe mai funzionato. Ora non si
poteva che prenderne atto ed accettarlo.
Con
quel gesto Karl gettò la spugna.
Non
gli era mai capitato di tremare a quel modo. Solo una volta, in vita
sua, gli era successo.
Era
piccolo e la sua mente organizzata ed ordinata gli aveva conservato
nitidi tutti i ricordi specifici.
Ricordi
che comunque non tirava mai fuori dalla sua memoria, mai, in nessun
caso.
Quel
tremore in effetti non era proprio uguale ma simile. Quello del suo
attuale presente era più sopportabile ma gli dava ugualmente l’idea
che stesse per esplodere.
Erano
i suoi muscoli e le sue ossa a tremare ma perché le scosse venivano
da dentro, da un luogo che non conosceva.
Karl
spaventato all’idea di esplodere e di non riuscire più a domarsi
-ed il controllo per lui era tutto- andò nell’unico posto dove
riusciva a trovare pace, dove riusciva a sfogarsi e a ritrovare la
sua calma.
La
palestra del club di lotta.
Il
judo era la sua oasi.
Ci
andò consapevole che a quell’ora non avrebbe trovato nessuno,
troppo presto per gli allenamenti.
Doveva
raccogliere di nuovo le forze per poter vedere ancora Genzo, anche se
rigorosamente da lontano, e non esplodere.
Come
mise piede nella palestra ampia e spaziosa piena di tappeti, ring ed
attrezzi, vide in un angolo specifico, la zona di karate, un giovane
dai capelli lunghi fino a metà schiena, un ciuffo gli ricopriva
parte del viso serio e adombrato. Aveva le mani sprofondate nelle
tasche e stava dritto ed impettito come se stesse mentalmente
litigando con il tappeto.
Ad
uno sguardo più attento lo riconobbe, del resto in pochi di quelli
che seguivano le discipline di lotta non lo conoscevano almeno di
fama.
Ken
Wakashimazu era il campione di karate della categoria dei giovani. O
per lo meno lo era stato prima che si fratturasse una gamba e non
riuscisse a riprendere la propria forma originale.
Aveva
fatto scalpore il suo ritiro. Molti talent scout erano rimasti delusi
credendo che lui potesse essere il futuro del karate.
Così
non era stato.
Si
chiese cosa ci facesse lì e si disse che dopotutto nemmeno per lui
doveva essere stato facile mollare ciò che aveva tanto amato.
Non
avendo la forza né tanto meno la voglia di intromettersi, non
trovandone l’utilità, andò nello spogliatoio e si mise la divisa
da judo, quando uscì era solo, la palestra spaziosa tutta per sé ed
un sospiro di sollievo non fu trattenuto.
Senza
esitare, con ancora quel tremore interiore che si ripercuoteva in
modo imbarazzante all’esterno, si diresse nella zona della propria
disciplina e si inginocchiò sui talloni nella tipica posa da
meditazione giapponese. Gambe unite, schiena e testa dritte, mani
sulle cosce ed occhi chiusi.
Prese
un paio di respiri e si lasciò trasportare nell’unico stato che
gli permetteva di accumulare le energie sufficienti per mantenere il
controllo di sé e del proprio corpo in maniera maniacale.
La
pace sapeva ottenerla solo in quel modo, anche se sospettava
vagamente che ci dovesse essere dell’altro. Sperava solo un giorno
di riuscire a trovarlo, questo altro modo.
Passò
i primi minuti a cercare di escludere Genzo dalla sua mente, non fu
facile visto che il suo viso dalla bellezza tenebrosa affiorava
continuamente accompagnato da quelle espressioni sicure di sé che
gli rimandavano ondate di calore ogni volta. Per non parlare del suo
corpo. Gli ormoni in subbuglio li aveva come tutti e faticava a
domarsi, per questo ultimamente la sua sopportazione era arrivata al
limite.
Poi
però gli venne in mente lui mentre si faceva Hyuga e tutti gli altri
o le altre prima di lui per il puro gusto di tormentarlo ed
ingelosirlo. Gli tornò il male ed il tremore aumentò. Non sapeva
quale tortura era per lui ogni volta che lo sentiva vantarsi di aver
fatto sesso con chicchessia. Pensava solo a farlo reagire, a
scoprirlo, a fargli dire che era innamorato, non ragionava
minimamente sul fatto che se era innamorato come lui credeva, allora
quegli atteggiamenti volti al farlo ingelosire gli facevano
dannatamente male, lo distruggevano. Il non darlo a vedere non
contava niente, a Genzo non importava che Karl non dicesse che gli
piaceva, sapeva che era così, ma allora perché non arrivava pure al
fatto che anche se non diceva che era geloso e che gli faceva male
vederlo con gli altri in quel modo, era così lo stesso?
Questo
lo allontanava sempre più dal ragazzo a cui ormai aveva rinunciato.
Sembrava
che per lui contasse solo torturarlo per il suo personale piacere
macabro di trovare conferma alle assurde convinzioni che aveva. Non
pensava davvero al suo bene, era un sentimento egoistico quello di
Genzo, non vero amore.
Perché
pur di ottenere quello che voleva gli faceva consapevolmente e
deliberatamente del male e non male di quelli che possono tentare di
fare gli estranei. Si trattava del male che gli faceva l’unica
persona che per lui contasse qualcosa, l’unico che l’aveva almeno
un po’ capito, per lo meno più degli altri.
Col
volto più tormentato di quando era entrato, liberamente turbato
dalla consapevolezza di essere solo, sentì le porte della palestra
aprirsi e delle voci dargli conferma che qualcuno era entrato.
Prima
di aprire gli occhi attese di capire se si fossero accorti di lui e
se uscissero lasciandolo in pace, così senza volerlo capì chi
fossero e sentì cosa si stavano dicendo.
Evidentemente
non si erano accorti di lui.
Erano
Roberto e Tsubasa.
-
Ma Roberto, io non voglio lasciare il club! - Stava dicendo il
giovane allarmato.
-
Non ti sto dicendo questo. - Rispose invece più calmo ed indulgente
il più grande: - Solo che in effetti non hai più niente da imparare
da nessuna delle discipline. Non ho mai visto un talento simile in
qualcuno, hai imparato ad una velocità impressionante tutto quello
che serve da tutte le lotte che insegno. Più di questo, ad eccezione
delle gare, c‘è solo l‘insegnamento, ma non posso metterti a
farlo perché sei troppo giovane, sei uno studente. - Cercava di
fargli capire che non poteva continuare a rimanere fermo in un punto
per una paura sciocca e perfettamente superabile solo con un po’ di
volontà e di lavoro su sé stessi. Voleva solo che Tsubasa si
decidesse a fare il passo successivo e a diventare un vero campione a
tutti gli effetti ma ormai stava esaurendo le carte.
Tsubasa
esitò, poi riprese quasi terrorizzato ad un’idea tremenda, per
lui:
-
Io non voglio andarmene da questo club. E non posso andare contro me
stesso. Però voglio continuare a stare qui. - E dal modo in cui lo
disse e l’ostinazione, a Karl parve tanto un ‘voglio continuare a
stare con te’, ma si chiese -e non indagò- su che piano si potesse
collocare tale affermazione.
Ebbe
la netta impressione che stessero insieme ma non poté giurarci,
poteva anche essere che Tsubasa era segretamente innamorato del
maestro e non aveva il coraggio di dichiararsi per una serie infinita
di motivi comprensibili e che quello era l’unico modo che conosceva
per stargli più vicino che poteva.
Capì
comunque che sarebbe diventato imbarazzante in un caso o nell’altro,
così seccato ma comunque contenuto, aprì gli occhi e si alzò per
andarsene. In quello fu notato e vide Roberto senza i suoi famosi
occhiali scuri che lo guardava fermando Tsubasa dal proseguire il
discorso.
Non
mostrò inclinazioni particolari o allarmi, rimase impassibile come
al solito e con tono sostenuto disse:
-
Non ti avevo visto, scusa… non volevamo disturbarti. - Educato e
lontanamente scostante. Karl si strinse nelle spalle:
-
Non fa nulla. - Ma potendo scegliere non voleva andarsene.
Roberto
lo capì e serafico si rivolse a Tsubasa che pareva spaventato
all’idea che si fosse capito cosa avesse inteso con quel discorso.
Bè,
se per Roberto era impossibile dirlo, per lui era davvero facile e
Karl guardandolo in viso non ebbe più dubbi.
Quell’essere
anomalo era perdutamente innamorato del suo allenatore!
A
quello non poté evitare di chiedersi:
“E
Taro?”
Tutti
pensavano che lui e Tsubasa stessero insieme ma quello mandava tutto
all’aria. Non se ne interessò comunque oltre.
-
Tsubasa, per favore, ne riparliamo. Ora va. - Lo liquidò con
gentilezza ed un tono che usava solo con lui.
Il
ragazzo sussultò al contatto lieve con la sua mano sulla propria
spalla, poi volò via di corsa.
Una
volta soli, Karl si risistemò nella posizione di prima ignorando le
gambe anchilosate e prima di chiudere gli occhi spiegò:
-
Avevo bisogno di meditare. - Non che lo reputasse affare di qualcun
altro, ma comunque lui era Roberto.
-
Tutto bene? - Chiese avvicinandosi con passo felpato. Karl in quel
momento soppesò l’idea di essere schifosamente diretto oppure se
liquidare tutto con un semplicissimo ‘sì’.
Quando
si ritrovò l’uomo davanti a sé che lo guardava dall’alto con
quei suoi occhi verde bosco penetranti, si ritrovò a rispondere
prima ancora di aver scelto cosa dire:
-
Se glielo spiegassi cambierebbe per poter stare con me ma non è il
motivo giusto, non sarebbe un vero cambiamento ma solo una finta.
Deve cambiare perché è lui a volerlo, per sé stesso. Sarò
intransigente, ma non ha senso che qualcuno gli dica ciò di cui non
è convinto, perché la sua testardaggine è tale che mi direbbe che
ho ragione solo per farmi stare zitto; non è la ragione che voglio,
solo che lui cresca. -
Roberto
lo guardò intensamente come se capisse di cosa stava parlando poiché
l’aveva sempre saputo. Non era vero, era solo che anche se i suoi
ragazzi non gli dicevano niente -e comunque erano in molti a
confidarsi con lui- sapeva tutto di loro ugualmente perché quello
era il compito di un allenatore. Aver cura del suo gruppo.
Non
era una persona invadente od insistente, ma molto recettiva e acuta
che sapeva stare al suo posto ed intervenire nei tempi e nei modi
adeguati.
-
Devi accettare chi vuoi bene così com’è. - Disse serafico ma con
una piccola morbidezza nella voce, forse capiva che anche se si
sforzava di non mostrarlo, stava male.
-
Allora evidentemente non gliene voglio abbastanza, perché se
continuo a stargli vicino ora come ora, finisce che lo faccio a
pezzi. - E sentirglielo dire fece rabbrividire persino l’uomo
adulto che a quello si accucciò davanti al ragazzo composto e
fintamente inespressivo.
Lo
fissò dritto negli occhi azzurri, li fece suoi e dopo avergli letto
dentro nel modo che solo lui sapeva fare così completo ad
approfondito e non solo fino ad un certo livello come faceva Genzo,
disse serio:
-
E allora perché sei tu quello a pezzi, ora? - Karl non poté più
trattenere lo smarrimento e se lo concesse solo perché era solo con
lui. Con lui poteva, no?
Non
sapeva bene perché ma sentiva così. Forse per il giovane straniero
arrivare al limite e superarlo, un limite comunque fuori dal normale,
significava aggrapparsi e confidarsi con il primo che incontrava. O
forse Roberto era effettivamente degno della propria apertura.
Non
sapeva, ma si lasciò andare, anche se solamente con un‘espressione
stanca e sofferente. Quello comunque bastò all’altro che proseguì
pacato e penetrante al tempo stesso:
-
Non è che non ti interessa abbastanza perché non lo sopporti così
com’è. Ti interessa a tal punto che vuoi solo il suo bene e per te
il bene di una persona significa fargli smettere di compiere i suoi
errori. Ma purtroppo, come dici tu, solo se si capisce da soli perché
si sbaglia, poi ci si può modificare, altrimenti si rimane fermi lì
dove si è. Tu vuoi solo camminare con lui, ma lui oltre a volere la
stessa cosa deve anche indossare le scarpe giuste o si fermerà
subito. - Non era solitamente un uomo di molte parole se non quando
serviva.
Ora
serviva.
Che
si parlasse di Genzo era superfluo dirlo.
A
Karl vennero gli occhi lucidi e sospirando profondamente cercando di
evitare le lacrime davanti all’allenatore, si morse il labbro
dimostrando ulteriormente quanto questo discorso lo toccasse e quanto
fosse vero.
Ecco
tirate fuori tutte le sue motivazioni.
Roberto
gli toccò allora la spalla e strinse confortante, si avvicinò
appena e sempre senza staccare lo sguardo dal suo aggiunse:
-
Questo è un modo di amare molto difficile. È vero che tu non puoi
arrivare oltre ad un certo punto, ma puoi almeno indirizzarlo su
quali sono le scarpe giuste che deve indossare per poter starti
dietro. Poi la scelta finale spetterà a lui. -
“Ma
è oltre le mie forze… fuori dalla mia portata…” Pensò
confusamente Karl.
Era
un discorso comunque molto contorto chiaro solo a loro due, chiunque
avesse ascoltato non avrebbe capito nulla.
Però
il peso di Karl un po’ si sollevò. Appena appena.
E
chiusi gli occhi sentì l’allenatore allontanarsi lasciandolo solo
in quell’immensità vuota e desolata come gli pareva fosse la
propria anima.
Fu
allora che riuscì a meditare.
Questa
volta veramente.