IL MONDO CHE VORREI
CAPITOLO I:
INCONTRO SUL
PULMINO
/Cinderella
man - Eminem/
Come diavolo ci era
finito in quella situazione di merda?
A chiederselo
non riusciva a trovare risposta eppure non riusciva a pensare che a
quello.
Proprio una
gran situazione del cazzo!
Eppure quando
era cominciato tutto?
Non poteva
dirlo con esattezza, da che aveva ricordi era sempre stato l’inferno e
non è che fosse molto grande, ora. Aveva solo quattordici anni, in
fondo.
In effetti era
iniziato tutto con la sua dannata nascita. Lo pensava sempre, non
sarebbe dovuto venire al mondo, tutto lì; però c’era e non poteva certo
tornare indietro, cosa snervante, così come lo era non avere il
coraggio di farla finita per smettere di passare momenti terribili.
Però in un modo
o nell’altro ne era uscito, quella volta… o forse era solo finito dalla
padella alla brace!
Quando
l’assistente sociale si era decisa a fare qualcosa aveva pensato fosse
uno stupido scherzo, ma poi era stato effettivamente portato via dal
postaccio in cui era -certo, perché si rifiutava di chiamarla famiglia
adottiva o casa, un luogo del genere!- e l’avevano messo su quel
dannato pulmino diretto in un istituto.
Uno sciocco
istituto dove si dormiva, si mangiava, si studiava e si conoscevano un
sacco di altra gente… cosa che sicuramente non avrebbe mai fatto lui,
selvatico e pericoloso com’era. Se lo diceva da solo, era un animale
feroce cresciuto a suon di calci e pugni da perfetti sconosciuti, come
poteva essere venuto su bene?
Aveva imparato
solo la violenza e con quella lui comunicava col mondo.
L’istruzione
era stata un lusso che non si era potuto permettere così come degli
amici ed una normale vita sociale!
Sospirò… tanto
a quel punto qualunque posto sarebbe stato migliore di quello, è solo
che non aveva davvero idea di dove stesse andando.
Aveva
unicamente una serie di carte in mano. Una indicava il nome e
l’indirizzo del posto, un’altra era la lettera dell’assistente per il
direttore con conseguente dichiarazione d’ammissione. Poi c’erano tutti
i suoi documenti, l’atto di nascita, d’adozione e di separazione, o
qualunque nome avesse quella cosa che poi era successa.
Però avrebbero
almeno potuto accompagnarlo. Certo che se la sapeva cavare e che non
era più un bambino, ma in fondo lo stavano trasferendo!
Grattandosi a
disagio la nuca e passandosi nervoso più volte le mani fra i capelli
neri che gli coprivano selvaggi il collo, guardava sbuffando fuori dai
finestrini. Lo sguardo più infastidito e feroce che avesse mai avuto.
- E’ la prima
volta, vero? - Una voce distinta e gentile lo distrasse dai suoi
pensieri turbinanti e si girò di scatto verso il suo proprietario. Era
un giovane all’incirca grande come lui, si capiva perfettamente essere
un pesce fuor d’acqua. Uno così era ovvio viaggiasse sempre in auto,
accompagnato da qualcuno.
Era uno di
razza, lo capì al primo colpo e le iridi nere si assottigliarono
accusatorie.
- Che viaggi in
pulmino intendo… - Si affrettò a spiegare cordiale il ragazzo. - Per me
lo è. Non mi sento molto a mio agio, infatti. - Lo fissò ancora come
fosse una minaccia, scrutò a fondo i suoi lineamenti regolari, perfetti
e quasi delicati, la sua bellezza angelica ma con un che di supponente
e superiore, forse l’espressione che dietro quella gentilezza
nascondeva il suo rango di certo alto. Gli occhi però parevano sinceri.
Buoni davvero. Un castano caldo come i suoi capelli ordinati e corti,
con una morbida frangetta e nemmeno un filo fuori posto. Vestito
incredibilmente bene per essere su un pulmino pidocchioso.
Sì, quello era
ricco sfondato ed era finito per sbaglio in mezzo agli sfigati!
Ma
istintivamente gli piacque che si fosse messo in gioco per primo
notando la sua posizione ostile.
- Si nota! -
Grugnì distogliendo lo sguardo e tornando a fissare fuori, il paesaggio
scorreva come non lo aveva mai visto e ne sarebbe rimasto anche
affascinato se non fosse stato incattivito da tutto quel che aveva
vissuto. Non aveva mai potuto vedere cosa c’era fuori dalla catapecchia
in cui era stato rinchiuso, però ora che poteva non riusciva a
goderselo e non riusciva proprio a capirne il motivo.
- Che non sono
a mio agio? - Lo chiese con stupore e curiosità, come se non ci
credesse, infatti tornò a guardarlo e si affrettò addirittura a
specificare, seccato per doverlo fare e ancor di più perché lo stava
facendo anche se non gli importava:
- No, che non è
il tuo ambiente! - Mica quello dimostrava disagio…
Tornò a fissare
fuori intravedendo appena un’espressione indecifrabile simile al
compiacimento. Che ne poteva sapere lui di quel che passava per la
mente degli altri?
- Piacere, sono
Jun Misugi. - La voce dell’altro tornò gentile e caparbia, quindi
notando la mano tesa si voltò per l’ennesima volta e guardando il viso
sorridente e luminoso, ma allo stesso tempo con un che di adulto e
diverso, quasi triste -ma in fondo, molto in fondo agli occhi-, gli
prese la mano chiedendosi perché mai si dovesse fare un gesto tanto
idiota per conoscersi!
- Kojiro Hyuga!
- Grugnì ancora non sapendo che altro dire.
La sua mano era
liscia e morbida, ma anche sottile e fredda, al contrario della sua che
era più grande, rovinata e calda.
Quando si
sciolse ebbe l’impressione di avere davanti una persona sfuggente, con
un grande segreto dentro, proprio come lui. Ma fu solo un momento. Si
ricordò subito della loro abissale differenza: quello era qualcuno, lui
no.
- Allora, dove
vai? - Chiese per fare conversazione, capì che non lo faceva per
impicciarsi, ma solo per cortesia e cercare di metterlo a suo agio.
‘A farmi i
cazzi miei!’ avrebbe voluto rispondere, ma si limitò -e non capì
proprio come fu possibile visto che voleva solo passare in santa pace
il resto del viaggio- a dire la verità, seppure con monosillabi
ringhianti. Disse il nome dell’istituto, il Toho, e il giovane si
illuminò dando segno di conoscerlo e prima che se ne accorgesse, glielo
stava già chiedendo…
- Sai com’è? -
Certo non poteva essere che anche lui ci andasse, visto che sicuramente
una famiglia ce l’aveva ed anche benestante.
Lo chiese
guardandolo con una certa ansia, come se, nonostante non volesse farlo
vedere per nessun motivo, in realtà ci tenesse molto a sapere dove
diavolo stava finendo quella volta.
Jun con un
costante sorriso gentile che nascondeva qualcosa, questa volta non di
triste ma di indecifrabile e basta, rispose esauriente mostrando una
proprietà di linguaggio che non era per uno della sua età.
Era istruito ed
anche bene!
Kojiro si sentì
sempre più una merda, accanto a lui, ma era anche l’unico che l’aveva
calcolato e che era gentile.
- Certo. È un
buon istituto. Si trattengono per lo più persone che non hanno una
famiglia e che quindi non sono state adottate, solitamente sono lì di
transito ma capita anche che vengano perché sono impossibilitate a
stare a casa o per una opzione dei genitori. -
Sembrava
conoscerlo bene, quasi che ci fosse dentro anche lui, però fu un
pensiero così folle che Kojiro allontanò subito schernendosi. Figurarsi
se uno come quello poteva avere problemi di quel tipo!
- Gli
insegnanti sono competenti, così come gli assistenti. Alcuni studenti
sono un po’ pesanti, però sono gestibili. È un ottimo ambiente, vedrai
che ti troverai a tuo agio anche tu. - Previsione di chi non lo
conosceva affatto.
Al moretto
venne spontaneo ridere amaro, Jun si fermò dal discorrere e lo fissò
con curiosità alzando le sopracciglia in segno interrogativo. L’altro
smise e scosse la testa:
- Si vede che
non mi conosci! -
- Perché? -
- Perché sono
il piantagrane per eccellenza! Verrò cacciato dopo una settimana! -
Notò il suo tatto nel non chiedere come mai ci andasse, probabilmente
era chiaro come il sole che era un orfano la cui adozione era andata
male.
Si sentì però
profondamente osservato e riprese a fissare a disagio e infastidito
fuori dal finestrino.
- Magari
rimarrai stupito! - Disse allora Jun con tranquillità. Kojiro alzò un
sopracciglio scettico e puntò i suoi occhi neri affilati come quelli di
una tigre, su quelli da principe del giovane dai capelli castani che
continuò. - Non pensi che forse quello possa essere il tuo posto, prima
di prendere la tua strada da solo? - Lesse una specie di sfida fra le
righe, a lui piacevano le sfide e lo sguardo selvatico si illuminò con
fare accattivante:
- La mia vita è
solo un mare di merda, tutte le tappe in cui inciampo sono solo cessi
di scarico, tutto qui! - Una risposta oltre che maleducata e sgraziata,
davvero rivelatrice.
Con questo Jun
riuscì ad avere un quadro di Kojiro più completo di quel che
quest’ultimo avrebbe mai immaginato, ma si limitò a scoccargli uno di
quei suoi ormai famosi sguardi indecifrabili e a non fargli capire un
emerito nulla.
Tanto non lo
poteva convincere!
- Questa è la
nostra fermata… - Fece Jun scuotendo dai suoi pensieri testardi il
nuovo conoscente. Alla muta domanda scettica, rispose senza fargli
capire nulla più di prima: - Sì, scendo anche io qua. - Però non gli
aveva ancora detto dove diavolo andava lui, invece, e soprattutto se
veniva per caso -assurdo- al suo stesso istituto.
Quando si
alzarono in perfetto silenzio, Kojiro gli diede le spalle per prendere
il proprio ridicolo bagaglio; quando si girò, Jun Misugi era sparito.
“Poteva
anche aspettarmi, che cazzo!”
Ma prima che se
ne rendesse conto, il pensiero insolito l’aveva già avuto e anche se si
corresse subito, non servì a nulla visto che ormai l’aveva pensato.
“Ma
poi che diavolo me ne fotte!”
Più un auto
convincersi che un crederlo davvero.