CAPITOLO OTTAVO

Fermi
Voglio tornare a casa
Togliermi quest'uniforme
E abbandonare lo spettacolo
E aspetto in questa cella
Perché devo sapere
Sono stato colpevole per tutto questo tempo?
(Pink Floyd)

Che odore aveva la follia? Sirius fu certo di saperlo quando si ritrovò sbalzato improvvisamente all’interno di una cella, una cella che lui conosceva benissimo, teatro della sua vita e della sua disintegrazione, teatro nascosto nell’ombra che nulla dava ma solo pretendeva, in cambio dell’oblio, l’alienazione.
La follia aveva l’odore marcio di mille pensieri rimuginati all’infinito, il rumore sordo della tua mente che andava in mille pezzi e ognuno di quei pezzi risuonava per l’eternità una musica fatta di stilettate in pieno petto.
La follia aveva l’incedere insinuante di un serpente oscuro che pasteggiava con brandelli di luce e si abbeverava di speranza per poi palesarsi in tutta la sua maestosa presenza e staccare la testa ad ogni stupida illusione di salvezza.
Perché la salvezza, lì dentro, era solo appannaggio degli stolti.
Ad Azkaban la salvezza non esisteva.
E quando Sirius si ritrovò in quella dannata cella fu in grado di percepire chiaramente ogni singolo pensiero partorito dalla mente di James, ogni anelito di tenebra, ogni spiraglio di oblio.
Non c’era via fuga, non c’era speranza, non esisteva salvezza.
James era semplicemente impazzito.
Si portò le mani al capo, premendole sulle orecchie: non c’era un suono in quella stanza e l’assenza totale di rumori, fosse anche il respiro debole di un essere vivente o il riecheggiare delle catene che pendevano dalle pareti, rimbombava come un urlo muto.
Non era un silenzio naturale, il silenzio apparente che nascondeva mille piccoli rumori, era un silenzio innaturale che sconvolgeva i sensi ottenebrati e conduceva in un mondo sconosciuto e pericoloso.
Fece vagare lo sguardo nella cella buia, cercando un segno, un segno qualsiasi della presenza di James, ma quello che vide fu solo il niente, pareti adornate di catene e sangue, pietre sparse sul pavimento, la parvenza ridicola di un giaciglio, e, in un angolo, un pezzo di tenebra particolarmente impenetrabile. In un secondo capì. Doveva essere lì, la sua anima, il suo spirito o qualunque cosa fosse, doveva essere quello, così debole e emaciato da non avere la forza, o il ricordo forse, di trasmettere la sua immagine di essere umano, bensì solo quello che provava ora.
Buio.
E anche questo non era un buio normale, il buio che risplende più cupamente perché circondato dalla luce, o il buio insinuoso che si crea quando la penombra invade la stanza, era un buio che si concretizzava nel buio stesso, non esisteva la minima traccia di luce che giustificasse un ombra così cupa, né la minima possibilità di sconfiggerlo perché il solo guardarlo ti faceva rabbrividire fin nelle ossa anche se non esistevano più.
Fu in quell’attimo che la sua certezza di vincere vacillò pericolosamente: una cosa così, così grande, così… disperatamente radicata nella mente instabile di James, come diavolo sarebbe riuscito a vincerla?
Provò a muovere un passo verso di lui, indeciso, non sapeva cosa si era aspettato ma avrebbe preferito dover lottare contro decine di mostri per riottenere la sua anima piuttosto che provare questa sensazione di impotenza che stava cominciando a pervaderlo.
Il nulla sembrava concretizzarsi attorno a lui, se guardava fisso nel buio poteva intuire il brulicare incessante di mille piccole ombre,
Mille piccoli pensieri che lo invadevano, sfioravano la sua mente accarezzandola e si piantavano nel suo essere.
Lui e il buio,
Lui e il suo dolore, ricordo troppo pressante per poter essere dimenticato.
I suoi deliri sconclusionati.
Lui che chiamava James.
Questo soprattutto: la sua voce che si alzava debole implorandolo di non lasciarlo, di ucciderlo, di portarlo con sé, di tornare indietro,
Lui che si scusava.
Lui che si strappava la carne dai polsi con i denti cercando un oblio che non gli era concesso.
Lui che urlava e urlava e non smetteva e continuava fino a che ogni pensiero ancora lucido si rintanava in un angolo singhiozzante.
Lui che si trasformava e restava così, a guaire disperato per un dolore lancinante più sopportabile in quella forma.
Era un dolore così acuto che non riuscì a muovere un solo passo mentre i muscoli del viso si contraevano in una smorfia sofferente.
Era passato del tempo ma, Merlino!, quanto faceva male risentire su di sé tutto quello.
E quanto doveva aver fatto male a James.
Non riuscì a sopportarlo e si allontanò, lasciando che i pensieri tornassero solo suoi e che quell’allucinante follia si assopisse in un angolo, quietandosi.
Si piegò in due asciugandosi la fronte imperlata di sudore, non ce la faceva, non ce la faceva, perché doveva essere così dannatamente difficile?
Non era colpa sua porca miseria!, non era giusto che lì ci fossero loro due e che a soffrire così fossero loro mentre Minus era vivo e godeva della sua vittoria accanto a Voldermort.
Remus.
Lui avrebbe saputo cosa fare adesso, di fronte a questo niente che minacciava di fare impazzire anche lui, Remus avrebbe saputo come comportarsi e cosa dire, perché non era lì con lui?
Scosse la testa raddrizzandosi: erano pensieri inutili e non da lui, lui agiva e si buttava in mezzo al pericolo, lui non si faceva prendere dallo sconforto, lui era un incosciente sbruffone, non un essere spaurito che tremava in un angolo.
E fu così che fece un passo stringendo i denti per non annullarsi, e poi un altro stringendo anche i pugni e piantandosi le unghie nella carne, e l’ultimo passo, quello che l’avrebbe immerso definitivamente e irrevocabilmente nell’abisso, serrando i denti e con uno scintillio determinato negli occhi, a testa alta.
Poi di lui fu solo il buio.
E in mezzo a questo buio cercava, le immagini continuavano pressanti a invaderlo ma non si fermava, non avrebbe potuto ormai, l’odore di marcio colpiva le sue narici ma non se ne curava, non ne cercava la fonte, sapeva che James non poteva essere li, quello era solo l’ennesimo pensiero devastante.
Così cercava ancora, incessante, nei recessi più scuri, dove nessuno sarebbe mai andato, nelle tenebre più profonde, nella disperazione più acuta, lì lo avrebbe trovato.
Era come cadere all’infinito nella tana del Bianconiglio con mille immagini e mille pensieri che cercavano di afferrarlo e lui che cercava solo di cadere più veloce perché sapeva che era in fondo che l’avrebbe trovato.
Dove l’abisso prendeva la forma e l’odore dell’inferno.
Mentre cadeva un pensiero fuggevole si affacciò alla sua mente ormai aggrappata alla lucidità per un filo di nulla; ecco perché doveva essere lui, nessun altro sarebbe riuscito a sopportare tutto quello, nessun altro avrebbe retto il peso di una mente allucinata come quella di James, solo lui sapeva come fare, solo lui aveva attraversato e superato la follia, solo lui avrebbe potuto superare quella di James.
Arrivò in fondo con un tonfo sordo che rimbombò sulle pareti che sembravano vive, si contraevano e pulsavano, suggerivano alla mente un immagine che adesso non riusciva a registrare.
Rosse, osservò distrattamente.
Le pareti erano rosse e di un materiale quasi morbido al tocco, aggrottò la fronte rabbrividendo, ecco cosa sembrava, un cuore.
Era come se fosse chiuso in un enorme cuore che pulsava sempre più veloce, da credere che gli sarebbe venuto un infarto se continuava così, le guardò sorpreso, non erano rosse dappertutto, notò con orrore, alcune zone, quelle più alte, erano nere e il nero sfumava creando lingue scure che si insinuavano nel rosso contaminandolo.
Non era un pensiero razionale ma sapeva che quando queste avrebbero inglobato completamente il rosso sarebbe finita e James si sarebbe perso definitivamente.
Chiuse gli occhi rifiutandosi di credere a un eventualità simile, lui aveva affrontato l’inferno per raggiungerlo lì e lui non l’avrebbe lasciato solo! Non adesso che potevano stare assieme e farsi ripagare dal Grande Mago o come Merlino voleva essere chiamato, la loro sofferenza!
Li riaprì cosciente che solo pensandolo non si risolveva nulla e si decise a muovere alcuni passi all’interno di quell’enorme cuore, sembrava non ci fosse nulla dentro ma aveva imparato che dentro la mente di James il nulla nascondeva mille insidie e mille pericoli.
Poi lo vide.
O meglio: si vide.
Con orrore si rese conto che l’essere che stava prendendo forma era nient’altro che se stesso.
O una versione di se stesso, si corresse, il viso era quello di un tempo ma gli occhi si stempravano in varie sfumature di rosso e il corpo era grottesco e informe, le mani terminavano con due artigli abnormi e i suoi capelli sfumavano nella tenebra che li circondava.
Una versione mostruosa di se stessa, pensò e con un brivido si rese conto che quello era il nucleo di tutto, quello era la follia del suo compagno.
Non c’era assoluzione o perdono in quella figura che minacciosa muoveva i primi passi verso di lui, non c’era pietà o amore, solo un cupo e assordante silenzio.
Il silenzio della ragione.
Non si mosse, beh ne aveva affrontate così tante che un se stesso mostruoso non poteva provocargli poi una paura così grande, sarebbe stato pronto a sconfiggerlo, strappargli gli occhi e mangiarseli se quello gli avrebbe riportato James.
Con uno scintillio determinato negli occhi richiamò a se la sua energia, intessendola di tutto l’odio di cui era capace, odiava se stesso e il modo in cui aveva fatto impazzire James, odiava quello che la sua follia l’aveva costretto a diventare e non si sarebbe fermato di fronte a nulla.
Con un ringhio lasciò partire la sfera che si schiantò contro l’essere centrandolo in pieno petto, se fosse riuscito a strappargli il cuore forse il suo compagno sarebbe comparso, finalmente, e con un sorriso gli avrebbe detto:’ben fatto Pad!’ era l’unica cosa che ormai anelava sentire.
La sua voce.
Ma nel momento esatto in cui l’energia colpì l’essere sentì le pareti del grande cuore attorno a lui contrarsi e gettarlo a terra, il nero scivolava sempre di più nel rosso e l’aria diventava più cupa.
Con gli occhi sbarrati guardò la figura davanti a se, il volto aveva assunto un espressione tesa e sofferente, gli artigli si stringevano il petto squarciandolo e affondando e più affondava più il cuore si contraeva, come impazzito.
Urlò perché gli sembrava che fosse l’unica cosa che la sua mente a un passo
dal perdersi fosse in grado di fare, era certo di avercela quasi fatta, cosa significava quello ora?
In preda al panico gettò un’altra sfera di energia contro l’essere, stavolta lo colpì al volto, e quando accadde vide chiaramente il pavimento frammentarsi e pezzi di cuore sgretolarsi sotto i suoi piedi, con un salto si spostò gemendo frustrato, cosa cazzo aveva sbagliato?
Con un espressione di puro terrore alzò lo sguardo verso l’essere e vide che si era strappato il cuore dal petto e glielo porgeva.
Sanguinava.
Piccole gocce rosse cadevano rimbombando e l’eco di quelle piccole stille sembrava dovesse ripetersi all’infinito, ogni goccia risuonava e creava note stonate contro le pareti ormai quasi completamente nere.
Guardò ormai annientato quel cuore, la mente cercava disperatamente un senso, cosa voleva dire? Perché sembrava che quel cuore stesse… piangendo?
Perché l’essere glielo porgeva con tutta quella vuota disperazione nello
sguardo carminio?
Si inginocchiò a terra, sconfitto.
Non capiva.
Non capiva e sembrava che l’unica cosa che avesse un senso fosse il nero che copriva le pareti del grande cuore, forse nel nero avrebbe trovato la risposta.
Era andato li spavaldo, sicuro di farcela, affrontando mille Dissennatori e perfino Harry, perché ora non riusciva a vincere?Cosa gli sfuggiva?
L’essere non desisteva.
Il cuore era sempre alzato davanti a lui, un offerta oscena strappata da un petto in cui si intravedevano ancora i muscoli e la carne viva, pensava che quell’essere fosse la follia di James, che lui fosse la follia di James, ma che senso aveva quel cuore?
Poi sgranò gli occhi.
Poteva aver frainteso tutto?
E se quell’essere non fosse stato la sua follia dopotutto? E se l’unico modo che James conosceva per non arrendersi definitivamente fosse specchiarsi dentro se stesso costantemente e rivedere la ragione per cui aveva fatto tutto quello?
Allora voleva dire che…
Con uno scatto alzò gli occhi da terra, il pavimento continuava a crollare e l’essere adesso aveva abbassato la mano stritolando il piccolo cuore che ancora pulsava stanco, le dita affondate nella carne e gli occhi sempre più vuoti e disperati.
Per un attimo non riuscì a fare nulla se non guardarlo, scevro di ogni sentimento di odio o di sconfitta, guardò come le sue mani tremavano e come la sua testa si abbassava, sconfortata dal non riuscire a farsi capire.
Gli stava offrendo il suo cuore.
Ormai gli aveva già dato tutto, tutto quello che umanamente un essere umano poteva dare a un altro, la vita, la ragione, l’anima, cosa gli rimaneva?
Un cuore che pulsava sempre più piano.
Un ultima offerta prima di diventare nulla, un ultimo ricordo.

“Sei sicuro Siri? Io mi fido di te più di chiunque altro, se qualcuno con la bacchetta in mano dovesse costringermi a scegliere se mettere la mia vita nelle tue mani o in quelle di Lily, sai che sceglierei te”
Silenzio.
“Sceglierei te nei giorni festivi e pure in quelli feriali, il mio cuore è irrimediabilmente tuo e te lo offrirei perfino se questo dovesse provocare la distruzione del mondo perché, ecco, distruggermi per averti dato il mio cuore sarebbe il modo più fottutamente bello di andarmene”

Poi fu un niente alzarsi di scatto e lanciarsi verso quell’essere che ormai aveva capito fosse James, abbracciarlo stretto, come se fosse l’ultima cosa in grado di fare, abbracciarlo come se il mondo potesse finire li e prendere in mano quel cuore pulsante, prenderlo e sorridendo fra le lacrime stringerlo fra loro due. E non c’era cosa più bella delle braccia che esitanti si alzarono e lo avvolsero, non c’era cosa più bella della testa che si posò sull’incavo del suo collo e delle piccole lacrime che gli bagnarono la pelle e del sussurro che raggiunse il suo cuore prima delle sue orecchie:
“Sapevo che saresti venuto.”