Questa non è una storia tenera o con un finale dolce che vuole far sognare a
dispetto della sofferenza che c'è dentro. No. E' una storia crudele che vuole
solo raccontare e farsi ascoltare in silenzio e con rispetto.
E' la storia
di una donna che è stata internata in un campo di concentramento e ha cercato, a
modo suo, di sopravvivere.
Poche pagine per tracciare un ricordo
incredibilmente nitido nella prima parte e fatto pià di sensazioni nella
seconda.
Questa storia è il mio fiore ai cancelli di Birkenau.
COME
CENERE NEL VENTO
Avevo 14 anni.
Vivevo in un paesino della Romania
immerso nei monti, nessuno pensava che potessero arrivare qui, in mezzo a questo
nulla fatto solo di alberi, cespugli e paradiso; nessuno sapeva nemmeno
esattamente chi fosse questo nemico da cui i paesi vicini e la città sembravano
terrorizzati. Eravamo contadini, gente semplice che viveva e cercava in qualche
modo di essere felice, io sognavo di diventare una brava moglie per il mio
Andrej e, in futuro, una brava madre.
Sognavo tante cose che ora sembrano
solo polvere nel vento, echi così remoti da perdersi nel fruscio stanco dei
ricordi.
La mia vita prima era scandita da rituali così scontati che non ci
facevo nemmeno più caso ormai, mi alzavo, recitavo la preghiera del mattino,
preparavo la colazione per i miei fratelli e poi cominciavo assieme a mia madre
i lavori domestici.
Non posso dire se mi piacesse o no, adesso mi sembra il
periodo più felice della mia vita ma ora i miei ricordi sono offuscati
dall’orrore quindi non sono una testimonianza obbiettiva.
Piccoli riti, riti
che in seguito avrei considerato sacri pur nella loro quotidianità, oppure
proprio per quello.
L’infanzia che si intrecciava con l’adolescenza, Andrej
che mi sbirciava da lontano con i suoi brucianti occhi neri e io che lo
occhieggiavo da sotto le ciglia e distoglievo lo sguardo per non sembrare
sfacciata, ma non senza prima aver alzato gli angoli delle labbra in un sorriso
tenero che era quasi un segreto, un segreto fra la mia anima e lui. Aspettavamo
solo il momento giusto, poi mi avrebbe chiesta in moglie, sapevamo che era
presto e non potevamo concederci nulla di più, ma in cuor nostro eravamo certi
che il nostro amore era grande e destinato a durare.
Quanto mi sembrano
felici quegli anni ora, di una felicità così dolorosa che quasi fanno più male
quei ricordi che gli altri.
Poi arrivarono.
Non pioveva né nevicava né
nulla di così catastrofico, era solo una giornata come tante, una giornata
scandita dalle preghiere che eravamo tenuti a fare e che io svolgevo con grande
fervore, certi che qualunque cosa fosse quella minaccia senza nome né volto, se
pregavo abbastanza forte Dio l’avrebbe scongiurata. Ci aveva salvato dalla
persecuzione egiziana, ci aveva tratti in salvo dal deserto, quanto poco poteva
costargli ora tenerci al sicuro?
Ero sciocca eppure non riesco a riderne
neppure ora perché quello fu un interrogativo che mi posi ossessivamente in
seguito, ma la cosa strana è che non maledissi mai il fatto di essere ebrea.
Maledissi Dio, mi arrabbiai con lui, gridai e arrivai a minacciarlo nella
follia della mia assoluta disperazione ma non mi chiesi mai come sarebbe potuta
andare se fossi stata ortodossa o cristiana o chissà che altro. Era una
condizione così naturale della mia esistenza che metterla in dubbio equivaleva a
mettere in dubbio tutta la mia vita e a me piaceva la mia vita.
E l’orrore.
Oh voi non potete immaginarlo, l’orrore che scese sul mio piccolo paese, le
case che bruciavano e gli uomini messi in fila come burattini nella piazza
principale, una ventina forse, dicevano che facevano parte di un gruppo
sovversivo, che avevano cercato di resistere alla loro sacrosanta avanzata,
eppure io sapevo che quegli uomini lavoravano nei campi tutto il giorno, come
potevano aver fatto una cosa del genere?
Gli occhi sbarrati dall’orrore
osservai soldati alcuni dei quali giovani come me, che sparavano senza
esitazione, senza nemmeno dare una giustizia ingannevole e sommaria,
Solo,
Spari e il nulla dopo.
Perché da quel momento in poi io diventai
nulla.
Nulla più che polvere che vaga nel vento.
I cadaveri stesi a terra,
ordinatamente, come se anche morire potesse avere, nella sua desolazione, una
struttura definita.
E poi cominciarono a rastrellarci. Nessuno capì
all’inizio cosa stesse succedendo, ci raggrupparono dicendoci che ci portavano
al sicuro, che li eravamo esposti al pericolo e loro avrebbero dato una casa a
tutti noi, una casa provvisoria, e che appena fosse finito tutto quello avremmo
potuto tornare qui.
Ci credemmo.
D’altronde la mente si aggrappa a
qualsiasi cosa per non accettare definitivamente che si è perduti e nulla di
quanto si possa dire o fare sarà mai abbastanza, che ormai la nostra vita valeva
meno di quella degli uomini stesi per terra. Cercavamo di non guardare, nessuno
li reclamò per paura che avessero potuto collegarli in qualche modo e riservarci
la stessa fine, nessuna sepoltura degna, nessun’atto di eroismo.
Quante
volte viviamo dentro la nostra testa una fantasia e cerchiamo di immaginare come
ci comporteremmo noi? Tutti atti eroici, tutti ‘io non farei mai questo’…ma la
verità è che quando sei li, li a due passi dalla morte, ogni cosa si annulla e
la mente diventa vuota. Gli amici diventano estranei, forse perfino nemici e
l’unica preoccupazione è sopravvivere.
Ora sorrido delle persone che
indignate asseriscono che loro, se fossero stati li, avrebbero fatto qualcosa.
Certo. Alcune persone qualcosa hanno fatto, forse persino la differenza, ma sono
così poche confronto a tutte le altre…così poche…
Fu li che tutti noi
perdemmo lo stato di uomini e cominciammo a trasformarci nelle bestie che
desideravano loro.
Fu quando voltammo il viso davanti a persone che avevamo
amato e rispettato, fu quando guardammo il fratello con sospetto e quando,
silenziosamente, cominciammo a tornare nelle nostre case per prendere le nostre
cose più care, ignari che era tutto inutile.
Nessun atto eroico, nessun
sussurro, nessuna preghiera, solo il gelo e il terrore, e i nostri passi,
l’unico rumore che testimoniava che li qualcuno viveva ancora.
Mia madre e
mio padre entrarono piano in casa e poi cominciarono affannosamente a prendere
tutto quello che pensavano potesse tornare utile, nel frattempo io tenevo
stretta la mia sorellina più piccola, due anni, e le sussurravo parole di
conforto che anche gli altri bevevano con la convinzione dei bambini che tutto
quello che viene da un genitore o dalla sorella più grande, dovesse essere per
forza vero.
E’ questo che ancora ora mi perseguita, l’idea che la mia
sorellina è morta con nelle orecchie le mie parole che le promettevano biscotti
e miele, credendoci con il candore dei bambini, perfino durante il viaggio in
treno, perfino quando ormai la speranza aveva abbandonato tutti noi, perfino
quando molti morirono schiacciati, perfino allora lei sorrideva guardando me, me
che continuavo a sussurrare parole senza senso, mi guardava e ci credeva e
questo le bastava.
E’ un immagine che ancora mi tortura, l’immagine del
soldato tedesco che appena scesi dal treno dell’orrore me la strappava via dalle
braccia e ridendo la scagliava contro il muro, dicendo che non se ne faceva
nulla di una bambina che era troppo piccola e non valeva la pena nemmeno
conservarla per le docce.
L’orrore della mia piccola che sorrideva ancora
credendo alle mie stupide parole e la mano che noncurante la scagliava contro il
muro.
E l’indifferenza attorno, persone amiche che avevano già subito la
stessa sorte o che la stavano subendo e che erano troppo immersi nel loro dolore
per badare al mio, tutti erano troppo presi dal loro dolore e questa è una cosa
che si imparava presto.
Li eri solo.
Non c’era nessuno a cui aggrapparti,
nessun amica, nessun adulto, nessuno che scacciasse gli incubi perché gli incubi
facevano parte della vita reale e camminavano sulla terra, sulla tomba di tutti,
sulle ceneri che il vento disperdeva e nessuno aveva tempo per i tuoi incubi
perché i loro erano terrificanti quanto i tuoi.
L’annientamento come forma
assoluta di vita, questo sperimentammo. Ricordo ogni cosa con un nitore che mi
spaventa, nessun ricordo è sbiadito, tutti gli interminabili momenti passati da
allora sono scolpiti nella mia memoria e gridano, gridano per non essere
dimenticati, gridano così forte che nemmeno la parvenza di vita che faccio ora
riesce a zittirli, o almeno a trasformarli in un sussurro.
Ricordo Andrej che
mi lanciava un ultimo sguardo disperato, la disperazione di chi non sa cosa
aspettarsi ma sa che sarebbe stato mille volte meglio finire contro quel muro
piuttosto che vivere.
Eppure tutti noi ci aggrappammo alla vita con tutto
quello che potevamo, perché quando non puoi più aggrapparti a nient’altro quello
che ti rimane è l’orrore.
E li l’orrore era l’unico compagno di viaggio che
ti rimaneva, ti entrava dentro così in profondità che cominciavi perfino a
sentirlo parte di te, quasi una condizione di vita naturale e in un certo senso
giusta. Come se non ti fossi meritato altro nella tua vita che di stare li e
lavorare, lavorare fin quando le braccia diventavano piombo e le gambe si
pietrificavano incapaci di muoversi.
L’orrore diventava vita quotidiana e a
un certo punto era diventato così normale che ti sembrava quella l’unica vita
che tu avessi mai vissuto.
Concetti come felicità, serenità, amore perfino,
erano totalmente privi di senso, tanto che quando li sentivi nominare ti giravi
stordito a chiederti cosa significassero. Li felicità era quando trovavi un
pezzo di pane ammuffito per terra.
Quando ti ammalavi e finivi in
infermeria.
Quando all’inizio della giornata pronunciavano dei numeri e il
tuo non c’era.
Questa era la felicità per noi e ci sembrava di non aver mai
conosciuto un sentimento diverso.
E poi ti chiedi.
Come mai farai a
essere di nuovo felice dopo?
Che senso hanno le frasi vagheggiate di gente
che dovrebbe confortare e invece provoca rabbia e disgusto e ti fanno solo
venire voglia di urlare con quanto fiato hai in gola?
Perché dire ‘ora è
tutto passato’ sa di bestemmia e infamia ed è un crimine che grida il suo orrore
contro il Cielo, perché non è mai realmente finita.
Ancora adesso mi sveglio
nel cuore della notte, nelle orecchie il suono del pianto disperato di qualche
compagna, cammino a testa bassa per vedere se riesco a trovare qualcosa per
terra che mi verrà comoda per fare qualche scambio, ancora adesso quando alzo
gli occhi al cielo non ho nessuna domanda, nessuna supplica e nessuna
rabbia.
Il mio sguardo è vuoto.
E coloro che cercano di capire mi fanno
rivoltare lo stomaco dalla rabbia perché non è una cosa che puoi capire ma solo
ascoltare in silenzio. Puoi solo farti trafiggere dai ricordi dei sopravvissuti
e non servono nemmeno le lacrime. Puoi solo fare in modo di diventare un
monumento umano al ricordo e al dolore, puoi solo farti sommergere e poi cercare
di nuotare e trovare una riva che sia solo per te.
Ti rendevi conto che
l’unica tua speranza era la morte e non sarebbe arrivata indolore e inodore ma
aveva in se la sofferenza di mille spade conficcate in corpo e l’odore della
carne bruciata. Eppure quando pregavi la sera non pregavi di essere libero ma di
morire.
E fu lì che mi resi conto che per me ormai non c’era più possibilità
di salvezza.
Anche quando arrivarono i russi a liberarci, anche quando mi
portarono una minestra calda dicendo che era l’unica cosa che potevo mangiare
per il momento, anche lì desideravo solo la morte e in un angolo del mio cuore
ho sempre continuato a farlo, anche quando potevo dire di aver trovato una
parvenza di serenità, anche quando la gioia di avere dei figli mi illuminò,
anche quando la vita pareva volermi restituire piano piano tutto quello che mi
aveva tolto, anche allora non smisi in fondo di volerla.
Perché quello era un
debito troppo grosso da colmare e un orrore troppo grande da dimenticare.
Non
si trattava solo della morte fisica e della fatica, si trattava della sterminio
minuzioso e consapevole dell’anima e di ogni cosa poteva ancora accomunarci a un
essere umano, si trattava del silenzio di chi sapeva e del terrore di chi
immaginava e si trattava solo di urlare più forte che si poteva perché a un
certo punto questo era tutto quello che potevi fare.
Urlare.
E so che
assieme al desiderio della morte in un angolo di me, vicino al cuore segreto
dove riposa tutto questo c’è ancora forte quell’urlo, e chi si avvicina con
abbastanza rispetto alla mia anima può sentirlo.
Non voglio spegnere
quell’urlo perché è testimone di tutto quello che è stato e in molti ormai hanno
dimenticato, è testimone di tutto quello che io sono e che non potrò mai
scordare.
Solo la morte e quell’urlo.