A MODO MIO

/Piazza Grande - Lucio Dalla/

CAPITOLO PRIMO



Santi che pagano il mio pranzo non ce n'è 
sulle panchine in Piazza Grande, 
ma quando ho fame di mercanti come me qui non ce n'è. 

Dormo sull'erba e ho molti amici intorno a me, 
gli innamorati in Piazza Grande, 
dei loro guai dei loro amori tutto so, sbagliati e no. 

A modo mio avrei bisogno di carezze anch'io. 
A modo mio avrei bisogno di sognare anch'io. 



Era un azzurro così limpido e intenso che Frank avrebbe davvero voluto racchiuderlo in una scatola, per poi tirarlo fuori nelle giornate di pioggia, guardarlo e ricordarsi che esistevano ancora cose del genere. Un cielo tanto azzurro da far male agli occhi, un sole che accarezzava dolcemente i contorni delle case e dei palazzi, la musica che si alzava lenta e dolce nell’aria.
Era la musica che l’aveva così colpito inizialmente, spingendolo a svoltare in un quel vicolo stretto, seguendolo fino a che non si ritrovò in una piazza che ancora non aveva visitato. Era convinto di aver visto ogni angolo di quella città, la città che sarebbe stata la sua casa per un tempo indefinito, quello che gli ci si sarebbe voluto per stancarsi e trasferirsi da un’altra parte, probabilmente. 
E ora che finalmente aveva trovato quella piazzetta suggestiva, piena di palazzi d’epoca che si affacciavano in un grande spazzo, nel mezzo del quale capeggiava una fontana, si ritrovava a guardarsi attorno curioso, cercandone la provenienza. 
La piazza non era deserta, tutt’altro. Poteva sentire il chiacchiericcio dei ragazzi che si stendevano al sole, nello spiazzo erboso che circondava la fontana, il gorgoglio dell’acqua accompagnava il rumore delle risate e la musica faceva da sfondo a un quadro decisamente rilassante e piacevole. 
Non faceva per lui tutta quella quiete, tuttavia non poté fare a meno di pensare che forse invece era proprio quello di cui aveva bisogno, quello che cercava rifugiandosi così lontano da casa, dall’altra parte dell’America, in una città totalmente all’opposto di quella in cui era cresciuto. Se fosse stato un po’ più appassionato d’arte e di architettura probabilmente avrebbe adorato infilarsi in ogni anfratto, curiosando dentro ogni chiesa ed entrando in ogni palazzo. Non che non lo facesse ugualmente, ma a lui più che l’arte interessavano le persone. Qui ne aveva incontrate davvero poche, ancora, ma non poteva fare a meno di notare come il loro modo di vivere fosse diverso da quello a cui era abituato, come affrontavano gli stessi problemi con una mentalità totalmente differente. Era affascinante studiare le persone, Frank ci si era sempre perso dietro. Per quello gli interessava tanto capire chi stesse suonando. Si avvicinò lentamente al palazzo da cui gli sembrava provenisse il suono e lo vide. Era seduto sugli scalini di pietra, gambe incrociate, chitarra appoggiata con noncuranza sopra di esse, jeans e maglietta nera, logori e stracciati entrambi. Non fu certamente quello a colpirlo, tuttavia. I capelli neri scivolavano davanti agli occhi, in un onda scura che celava il viso, la testa chinata per seguire gli accordi. Un grosso cane, probabilmente un incrocio con un lupo e chissà che altro, alzò la testa non appena lo sentì arrivare, e fu in quel momento che il ragazzo alzò il viso. Non era la bellezza in sé; era il modo in cui lo sguardo si posò su di lui, quasi volesse divorare l’intera sua figura e poi arrivato alla carne volesse passare all’anima. Erano le labbra sottili ma piegate in un sorriso gentile e un po’ storto, era il naso da folletto che arricciò quando il sole gli finì contro gli occhi, era la pelle pallida che contrastava così magnificamente con il nero che lo circondava. Era il modo in cui iniziò a cantare quando lo vide. 
Iniziò lentamente, quasi sussurrando le parole, vivendole in un modo che non aveva mai sentito o visto, con tutto il viso, con tutto il corpo.

Adesso venga uno, vengano tutti, a questa tragica vicenda
strofinatevi il volto per eliminare il trucco, il peccato è risparmiare
quindi infilate in fretta quel vestito nero, mischiatevi alla folla
potreste svegliarvi e notare che siete qualcuno che in realtà non siete
se guardate nello specchio e non vi piace quel che vedete,
potrete trovare la nostra prima mano, quello che sembra essere me
quindi, signore, radunatevi e baciate questo addio e
incoraggiate quei sorrisi, e poi dividetevi, potrete volare


Era come se una mano gli stesse stritolando lo stomaco, era come se quel ragazzo avesse preso la sua fottuta vita, tutto quello che sentiva, tutto quello che provava di notte, stretto nel suo letto aspettando la pace che solo il sonno poteva dargli, e glielo stesse gettando addosso. 

Un'altra contusione, la traccia audio del mio funerale, ha la mia dimissione
un'immensa mancanza, voi avete conservato delle file di sedie frontali
a quei penitenti, quando cresco non voglio essere proprio niente.

Non conosceva le parole o la melodia, ed era effettivamente stranissimo considerato tutto, ma in quel momento non ci fece caso. Era occupato a farsi trascinare via dalla voce alta e pulita, che scendeva di tono per diventare un gemito suggestivo e poi si alzava, sottolineando parole e dando profondità alla canzone. 


Si, si si, ho detto si, avanti
metti la tua mano nella mia, dimmi che tu, dimmi che un giorno,
se riesci a sentirmi, semplicemente camminerai via.

Quando cominciò quello che doveva essere il ritornello, crebbe di tono, diventando alta e intensa, quasi gridando, facendogli venire l’assurda voglia di correre da lui e farlo, afferrargli la mano e semplicemente urlare, piangere, ridere, lasciare andare tutto. 
Rimase immobile quando la melodia finì e il ragazzo posò la mano sulle corde, fermando la loro vibrazione e limitandosi a guardarlo. 
Fu il cane che ruppe quello strano intreccio di sguardi, correndo verso Frank scodinzolando allegro, guardandolo con occhioni speranzosi. 
Frank si riscosse e passò una mano sul pelo morbido, sorridendo quando l’animale posò le sue zampe sul suo petto, letteralmente saltandogli addosso per avere più coccole. 
Quando alzò lo sguardo sul ragazzo, si accorse che stava sorridendo. Era un sorriso che gli illuminava gli occhi, riempiendo le guance tonde di fossette e storcendo lievemente la bocca. Non riuscì a non trovarlo dannatamente adorabile. 
-Come si chiama?- chiese Frank, avvicinandosi al ragazzo e sedendosi al suo fianco. Non aveva niente da fare dopo tutto, in più per sua stessa ammissione gli piacevano le persone, quindi perché no?
Il ragazzo alzò le spalle, ancora col sorriso sulle labbra.
-Non so, non sono mai riuscito a deciderlo, così ogni giorno lo chiamo in modo diverso, cercando di capire quale nome gli piace di più.- 
Frank alzò un sopracciglio, questo era il discorso più strano e ridicolo che avesse mai sentito. 
-Sai che è una cosa assurda vero?- lo informò ad ogni buon conto, sia mai che il ragazzo ritenesse normale fare una cosa del genere.
L’aveva detto con una tale tranquillità che pareva pensarlo. 
L’altro si mise a ridere, guardando il cane e accarezzandogli la testa.
-Tranquillo ne sono consapevole.- rispose, guardandolo poi di sottecchi, gli occhi verdi appena visibili da sotto la cortina di capelli nerissimi. 
-Devo chiamare anche te con un nome diverso ogni giorno?- aggiunse poi, sorridendo come se il pensiero in realtà lo divertisse enormemente. Frank restituì il sorriso, ritrovandosi a rilassarsi davvero per la prima volta da che il suo viaggio era partito. 
-No, sono Frank.- lo informò, osservando incantato il movimento delle mani pallide e sottili del ragazzo, come si mossero veloci e aggraziate ad aggiustare una ciocca vagabonda dietro l’orecchio, spostando poi l’attenzione all’espressione felice che assunse il suo viso quando fu a conoscenza del suo nome.
-Sono felice che alla fine tu abbia deciso di dirmelo, sai. È divertente quel gioco ma non funziona così bene con gli esseri umani. Sono Gerard comunque- commentò il ragazzo, posando con attenzione la chitarra fra loro e allungandosi un po’ al sole. 
-Stai insinuando che io sono meno intelligente di un cane?- osservò Frank, un sorrisetto divertito in volto. Era consapevole che quel dialogo era vagamente surreale, non tanto per il contenuto in sé, quanto più per le modalità del loro incontro e la tranquillità con cui si erano messi a parlare. Ma, invece di spaventarlo, tutto questo gli dava un vago senso di calore. 
Gerard rise di nuovo, sembrava che il suo viso fosse fatto per quello. Quando cantava era espressivo e faceva venire i brividi per le cose che riuscivi a immaginare solo guardandolo in faccia, ma quando rideva era come se tutto il suo viso si accendesse di una luce che veniva da dentro, come accendere una candela dentro una casa fatta di vetro colorato. 
-No non tu, gli esseri umani in generale…- commentò, fiero della soluzione che aveva trovato.
-Quindi io sarei meno intelligente di un cane non in quanto io ma in quanto appartenente alla razza umana?- si accertò Frank, fece una piccola pausa d’effetto, poi si stese sui gradini dietro di sé, come aveva fatto Gerard. 
-Non so se questo dovrebbe consolarmi o cosa. Suppongo che tu sia salvo dal fatto che io amo fottutamente i cani- terminò, allungando una mano per accarezzare l’animale come a sottolineare le sue parole.
-Sono onorato di essere scampato a morte dolorosamente dolorosa allora. Comunque oggi si chiama Anakin- replicò Gerard, ridendo apertamente quando Frank rotolò sul fianco per osservare la pancia del cane e poi lo guardò scandalizzato.
-Ma è una femmina!- esclamò, allargando le braccia per sottolineare il concetto.
-Tu sei troppo legato alle forme e alle convenzioni umane, giovane Padawan- rispose Gerard, sventolando una mano per ribadire come fosse senza importanza quello che aveva detto l’altro.
Frank ci rinunciò. 
-Ti piace Star Wars- commentò, sperando finalmente di poter avere una conversazione che fosse in grado di seguire senza che gli venisse il mal di testa.
Vide lo sguardo di Gerard illuminarsi e sorrise internamente. 
Dopo mezz’ora in cui il ragazzo aveva parlato ininterrottamente della Saga Cult Per Eccellenza E Chi Non L’aveva Vista Era Uno Sfigato, Frank aveva imparato tre cose su Gerard. 
La prima era che quel ragazzo era davvero logorroico, quando cominciava a parlare di qualcosa che gli piaceva poteva continuare ad oltranza. 
La seconda era che in ogni caso tentare di dare un senso logico ai suoi discorsi era davvero pura fantascienza.
La terza era che avrebbe ucciso pur di continuare a vedere il suo sguardo illuminarsi in quel modo, l’espressione così entusiasta e il sorriso così ampio e sincero.
-Vivi qui?- domando Frank, approfittando di una pausa sorprendentemente lunga in cui Gerard si stava accendendo una sigaretta. 
Lui annuì, osservando con sguardo vago e affettuoso la piazza, gli studenti che affollavano ancora il luogo, alcuni si tenevano per mano, altri approfittavano degli angoli bui per fare molto più che tenersi per mano. 
-Ormai sono loro i miei amici- disse all’improvviso, rompendo un silenzio che si protraeva da alcuni minuti.
-Li conosco uno per uno, li vedo sempre. A volte si siedono vicino a me e cantiamo assieme, o dipingo per loro qualunque cosa mi chiedano. Ho perso il conto di quanti compiti d’arte ho fatto.-
Rise, seguito da Frank. C’era qualcosa di magico in lui, con il suo entusiasmo quasi infantile e la profondità che dimostrava quando cantava. 
-Ma davvero vivi qui? Voglio dire…- si interruppe, incerto a proposito delle parole da usare per non essere indelicato. Lui non era bravo con le parole, nella sua mente filava sempre tutto liscio ma poi, puntualmente, quando parlava faceva ogni volta qualche disastro, finendo per attorcigliarle e farle sembrare orribili. 
Gerard lo salvò.
-Se sono una specie di barbone?- chiese, divertito. Frank annuì, imbarazzato. 
-Non devi aver paura di dire le cose Frank.- si strinse nelle spalle, non sembrava offeso ad ogni modo. 
-So che non vuoi offendermi. Sentiti libero di parlare come credi con me, davvero. Odio quando la gente prende mille giri di parole per dire una cosa così semplice.-
Frank si mise a sedere, accendendosi una sigaretta e afferrando la chitarra vicino a lui. 
-Quindi sei un fottuto barbone o no cazzo?- disse allora, ghignando quando Gerard scoppiò a ridere, senza riprendersi la chitarra, limitandosi a osservarlo curioso.
-Si potrebbe dire così, sì.- rispose poi, sibilino.
-E in che altro modo si potrebbe dire?- chiese ancora Frank, cominciando ad arpeggiare delicatamente note a caso.
-In realtà ho una specie di appartamento. Un monolocale. Ok una stanza. Ma mi limito a usarla quando le notti sono troppo fredde, piove o fa freddo. La maggior parte del tempo la passo qui.- accennò con il mento la custodia della chitarra aperta ai suoi piedi, con alcuni spiccioli gettati dentro. 
-E arrivi a comprarti da mangiare e pagare l’affitto?- chiese, scettico. Sapeva che era quantomeno scortese riempirlo così di domande, per quanto Gerard non si mostrasse seccato o infastidito. Ma non riusciva a fermarsi. Era così distante dal modo che aveva lui di vivere, sembrava così dannatamente libero da tutto, sereno, perfino felice della vita che conduceva. Non riusciva a ricordare l’ultima volta che si era sentito in questo modo.
-Non sempre- rispose Gerard, alzando le spalle. 
-Alcune volte faccio qualche lavoretto qui e la, sono bravo a sistemare le cose, decoro case, cose così. Una volta una tipa un po’ sciroccata mi ha pagato una follia per affrescarle tutta la casa. È stata la cosa più bella che io abbia mai fatto, penso che quella casa sia stato il mio capolavoro.- 
Si perse a descrivergli minuziosamente tutte le pareti della casa, i colori che aveva usato, la differenza tra una pittura a muro e un affresco, l’effetto finale. Frank si perdeva nelle sue parole, nell’entusiasmo che aveva mentre gliene parlava e nel modo in cui gesticolava per sottolineare i concetti e accompagnare le descrizioni. Sarebbe rimasto ad ascoltarlo in eterno.
-È come se tutto questo fosse una risposta a tutto quello che ho sempre implorato nei momenti peggiori della mia vita. So che è strano, ma ho imparato che la felicità si nasconde nei posti più impensati- 
Gerard sorrise, abbassando la testa e continuando a parlare piano, sottovoce, quasi gli stesse confidando un segreto. 
-Non nego che a volte mi manca la mia vecchia vita. Mi mancano le puttanate di mio fratello, le uscite con gli amici, non dovermi preoccupare ossessivamente delle condizioni atmosferiche.- rise leggermente, seguito da Frank, che ascoltava attentamente. 
-La cosa che mi manca di più sono le carezze di mia madre. Sai quando hai avuto una giornata di merda e non parli con nessuno, convinto che tanto nessuno ti capirà e tutta questa roba da adolescenti emo?- aspettò che Frank annuisse prima di continuare. Oh se lo sapeva bene. 
-E poi tua madre entra in camera e ti accarezza. Fa solo questo, ma tu capisci che non è vero che sei solo, che non sei riuscito ad ingannarla nemmeno per un istante e che, a modo tuo, avevi un dannato bisogno di quella carezza.- Frank distolse lo sguardo, deglutendo a fatica. Sembrava che Gerard sapesse esattamente cosa stava provando, perché era così lontano da casa, che cosa stava domandando alla vita. Sembrava che stesse cercando di rispondergli, a modo suo. 
Il ragazzo allungò una mano, posandola sulla sua nuca. Frank sobbalzò, non se l’aspettava. La pelle era fresca e il contatto così rassicurante e benefico che avrebbe voluto mettersi a piangere. 
-Tutti, a modo loro, hanno bisogno di quella carezza. Tutti hanno bisogno di sognare un po’. Si tratta solo di capire dove si nasconde quel sogno. Si tratta solo di trovare quella carezza.- 
Frank si morse il labbro. Perché faceva così dannatamente male?
La mano continuava a massaggiargli la nuca ed era l’unica cosa che riusciva a impedirgli di piangere.
-E quando hai trovato entrambi?- sussurrò. 
La risposta arrivò immediata:
-Saresti un pazzo a lasciarteli scappare.-


CAPITOLO SECONDO


Una famiglia vera e propria non ce l'ho 
e la mia casa è Piazza Grande, 
a chi mi crede prendo amore e amore do, quanto ne ho. 

Con me di donne generose non ce n'è, 
rubo l'amore in Piazza Grande, 
e meno male che briganti come me qui non ce n'è. 

A modo mio avrei bisogno di carezze anch'io. 
Avrei bisogno di pregare Dio. 
Ma la mia vita non la cambierò mai mai, 
a modo mio quel che sono l'ho voluto io 

Era stata una settimana strana per Frank. Aveva passato tutti i giorni, ogni ora disponibile, e dato che era tecnicamente in vacanza erano decisamente molte, con Gerard. Era strano come stare con lui azzerasse tutte le sue preoccupazioni. C’erano, erano sempre lì in una parte della sua testa, ma guardarlo dipingere, sentirlo cantare, riduceva tutto a non più che a grandezza naturale. Quando stava con lui, semplicemente vicino a lui parlando di tutto quello che passava nelle loro teste, sembrava tutto così fottutamentestupido.  
Affrontabile. 
I momenti che preferiva erano quando lui suonava la chitarra e Gerard cantava. Frank adorava suonare, lo faceva fin da quando era piccolino e suo padre gli aveva messo una chitarra fra le mani. Era la sua vita si potrebbe dire, e parte del motivo per cui aveva intrapreso quel viaggio attraverso l’America. Quindi lui suonava, e lo faceva decisamente meglio di Gerard, e l’amico cantava. Ecco, era precisamente quello il momento in cui si sentiva in grado di prendere in mano la sua vita e spaccare il mondo. Quando Gerard seguiva la melodia che lui sentiva in testa e tirava fuori frasi, parole, concetti, che gli si incuneavano dentro con la potenza di un colpo di pistola.
Nessuno dei due aveva parlato chiaramente del motivo per cui erano in quella città, in quella piazza. Del motivo che aveva spinto Gerard a lasciare tutto e vivere così e del motivo che spingeva Frank da lui. 
Forse perché Frank sentiva che quello sarebbe stato portare il loro rapporto a un livello superiore, qualcosa che non era sicuro di volere. Gerard era la persona più dannatamente libera che avesse mai incontrato, non si legava a nessuno, nessun luogo avrebbe potuto contenerlo. 
Era il vento e per quanto afferrarlo fra le mani potesse essere la cosa più bella della sua vita, Frank era cosciente del fatto che sarebbe potuta essere anche la più dolorosa. 
Tuttavia era innegabile che in quel momento fosse l’unica persona che avrebbe voluto avere vicino, l’unica persona che, lentamente, gli stava mostrando una via che lui avrebbe potuto percorrere. 
Era grazie alla tranquillità che gli aveva finalmente donato Gerard che quel pomeriggio non era andato alla solita piazza, decidendo invece di chiamare sua madre. Non la chiamava da settimane ed era consapevole che era stato una merda ad andarsene in questo modo, anche se in realtà sentiva di non avere alternative. 
Per questo quando si diresse verso la piazza era piuttosto tardi, quasi notte in effetti. Si chiese se oggi Gerard avesse mangiato, perché lui di solito era così preso da quello che stava facendo da dimenticarsene. Era sempre lui che lo trascinava verso qualche chiosco di hot dog o lo convinceva a farsi offrire una pizza. Spesso aveva il dubbio che dicesse di non avere fame perché in realtà quel giorno non aveva raccolto abbastanza soldi; allora si alzava sbuffando, andava a comprare qualcosa e glielo porgeva insultandolo. Il sorriso che Gerard gli rivolgeva come ringraziamento lo faceva immancabilmente aggrovigliare dentro. Questo amava di lui. Era orgoglioso e non avrebbe mai chiesto aiuto, ma quando glielo porgevi lo accettava con un sorriso grato. Era qualcosa che lui faceva una dannata fatica a fare, accettare l’aiuto gratuito della gente, e prima di incontrare Gerard era seriamente convinto che farcela da soli era l’unico modo per essere poi soddisfatti del risultato. Ora non ne era più così sicuro. Forse non era una questione di farcela da soli, ma di sapere quali erano i propri limiti e cercare di superarli con tutto l’aiuto possibile. 
Affrettò il passo. Benché fosse primavera inoltrata quella mattina aveva piovuto e la temperatura si era decisamente rinfrescata, quello stupido era capace di estraniarsi del tutto e restare lì fino a notte inoltrata, ammalandosi. Non voleva che si ammalasse, significherebbe non vederlo più. Andare a casa sua non aveva lo stesso valore apparentemente casuale che aveva quello di piombare nella sua piazza. Dopotutto non era davvero sua, era suolo pubblico.
Quando svoltò l’angolo aggrottò la fronte vedendo che non era nel solito posto. Strano. In una settimana di stretta frequentazione non l’aveva mai visto in posti diversi, se non quando ce lo trascinava lui. Però in realtà le sue cose erano lì. In effetti quella mattina avevano fatto colazione assieme e Frank l’aveva aiutato a montare il cavalletto e disporre le sue tele, che erano esattamente nella stessa posizione.
Si avvicinò ai gradini e dovette puntellarsi sui piedi abbastanza forte per non cadere sotto l’assalto nel cane di Gerard. 
-Scarlet!- esclamò dopo un momento, quello che gli ci volle per ricordare il nome che quel giorno Gerard le aveva dato. 
Il cane però non sembrava in procinto di fargli le feste, tutt’altro. Era nervoso ed agitato e continuava ad abbaiare. Fu allora che si preoccupò. 
-Dov’è Gerard, Scarlet?- il cane guaì al nome del padrone, girando in tondo sul posto e guardandolo ansiosa. 
-Portami da lui, bella, andiamo.- 
Scarlet abbaiò ancora, voltandosi e sfrecciando dalla parte opposta. 
Lo trovò sotto i portici, nascosto in un angolo, le gambe rannicchiate al petto e la testa chinata. Si precipitò verso di lui, inginocchiandosi di fronte e cercando di capire cosa fosse successo, se potesse toccarlo o cosa. 
-Gerard- chiamò piano, senza ottenere risposta.
-Gee, andiamo… cazzo amico, mi stai spaventando.- insistette, scuotendolo delicatamente. Ancora nessuna risposta. Si decise ad alzargli il viso per valutare effettivamente cosa poteva fare, scostò i capelli dalla fronte e con l’altra mano gli alzò il mento. Cazzo era una fottuta maschera di sangue. 
Emise un suono soffocato, per un attimo il panico si impadronì di lui. Cazzo sapeva che doveva succedere prima o poi. Dei bastardi, stronzi, figli di puttana l’avevano ridotto piuttosto male. Il sangue usciva da un taglio sul sopracciglio e dal naso, un occhio si stava chiudendo e il labbro era spaccato. Porca puttana a trovarli li avrebbe uccisi. 
-Frankie?- lo raggiunse un sussurro, strappandolo dai suoi pensieri di morte. Non riuscì a trattenere un sospiro di sollievo. 
-Gee, ce la fai ad alzarti? Quegli stronzi potrebbero tornare…- sibilò, strisciando accanto a lui e abbassandosi ulteriormente per essere alla sua altezza.
Gerard annuì con una smorfia, cogliendo il suggerimento e passandogli un braccio dietro le spalle. Si strinse a lui quasi spasmodicamente quando Frank si alzò. Gemette stringendosi lo stomaco col braccio libero e Frank non imprecava come un maledetto marinaio solamente perché Gerard tremava, stretto a lui, e non voleva spaventarlo. 
-Abiti lontano?- chiese delicatamente, lanciando un occhiata rassicurante a Scarlet che li guardava inquieta. 
Gerard scosse la testa facendo un cenno verso sinistra e Frank si incamminò. 
Non era davvero preparato al calore che lo avvolse camminando con Gerard stretto al suo fianco. Era una cosa che aveva provato raramente nella sua vita, e mai così forte. La consapevolezza che c’era qualcuno che si fidava ciecamente di lui, che sarebbe andato ovunque lui l’avrebbe condotto senza fare domande, semplicemente perché sapeva che l’unico desiderio di Frank era farlo star bene, e non l’aveva mai deluso.
Era intossicante. 
-Eccoci- sussurrò Gerard, si reggeva su di lui sempre di più, camminare doveva essere diventato un vero supplizio ormai. 
Il quartiere non era decisamente dei migliori e il palazzo era fatiscente e vecchio. Almeno non c’era nessuno intorno, anche se dubitava che in un quartiere del genere qualcuno si prendesse la briga di fare domande. 
Le scale erano decisamente cadenti e Frank aveva il terrore che Gerard gli capitombolasse giù da un momento all’altro, costringendolo così a portarlo in ospedale nonostante le sicure proteste. 
-All’ultimo fottutissimo piano, cazzo- borbottò Frank, lanciando un occhiata ad un sempre più affaticato Gerard.
-Tu ti lamenti- borbottò quest’ultimo, lasciando poi andare un piccolo gemito di dolore.
Frank lo strinse più forte, rendendosi poi conto che forse non era la cosa migliore da fare, non sapeva dove quei bastardi l’avevano colpito, per quel che ne sapeva lui potevano pure avergli incrinato una costola. 
-Scusa- mormorò, mordendosi il labbro e lasciando un po’ la presa.
-Cosa?- chiese Gerard, aggrottando le sopracciglia, osservando per un attimo il braccio che Frank aveva lasciato scivolare via. 
-Ti sto facendo male, io…-
Non riuscì a finire la frase, Gerard si appoggiò a lui nuovamente con un sospiro morbido, mentre armeggiava per aprire la porta.
-Non dire cazzate Frank. Ti sembro il tipo che si fa scrupoli a lamentarsi?- chiese con un sorriso che si tramutò poi in una smorfia alla fitta di dolore che doveva avergli rimandato il labbro spaccato.
-Sì- rispose Frank, sincero e diretto come sempre. 
-Mi sembri il tipo che si lamenta per le cazzate e non fiata sulle cose importanti- concluse, guadagnandosi un debole pugno di protesta da Gerard.
-Non dovresti essere tutto carino e curarmi dal mio dolore micidiale? Pensa se un pezzo di costola si è staccata ed è finita nel sangue raggiungendolo e uccidendomi. Ti pentiresti di sicuro di avermi parlato così!- borbottò, ostentando un cipiglio offeso e decisamente adorabile. 
Oh Dio, se Frank riusciva a trovarlo adorabile anche con la faccia devastata e piena di sangue la situazione era decisamente grave. 
Cazzo.
-Un pezzo di costola Gerard? Non ti sembra un tantino inverosimile?- 
Rispose sarcastico, cercando di trattenere le risate. 
-Ridi ridi. Riderò io dall’aldilà quando tu piangerai disperato perché le ultime parole che mi hai rivolto erano insulti- rispose altezzoso il ragazzo, trascinando Frank verso il divano e sedendosi sopra con attenzione. 
-Sai che ti stai portando una sfiga colossale da solo vero? Ti stai toccando?- 
-È una proposta?- ritrose Gerard, punzecchiandogli il fianco col dito. Frank si contorse, ridendo e arrossendo allo stesso tempo.
Beh volendo. 
-Mi appello al quinto emendamento- rise Frank alzando le mani. Gerard doveva stare decisamente meglio adesso per scherzare così con lui, anche se era ancora pallido e ogni tanto si lasciava sfuggire una smorfia o un piccolo mugolio di dolore. 
-Fammi vedere bene- mormorò poi, smettendo di ridere e alzando delicatamente i capelli dalla fronte di Gerard. Scarlet si era accoccolata ai loro piedi e ora sembrava che anche lei stesse trattenendo il respiro. 
Non era la prima volta che toccava Gerard. Aveva perso il conto di tutte le volte in cui si erano stretti per ripararsi dal fresco della sera, o camminato così vicini da confondere i passi dell’altro. Però ora era diverso, c’era una consapevolezza che bruciava l’aria attorno a loro e li spingeva a trattenere il respiro. Non poteva ritirarsi, sarebbe stato imbarazzante e ancora più strano. E poi non voleva. 
Era da tempo immemore che non si sentiva così, con quest’euforia e questo terrore dentro, emozioni così forti e violente da togliergli il fiato. Aveva inseguito queste sensazioni per tutta l’America, viaggiando senza tregua, cercando qualcosa che avrebbe potuto risvegliarlo dal suo torpore, indicargli la via da seguire, fargli capire cosa voleva davvero. 
Ora l’unica cosa che voleva era continuare a sfiorare il viso di Gerard; la fronte, piano; scivolare lungo la tempia, saggiare la morbidezza della guancia; perdersi sulle labbra screpolate, premendo appena il pollice, solo per sentire la sensazione che davano sotto le dita. Evitò il taglio, sfiorandolo con una leggerezza che non credeva di possedere e si arenò sull’angolo della bocca, alzando finalmente lo sguardo.
Gli occhi di Gerard stavano bruciando la pelle pallida del viso, una fiamma di un verde impressionante. Si incatenarono ai suoi e finalmente il mondo acquistò un senso. Gli sembrava che l’unico modo per essere felice fosse stare lì in eterno, immobile a guardarlo e a farsi travolgere da tutto quello che provava per Gerard. 
-Frankie- sussurrò lui, le labbra si mossero sotto la pelle delle sue dita, facendolo rabbrividire. Le immaginava sul suo corpo, trascinarsi sul torace per divorare la strada verso le sue cosce. 
Si morse le labbra, costringendosi a staccare le dita e distogliere lo sguardo. Non era giusto, non in questo momento, non quando Gerard era ridotto in quel modo.
-Non hai nulla per medicarti?- chiese a fatica, il cuore era partito per vincere la gara di Formula uno che stava ingaggiando col suo respiro. Chissà se si poteva morire d’infarto a ventidue anni. 
-Forse qualcosa in bagno- mormorò Gerard, con un tono… deluso?
Represse il desiderio di guardarlo per sincerarsene e si alzò dal divano.
Prese un grosso respiro cercando di calmarsi e finalmente si guardò attorno. Come immaginava era un’unica stanza che conteneva la cucina, un divano minuscolo dove si erano seduti loro, e un letto dalla parte opposta. Era piccola e le pareti erano scrostate, però erano piene di tele e disegni, un universo di pazzi colori, violenti e luminosi, intervallati da altri più cupi, scuri e macabri. Immaginava che in quei disegni doveva esserci tutto il mondo di Gerard e che fermarsi a guardarli doveva voler dire perdersi inevitabilmente in lui e in quello che sentiva e provava, in quello che aveva passato e che amava.
Era così dannatamente facile perdersi in Gerard. 
Il bagno era decisamente meno pittoresco, piccolo e sporco. Trovò una cassetta rossa malandata e si affrettò a tornare da Gerard. 
Non aveva cambiato posizione da quando si era alzato, aveva solo appoggiato la testa sullo schienale e chiuso gli occhi. Sembrava sfinito. 
Si sedette nuovamente accanto a lui e si armò di cotone e acqua ossigenata. Pulì le sue ferite in silenzio e delicatamente. Gerard non si mosse di un millimetro nemmeno quando il cotone passò sulle ferite e doveva bruciare parecchio dalle smorfie che faceva. Era come se riponesse una fiducia sconfinata in lui, come se sapesse, con istinto infallibile, che non gli avrebbe mai fatto del male se non fosse stato strettamente necessario. 
Era totalmente destabilizzante, totalmente distruttivo. Lo guardava e aveva solo voglia di baciarlo fino a divorargli il viso, graffiargli la pelle per incidergli tutto il devastante desiderio che provava e poi baciare i segni che avrebbe lasciato per dimostrargli la devozione che gli portava.
Gli sembrava di poter impazzire. 
-Va tutto bene- sussurrò Gerard, facendo sussultare Frank.
-Non è vero- rispose Frank, impotente. Avrebbe voluto essere lì per proteggerlo, per prendere a calci quei bastardi e impedire che riducessero così Gerard. Avrebbe voluto cancellarli dalla faccia della terra.
-Se fossi stato lì…- cominciò, subito interrotto da Gerard. Non aveva ancora aperto gli occhi.
-Non sarebbe cambiato nulla. Erano in cinque Frank. Scarlet ne ha messo uno fuori gioco e teneva l’altro occupato, ma ne restavano sempre tre. Non avresti potuto fare nulla, avrebbero pestato anche te e poi sarebbe stato peggio perché nessuno ci avrebbe curato.- finì scherzando e quando aprì gli occhi Frank vide la gratitudine che provava e qualcos’altro che ebbe paura di identificare. 
-Io vorrei andare lì e ucciderli Gerard. Ucciderli davvero. Non so come fai a stare qui tranquillo e rassicurare me quando sono io che dovrei rassicurare te- disse veemente, stringendo il cotone e gettandolo dall’altra parte della stanza.
-È solo che ho trovato il mio modo di vedere le cose Frank. Penso che il segreto sia tutto lì. È come vedere il mondo attraverso un fondo di bottiglia o vederlo attraverso un prisma. Hai mai provato a vedere attraverso uno di quei cristalli?- Frank scosse la testa, incapace di parlare. La rabbia gli stava ancora divorando la testa. 
-Beh ecco, vedi tutto a frammenti, è stranissimo. A seconda di come la luce colpisce il prisma tu vedi questi pezzetti di mondo, sempre diversi, sempre colorati. Dipende tutto dalla luce. Capisci? È questo che ho deciso di fare. Preferisco vedere il mondo da dietro un prisma piuttosto che da dietro una bottiglia. Ha una luce incredibilmente migliore. È il mio modo di vedere le cose, forse è sbagliato, ma mi rende felice. Nessuno ha il diritto di venirti a dire niente se con fatica trovi il modo di salvarti dalla merda che il mondo ti getta addosso. È tutto lì Frank. Non so cosa ti sia successo, non so perché hai quello sguardo perso, non so da cosa stai scappando, ma credimi. Fottitene. Alla fine la felicità si nasconde nelle cose più impensate.- Frank non lo guardava, era troppo doloroso adesso. Lui era così appassionato e sincero, così dannatamente bello di una bellezza che esulava da ogni canone estetico conosciuto. Come faceva a stare di fronte a una persona così, una persona che era in grado di dire cose simili e continuare a pensare a quanto fosse miserevole e quanto bisogno avesse di scappare dalla sua vita?
Deglutì, abbassando la testa. Gerard si era interrotto e ora lo guardava in silenzio. Faceva male, era come cauterizzare una ferita che si era infettata, faceva male e bene allo stesso tempo ed era maledettamente difficile costringersi a non piangere. 
-Sto scappando dalla mia vita Gee.- sospirò, inghiottendo le lacrime e arrendendosi. Si accoccolò al suo fianco, chiudendo gli occhi e cercando di non pensare alla fitta di sollievo che lo avvolse quando Gerard avvolse un braccio attorno alle sue spalle e lo tirò contro di lui. 
-A mio padre hanno diagnosticato la Sclerosi Multipla tre mesi fa. È da allora che cerca di convincermi a prendere le redini della sua azienda. Sto studiando economia all’università perché era quello che voleva lui, perché la mia passione per la musica non doveva impedirmi di avere dalla vita tutto quello che volevo. Solo che io non sono certo di voler vivere come lui, di dirigere un azienda da miliardi, vivere nel lusso e consumare la mia passione nel tempo libero.- si interruppe, prendendo un grosso respiro. Era dannatamente liberatorio dirlo finalmente. 
-Dovrei passare tutto il mio tempo con lui, cercare di capire come sarà la sua qualità di vita, viverlo finché è ancora lucido e capace di insegnarmi tutto quello che sa, accettare l’eredità che mi sta lasciando. Invece ho una paura fottuta di quello che mi sta richiedendo e sono arrabbiato con lui perché è ingiusto. È dannatamente ingiusto che si sia ammalato e mi stia lasciando. Non mi ha mai obbligato a fare niente, non a parole, ma è come se lo stesse facendo, no? Lui ha così tanto da combattere, non è giusto che debba preoccuparsi anche di me. E io vorrei solo non tornare mai a casa.- 
Gerard si limitò a stringerlo forte, senza curarsi del male che probabilmente sentiva. Frank non riusciva a capire come un abbraccio potesse essere così dannatamente confortante, ma lo era. Gli dava la sensazione di poter dire tutto quello che voleva, tutto quello che gli si agitava dentro, tutta la merda che aveva pensato di se stesso, certo del fatto che Gerard avrebbe continuato ad abbracciarlo e basta. 
Quando parlò lo fece lentamente, come se stesse pensando attentamente alle parole da dire. 
-Sai…- iniziò, senza smettere di stringerlo. Era strano sentire le vibrazioni della sua voce provenire dal petto. 
-Quando è morta mia nonna è stato il giorno peggiore della mia vita. C’era il sole, lo ricordo bene, e questa cosa mi aveva fatto incazzare perché… beh non pensavo fosse giusto. Essere sepolti in una fottuta giornata di primavera, la prima bella dopo un mese di pioggia e freddo. Quando finì la funzione mi ero rifugiato in un angolo del cimitero e le ho sentite parlare. Sai quelle cose che si dicono sempre a un funerale, i soliti convenevoli. Era una persona tanto buona, tanto pronta ad aiutare gli altri, così disponibile… ha avuto una vita così dura e difficile.-
Si interruppe un attimo, Frank non fiatò. Non sapeva come questo poteva rispondere ai suoi dubbi, ma era un pezzo della vita di Gerard e lui lo beveva avidamente. 
-E lì mi incazzai definitivamente. Capisci? Una vita. Come se noi ne avessimo infinite altre da poter vivere, come se morto una volta da sfigato morto di fame tu potessi rinascere, che so, pascià! No cazzo. La vita è quella ed è stata dura e difficile! Non ci sono altre fottutissime occasioni-
Non aveva ancora terminato, Frank lo sapeva. Anche se ormai aveva capito dove voleva andare a parare. 
-È stato lì che ho cominciato a pensarci. A questa vita dico. Certo, sento ancora mio fratello, a volte vado da loro, a volte loro vengono da me… ma è come se ci fosse qualcosa di sbagliato, come se mi sentissi costantemente fuori posto. Ed è la sensazione più orribile del mondo, io l’ho provata da quando ho cominciato a pensare cose più complicate diho fame, voglio essere cambiato. Non è nemmeno il posto, vedi, sono io. Sono io che lì sono diverso.-
Gerard sospirò, continuando a stringerlo. Era come se avesse paura che una volta lasciato andare, tutta la magia che si era creata fra loro, quell’attimo di perfetta condivisione, svanisse nel nulla. 
-Non dico che sia facile. Pur nel mio strano modo di amare, anche io alle volte sento che potrei uccidere per una carezza. Mi verrebbe la tentazione di pregare Dio solo perché possa aiutarmi a cambiare un po’, rendermi più facile da amare, rendermi una persona più gestibile. Rendere meno complicato lo starmi accanto. So che sto facendo soffrire la mia famiglia. So che si preoccupano ogni giorno e io ogni giorno tento di cambiare, tento di dirmi che andrà bene lo stesso, che riuscirò a non sentire la dannata voglia di bere fino al collasso se tornerò a casa. Ma poi penso che è la mia unica occasione. Penso che la mia cazzo di vita non la potrò mai cambiare, e anche se potessi non vorrei. Ho creato quello che sono sulla sofferenza di troppe persone, ho raggiunto una felicità fragile e delicata sulla pelle di tutti quelli che mi vogliono bene. A loro devo almeno un po’ di onestà verso me stesso. Quello che sono l’ho voluto io, l’ho creato e solo adesso ho imparato ad amarlo un po’. Anche se nel mio strano modo.-
Frank non rispose. Era un discorso che non aveva davvero bisogno di una risposta d’altronde. Non era diverso da tutto quello che gli avevano detto i suoi amici, ma era diversa la passione che ci aveva messo Gerard nel dirlo. Lui non si limitava a credere in quello che diceva, lui l’aveva vissuto sulla sua pelle. Rendeva tutto più… grande, in un certo senso. Forse più vero. 
-Devo trovare il modo in cui voglio essere. E ‘fanculo tutti gli altri- 
Commentò ridacchiando. Era da cazzoni, lo sapeva, ma sentiva il bisogno di alleggerire un po’ l’atmosfera, era diventata così densa da poterla afferrare, se solo avesse allungato la mano. 
- Perché tu hai detto in venti parole quello che io ho detto in cento?- rise Gerard, per nulla offeso. 
-Perché tu ami parlare. Penso che tu potresti fare un poema solo descrivendo una margherita, partendo dalla creazione dell’ape che ha impollinato sua madre.- 
Gli arrivò uno schiaffo leggero sulla nuca, che lui accetto ridendo. Era bello stare con lui, era rilassante e denso di emozioni allo stesso tempo. Non pensava di essere in grado di rinunciarci. Se doveva essere onesto il pensiero gli faceva una dannata paura.
-Parlando di cogliere l’attimo…- borbottò, alzando la testa in tempo per vedere l’espressione confusa sul volto di Gerard.
-Io non ho parlato di cogliere…- 
Finì la frase fra le labbra di Frank, si erano schiantate sulle sue con una veemenza che parlava della disperazione che aveva provato e che in parte provava ancora.
Poi tutto si annullò. C’era solo la morbidezza delle sue labbra, il modo in cui Gerard gemette appena lui prese il labbro inferiore fra i denti tirando un po’, l’irruenza che ci misero entrambi nell’aprire la bocca e lasciare finalmente che le loro lingue si toccassero. 
Si stavano divorando a vicenda, gemendo nel bacio e spingendosi sempre più contro l’altro. Frank strinse con foga la maglietta di Gerard, incastrando le dita nella stoffa, strattonandolo verso di sé. Non doveva finire mai, non avrebbe dovuto finire mai perché era la cosa più devastante che avesse mai provato.
-Vedo che hai fatto tesoro delle mie parole- sussurrò poi Gerard, appoggiando la fronte contro la sua e sorridendo affannato. 
Frank ghignò, tirandosi poi improvvisamente indietro quando si rese conto che il labbro era gonfio e usciva del sangue dal taglio. 
Era un cretino, Gerard stava male e lui gli saltava addosso!
-Gee, mi spiace, cazzo, ti ho fatto male, io…- cominciò, guardando nervoso il rivolo di sangue che continuava a uscire.
Gerard scosse la testa, alzandogli il mento con due dita, costringendolo a guardarlo negli occhi.
-Fottitene.- sussurrò, tirandolo nuovamente contro di sé e continuando a baciarlo. 
Non fecero altro per tutta la notte.