*Ormai
ci siamo, il momento dello studio, della preparazione e delle indagini
finisce e si passa all'azione. Per Max è il momento di uccidere Don e
deciso come, inizia ad attuare la sua scultura, mentre Don dopo averlo
fatto parlare più che può, dopo essersi giocato ogni singola carta
residua, deve solo sopportare un dolore atroce e pregare che Colby
arrivi in tempo. Nel mentre la tempesta è sempre più forte. Buona
lettura. Baci Akane*
34. L’ULTIMA STORIA
"Non parlare di mondi mai esistiti: la fine è l'unica cosa certa Non c'è nulla che tu possa dire, nulla che tu possa fare…
Oh, non importa come ti nascondi Ti
troveremo sempre quando lo vorremo Perciò scivola indietro e chiudi gli
occhi: Dormi un po' devi essere stanco…"
/Burn - The cure/
- Perché devi farlo in questo
modo? - Chiese Don cercando di capire quanto dure fossero le sponde del
letto a cui era legato con le corde. Mentre Max era di spalle, tirò un
po’ di volte, non era un letto molto forte e poteva riuscire a
scardinare gli angoli, però il problema erano i piedi. O liberava le
mani o i piedi, comunque Max gli sarebbe stato addosso subito.
Max si girò di nuovo verso di
lui, dietro la finestra mostrava uno scenario apocalittico dove gli
alberi erano quasi del tutto piegati dal vento e dalla pioggia forte. I
tuoni erano sempre più vicini, quasi continui. Fra un dialogo e l’altro
c’era il fragore dei tuoni a far tremare i vetri.
Sicuramente presto o tardi
qualche albero sarebbe caduto su di loro, Don ne era certo. Si
sentivano rumori continui dentro e fuori, le assi scricchiolavano. Don
aveva bene in mente l’altura in cui erano, ci era stato diverse volte.
Se saliva c’era una scogliera, se scendeva c’era una spiaggia dove i surfisti si divertivano.
Probabilmente Max aveva scelto la casa più imbucata di tutte.
- Seppellirti? - Don annuì.
Max si strinse nelle spalle. - Ognuno ha il suo modo efficace per
farlo, il mio è questo. - Don sospirò e scosse il capo.
- È dura affrontare il mondo
quando è ancora in piedi, però è lì che sta la vera forza. - Max
sorrise abbassando lo sguardo quasi con tristezza.
- È questo il punto, io sono
troppo debole per riuscirci, perciò faccio così. Cancello le cose che
non vanno bene, perché non riesco ad ignorarle e a fare finta di nulla.
Io non ci riesco proprio, non vivrei sereno, non saprei andare avanti.
Solo quando ho iniziato a cancellare, poi sono stato felice e leggero,
sono riuscito ad andare avanti, a provare a vivere la mia vita. - Don
sapeva che si riferiva ai genitori.
Paradossalmente era vero. Se
non li avesse mai uccisi non avrebbe mai capito quanto libero poteva
essere e quanto questo bello era.
E comunque vivere nonostante le cose che non piacciono, non era per i deboli. Aveva ragione anche in questo.
- Uccidere non è per le
persone forti. Dovrebbe essere il contrario, ma non lo è. Ci vuole più
forza per accettare quello che non puoi cambiare, piuttosto che per
cancellarlo. - Ribadì Don come per dire che lo capiva e lo condivideva.
Max rialzò lo sguardo e lo guardò di nuovo abbagliato, innamorato.
- Tu sei forte o sei debole,
Don? - Glielo chiese con un tono mistico, sapeva la risposta nella sua
testa. Don però non rispose come si aspettava.
- Non spetta a me giudicarmi.
- E questo piacque ancora di più a Max. Più passava il tempo con lui e
meno era in grado di fare quello che doveva.
Da un lato, in un angolino
della sua testa, sapeva cosa doveva fare. Ucciderlo e scappare il più
lontano possibile. Lasciare la California, andarsene lontano dall’altra
parte del mondo. Però non riusciva ad affondare la lama nel suo corpo.
- Vorrei condividere la mia
vita con te, il resto della mia vita con te. Sento che mi sto
innamorando, mi capisci, siamo simili, ad entrambi manca qualcosa,
entrambi non siamo perfetti. Siamo compatibili. Quello che non ho io ce
l’hai tu e quello che non hai tu ce l’ho io. - Disse ad un certo punto
Max avvicinandosi apparentemente calmo ed in sé, la testa piegata di
lato, l’aria quasi dolce, ragionevole. Se non fosse che parlava ad uno
che teneva legato e nudo ad un letto.
Don faticava a non fissarlo come un pazzo.
- Non posso venire con te.
Sono un agente federale. Quello che ti dà la caccia. Io sono qua per
arrestarti e metterti dentro, Max. - Glielo ricordò sperando di non
turbarlo troppo.
Un tuono arrivò
particolarmente vicino e fece saltare la luce del generatore, la
penombra calò fra di loro. Era giorno, ma le nuvole e le fronde degli
alberi facevano sembrare la sera incombente.
Max si morse il labbro nervoso.
- Lo so bene, sai. Me lo sto
ripetendo da solo. Però è questo che mi frena. Vorrei te come mio
compagno. Tyler era il mio uomo ideale, un po’ il dio a cui aspiri. Poi
la fantasia si scontra con la realtà e capisci che non lo puoi avere,
che non l’avrai mai, che la vita è diversa. -
“Ma davvero? E quale sarebbe
la realtà secondo te? Che uccidere per dimenticare le storie fallite va
bene?” Ma si guardò bene dal dirlo e rimase serio.
- Però non potrò mai esserlo.
- Rispose con fermezza senza battere ciglio. Max sospirò insofferente e
alzando gli occhi al cielo scosse il capo.
- Maledizione! - Imprecò mentre il nervoso tornava a salire.
- Devi prendere una decisione.
Lo sai che non hai davvero tutto il tempo che credi di avere. In una
parte di te lo sai. E il tuo amico non verrà ad aiutarti e sai perché?
Perché lui ti ha insegnato che devi seguire i tuoi istinti bassi perché
nessuno ha il diritto di giudicarti e dirti come vivere, ma che basta
prendere le contromisure adeguate. Accetti chi sei e accetti cosa ne
deriva dall’essere te stesso. - Max lo guardò meravigliato, come sapeva
quelle cose? Come sapeva che glielo aveva detto, che glielo aveva
insegnato? Don capì che era sulla buona strada. - E ti ha sempre dato
buoni consigli senza mai farsi vedere, giusto? - Poteva essere una voce
nella sua testa od un bastardo per telefono, un manovratore della sua
giovinezza. - Però ora non è qua, ora non ti sta aiutando a prendere la
decisione più difficile della tua vita! - Rincarò Don mettendogli
pressione. Max iniziò a mordersi la bocca e a toccarsi l’orecchio,
segno che lo stress stava aumentando.
- Lo so, lo so… è che Tyler
era il mio sogno ed ora che ho realizzato che non era davvero IL MIO
sogno io… devo reinventarmi. Ora ho capito che tu, tu sei quello che mi
capisce, ed io cercavo uno che mi capisse… ma tu sei un poliziotto,
maledizione. Voglio un poliziotto, come è possibile? Perché non era
Tyler? Perché sei tu? Cosa dovrei fare ora? Non possiamo stare qua per
sempre, non possiamo… ma io non sono pronto a seppellirti! - Un ramo si
ruppe per colpa del vento e si infranse contro la finestra, in quello
fece un gran baccano, i vetri si ruppero e caddero per dentro. La punta
del ramo piuttosto grosso entrarono dentro. Max saltò spaventato
perdendo ulteriormente il controllo, come se questo ed il vento e la
pioggia che ora gli arrivavano dentro fossero un ulteriore segno di
fretta. Non aveva tempo.
- Maledizione, lo so lo so! - Urlò fissando fuori.
“Allora è una voce? Non è una persona reale?” Don non ne era ancora certo, passava da una certezza all’altra.
Don stava elaborando una
risposta per riprendere il suo controllo, ma Max prese veloce una
mazzetta di legno che i cacciatori ed i pescatori usavano per
tramortire gli animali, andò da Don e prima che lui potesse dirgli
‘no’, gliel’aveva data contro la testa.
La fitta immediata, un dolore sordo e poi il nulla, il buio. La spina staccata.
Ora era nelle mani di Colby.
Era come se il cervello volesse uscirgli dal cranio, come se la scatola cranica fosse troppo piccola, improvvisamente.
Don riprese conoscenza così.
Un dolore martellante, ripetuto, intenso.
Quando mise a fuoco, si rese
conto di essere inchiodato al muro. O meglio non ancora inchiodato, ma
tramite delle catene assicurate alla parete di legno, era appeso. Ma
non a testa in giù, bensì nella posizione della croce.
I piedi poggiavano su uno
sgabello basso, Don appena riprese i sensi fece subito peso per
sollevarsi e dare respiro al proprio petto, tirato fino a quel momento
dai polsi appesi. Le braccia aperte e larghe gli avevano impedito di
respirare bene, si era svegliato per un inquietante senso di
soffocamento.
Max era seduto davanti a lui, su una sedia, lo guardava con la testa piegata di lato.
Don si guardò di nuovo, era
nudo. Poi notò che Max non aveva i pantaloni chiusi ed al contrario
aveva una macchia inequivocabile sulla coscia. Si era masturbato. Sperò
vivamente da solo, senza toccarlo mentre era incosciente.
Don sentì un conato di vomito, ma riuscì a resistere.
Il sangue gli scendeva dalla
ferita alla testa e scivolava lungo il collo, caldo e rosso. Per il
resto dalla finestra rotta entrava un vento fresco, la tempesta ancora
imperversava fuori.
- Sai perché ho scelto questa
raffigurazione per te? - Chiese Max calmo, provando uno strano sollievo
dopo averlo messo in posa.
Don si guardò capendo di essere in croce.
- Gesù Cristo? - Chiese. Max sorrise felice che l’avesse capito.
- Non potevo ucciderti come ho
fatto con gli altri, tu non sei come gli altri. Non ti avrei mai ucciso
se non fossi stato un agente. - Spiegò calmo alzandosi in piedi e
prendendo il coltello, dopo essersi allacciato i pantaloni.
- Gesù era l’eroe dei racconti
di tua madre. Sono il tuo eroe? - Chiese Don sperando d’aver
indovinato. Max sorrise, si fermò davanti a lui e l’accarezzò con la
punta del coltello da caccia partendo dalla clavicola e scendendo sul
petto, giocò coi capezzoli ed andò fino all’inguine. Sembrava ancora
eccitato.
- Proprio così. Tu saresti il
mio Gesù. Per lei Gesù era la via, la verità e la vita. L’esempio da
seguire, colui a cui consacrarsi. Io odiavo Gesù, per colpa sua ho
perso due dita ed ho avuto mille complessi. Però ammiravo la sua
adorazione. Ho sempre sperato di trovare qualcuno da amare come lei
amava Gesù. Ed io penso che tu sia il mio Gesù. -
Don non staccò lo sguardo dal
suo, non lo spostò di un millimetro nonostante avesse paura di quel
coltello appoggiato sul suo membro.
- Però Gesù è morto. - Max annuì dispiaciuto.
- Per me è un onore
rappresentarti come lui, significa che non avrò nessun altro nella mia
vita al pari di te. Che ti ricorderò per sempre. Dopo di te potrei
anche smettere di cercare e vivere nel tuo ricordo, rassegnato ad un
amore perfetto che non ho potuto avere. - Max tornava a sragionare e
sembrava che più lui dicesse cose insensate, più il cielo volesse
cadere su di loro.
Di nuovo le tavole da surf appese alle pareti tremarono, il vento dalla finestra entrò più forte.
- Tu mi hai trovato, Don. Mi
hai riconosciuto. Hai capito che ero io il killer scultore. Hai capito
che ero io con uno sguardo in quel locale, hai scoperto come trovarmi.
Perciò tu sei il mio Gesù. - Don voleva dirgli che era completamente
pazzo, ma ovviamente si guardava bene dal farlo notare ad uno che pazzo
lo era davvero.
- Sei il solo che mi abbia
trovato, che abbia capito che ero io. Il solo in dieci anni. Tu devi
essere l’ultimo. Tu devi essere il mio Gesù. Ero convinto che Tyler
fosse il mio Gesù. Se non mi avesse amato, sarebbe stato il mio Gesù.
L’ultimo. Poi avrei vissuto nel suo ricordo. Però sbagliavo. Lui è il
Gesù di qualcun altro. - Don voleva chiedergli il nome, di chi era il
Gesù, Tyler? Chi era il suo complice? Però Max proseguì misticamente
convinto di quel che diceva, giocando col coltello sul suo corpo, senza
ferirlo. - Tu sei il mio Gesù, tu mi hai trovato dopo dieci anni. Tu
hai capito chi sono. Tu sarai il mio ultimo. Dopo di questo, mi
ritirerò e troverò la pace in una vita solitaria. - Sapeva che in
quella posizione si moriva soffocati dopo giorni di agonia, e sapeva
anche che Max era consapevole di non avere giorni per godersi la sua
morte. L’avrebbe accelerata.
Max con un calcio fece cadere
lo sgabello per iniziare il processo di soffocamento. Il petto era
tirato e schiacciato dalle braccia larghe a cui appendeva e Don cercò
subito di fare forza per sollevarsi e dare sollievo alla gabbia
toracica che gli impediva già di respirare a pieni polmoni.
Max vide che Don stringeva i
pugni e grazie alle catene assicurate ai polsi, riusciva a sollevarsi
sulle braccia per evitare di soffocare subito.
Le catene alle caviglie che
impedivano a Don di sollevare le gambe per darsi ulteriore sollievo o
dargli anche dei calci, facevano il loro dovere, ma quelle ai polsi no,
così stringendo contrariato e dispiaciuto le labbra prese un grosso
picchetto in ferro battuto ed un martello, prese la scaletta e si
sistemò sopra ad altezza delle mani. Don guardò cosa voleva fare e
cominciò a dire di no, di non farlo.
- Devo, Don… non mi lasci scelta, così non morirai! -
Così gli aprì la mano a forza
che Don cercava di tenere chiusa, gli diede un colpo col martello sulle
nocche, probabilmente rompendogliene qualcuna. Don gridò di dolore e
non poté più fare forza con le dita. Max riuscì ad aprirgliele, mettere
il picchetto sul palmo della mano e con un colpo deciso e potente,
diede giù col martello. Il primo colpo fece affondare il picchetto
nella carne, Don urlò di dolore, straziante, ma Max non si fermò e
continuò ad affondare nel palmo fino a che il picchetto di ferro a
forma di grosso chiodo, non fu piantato nella parete di legno.
Il male che Don stava provando
non riusciva a quantificarlo e paragonarlo. Aveva ricevuto pugnalate,
pallottole ed anche pestaggi, aveva passato diverse cose a livello
fisico, ma quella era diversa e lo fu quando Max gli lasciò il polso
guardando soddisfatto il lavoro.
Don con tutto il suo corpo era appeso da quel lato ad un chiodo nella mano, un chiodo che trapassava la sua carne.
Il chiodo in sé era atroce, ma il proprio peso da reggere era impensabile.
Max guardò poi la mano destra.
- Mi dispiace, sai? So che usi
la destra per sparare, ma poi niente avrà più importanza… - Disse
scendendo dalla scala per spostarla e fare la stessa cosa dall’altra
mano.
Il dolore era pungente e continuo, il calore si espandeva a macchia d’olio su tutto il braccio e presto divenne pulsante.
- Non posso aspettare che tu
soffochi, non posso dissanguarti e non posso dipingere le pareti col
tuo sangue. Sarà diverso. Ma sarà un capolavoro. - Disse convinto Max
preparandosi per fare la stessa cosa anche all’altra mano. Gli prese il
polso del pugno chiuso e si preparò a colpire con il martello sulle
dita per fargliela aprire.
Don chiuse gli occhi
preparandosi ad un secondo dolore atroce, mentre non riusciva nemmeno a
respirare bene per via della posizione del torace, ma un rumore sordo
si confuse nel rombo del tuono vicinissimo. Il fulmine cadde poco
distante e la porta si spalancò insieme ad un grido, una voce
familiare.
- FERMO! - Il martello si fermò come per magia, Don aprì gli occhi. Alla porta, dall’altra parte della stanza, c’era Colby.
Don non ricordava un momento in cui era stato più felice di vederlo. Non ce n’era davvero.