*Ecco
un altro capitolo. Siamo nell'occhio del ciclone, anche letteralmente
in effetti, e finalmente Colby ha trovato Don ed è arrivato nel momento
migliore. Max ha piantato un picchetto nella mano sinistra di Don, lo
sta per fare nella destra, lui è appeso in croce da un po' e sta per
svenire, quanto tempo ha prima di soffocare per la posizione? E
riuscirà Colby a fermare e catturare Max, a salvare Don e ad evitare
che perda entrambe le mani? Buona lettura. Baci Akane*
35. IL PEGGIO NELLA TEMPESTA
"E
se solo potessi, farei un patto con Dio, e farei in modo che lui
invertisse i nostri ruoli, risalendo per quella strada, risalendo
quella collina, risalendo quell'edificio se solo potessi... "
/Placebo - Running up that hill/
Sembrava un fermo immagine
paradossale. Tutt’intorno sembrava che il tempo accelerasse, il vento,
gli alberi contro la casa, la pioggia che batteva furiosa. Ma dentro
nessuno si muoveva. Nemmeno si respirava.
Don cercava di farlo faticosamente, il respiro alterato dal dolore e reso difficile dalla posizione appesa a croce.
Gli occhi appannati dalla
sofferenza si misero faticosamente a fuoco su Colby, il riflesso del
piangere dal dolore era difficile da controllare, ma era anche
difficile lasciar andare quelle lacrime che volevano venire fuori. Don
voleva svenire per non provare quel male così acuto da credere di non
poter più usare la mano sinistra.
Ma il conforto nel vedere Colby, il suo Colby, lo stava aiutando a tenere duro, solo un po’, solo un attimo.
Max si girò e vide Colby, un
agente che gli puntava una pistola da una distanza media. Vide l’odio
nei suoi occhi chiari e gli parve di averlo visto, poi si ricordò.
- Eri al locale… -
- Metti giù quel martello e
scendi lentamente! - Disse con tono fermo Colby. Max si girò a guardare
Don e poi sé stesso, in piedi sulla scaletta, picchetto e martello in
mano, li alzò ed infine arricciando la bocca in segno di disappunto
sospirò e puntò il picchetto in mezzo alla gola, fra le clavicole che
si congiungevano di Don. Il martello pronto a dare il colpo finale. Un
attimo, dopotutto. Non ci voleva molto per uccidere qualcuno, alla
fine.
- Non volevo farlo così. Don
mi piace, doveva essere la mia ultima storia. Volevo ritirarmi. Però
stai rovinando tutto. Non doveva morire così, Don è il mio Gesù, Gesù è
morto crocefisso, non con un picchetto in gola… perché devi rovinare il
mio omaggio? - Max era sempre in bilico su un precipizio, un istante
era lucido e ragionevole, quello dopo sragionava e diceva cose prive di
senso.
Don e Colby si scambiarono uno
sguardo significativo. Il fiato veniva sempre meno a Don che cercava di
fare forza con il braccio destro ancora intatto. Il sinistro lentamente
era insensibile, il sangue gli colava lungo la pelle chiara, non
riusciva proprio a reggersi ed il chiodo gli impediva di aiutarsi.
Le forze gli stavano venendo a
meno, così come la mente iniziava ad offuscarsi. Voleva essere utile a
Colby, voleva aiutarlo, voleva rigirarsi Max, ma non riusciva nemmeno a
parlare.
Si sentiva svenire dal dolore,
dal troppo sangue uscito, dallo scarso ossigeno che ormai giungeva. E
il pugno destro allentò la presa finendo per abbandonarsi completamente
in avanti, verso il basso.
Colby vide Don svenire e cercò di capire quanto tempo potesse avere per salvargli la vita.
Ragionare così era difficile.
La vita della persona che
amavi era appesa ad un chiodo e tu avevi gli attrezzi per salvarlo. Ma
per poterli usare dovevi superare un ostacolo e quell’ostacolo era Max.
Ragionare su come manovrarlo
non era facile, non poteva ucciderlo perché non sapevano chi era il suo
complice e a Max ci voleva un nano secondo per affondare quel picchetto
nella gola di Don. E a Don pochi secondi ancora prima di morire del
tutto soffocato.
Colby respirò e cercò di fare chiarezza, mente locale.
“Ci hai lavorato con cura proprio per arrivare a lui e gestirlo bene. Ora è il momento di farlo.”
- Max, Tyler sta bene. - Disse poi improvviso, come se lo conoscesse. Max esitò e lo guardò sorpreso.
- Ah sì? - Colby si avvicinò lentamente.
- Sì, sta bene. Non l’hai
ucciso, non volevi farlo. Era troppo, vero? Tyler è speciale. - Max
fece un’espressione intenerita e triste.
- Sì, lo è… -
- Non è andata come pensavi,
eh? Come l’avevi progettata… - Iniziò Colby con una falsa calma
abbastanza convincente, la pistola puntata. Doveva mirare bene in modo
che la pallottola non colpisse poi Don e non era facile visto che gli
era proprio davanti. Se colpiva il braccio, colpiva anche Don. Se
colpiva la gamba poi poteva comunque rimanere in piedi e trovare la
forza riflessa di affondare il martello ed il picchetto su Don.
Doveva farlo scendere.
- No, non proprio… -
- Volevi chiudere con quella
vita, vero? Per questo hai abbandonato il furgone coi tuoi ricordi. -
Colby cercava di usare le parole giuste, mentre i tuoni facevano
sussultare entrambi ad ogni rombo sempre più frequente. - Tyler era la
tua ultima definitiva storia, ma ti ha riconosciuto ed ha rovinato
tutto. Non poteva essere la tua ultima storia, quella giusta. Ti eri
preparato per lui, ma alla fine è andata male. Ed è arrivato Don, ha
capito chi eri. Ora è tutto un casino, no? E il tuo collega non ti
aiuta più! Prima ti dava buoni consigli, per tutto il tempo. Ti ha
detto lui di nascondere i tuoi ragazzi quando eri troppo vicino a
casa, ti ha detto lui di stare attento alle telecamere quando eri col
furgone, di parcheggiarti in posti sicuri. Ti ha detto lui di non
rimanere nella stessa città una volta che chiudevi con una storia. Ed
ora? Ora che le cose non sono andate come dovevano, lui dov’è, Max?
Perché non è qua? Perché devi risolverla da solo? Perché devi decidere
tu da solo? Non è giusto! - Max lo guardò accigliato e stralunato, per
la prima volta sul punto di cadere, appeso per un filo a quel suo piano
B rappresentato da Don. Ma come? Ma come andare avanti?
Quell’agente aveva ragione,
Colby lesse quella frase nei suoi occhi spalancati che lo fissavano. Il
martello sempre più basso, quel picchetto sempre più dimenticato.
- Dov’è lui? Perché non si fa
più vivo? - Colby si avvicinò conciliando ancora un po’ il tono,
concentrandosi sul contatto visivo, la pistola retta con una mano per
poter avere libera l’altra e prenderlo. Gliela tese. - Tu non sei
cattivo, vero? Non sei nemmeno buono. Sei Max. Hai fatto quello che ti
sentivi di fare, hai accettato le tue conseguenze. Vivrai da eremita
per sempre, in un modo o nell’altro. O morirai. Ma lui non pagherà mai,
perché è sempre rimasto nascosto. - Max fissò la sua mano ignorando
completamente la pistola, sconvolto di quel che diceva, di come gli
stava leggendo nel pensiero. - E facevi quello che dovevi per andare
avanti, ma ti scusavi. Erano belle quelle sculture, parlavano di loro,
dei tuoi amori finiti male… - Colby abbassò ancora il tono, ormai era
ad un passo, poteva affondare la pallottola senza ferire Don, ma lo
doveva prendere vivo. Non avevano ancora idea di chi fosse il complice.
- Andiamo, Max… - Fece poi
mostrandogli ancora la mano per aiutarlo a scendere. - chiediamogli
perché non si prende le sue responsabilità, come tu ti sei preso le
tue. Chiediamogli perché non ti dà più i suoi preziosi consigli… -
Colby riuscì a spostare totalmente l’attenzione e le mire di Max sul
suo misterioso complice, tanto che abbassò del tutto martello e
picchetto, ma esattamente in quell’istante uno dei tuoni che avevano
viaggiato fin troppo vicini a loro, colpì uno degli alberi intorno al
rifugio, il quale si aprì in due fino alla base. Una metà finì sulla
loro casa rompendola come se il fulmine avesse colpito loro.
Il tetto venne letteralmente
sfondato come fosse fatto di cartapesta e metà casa venne completamente
schiacciata, come il piede di un gigante che sbaglia mira. Fu tutto
così veloce ed immediato, che il riflesso di Colby consistette nel
buttare in un angolo Max e saltare sulla scala al suo posto per
proteggere Don col proprio corpo. Si appoggiò completamente a lui
facendogli da scudo e rimase fermo contro di lui, la fronte sul muro,
gli occhi stretti, il fiato sospeso.
La prima sensazione che sentì
fu la pioggia che lo bagnava, cadendogli di traverso. Il freddo lo fece
rabbrividire, alzò la testa e si girò a vedere cosa era successo. Per
qualche miracolo l’albero era caduto tagliando a metà la casa, se fosse
caduto più in là li avrebbe schiacciati completamente e mandati
all’altro mondo seduta stante.
La seconda cosa che sentì fu
un dolore lancinante alla schiena, così cercò di muoversi piano, si
morse le labbra imprecando. Il tronco aveva dei rami che li
circondavano, alcuni gli erano finiti addosso, doveva avere tutta la
schiena coperta di segni, ma guardò Don, svenuto ma vivo. Si fece forza
e lo schiaffeggiò tenendolo alzato e schiacciato col proprio corpo.
- Don, Don devi svegliarti, mi
serve che collabori! Don! - Dopo un po’ di urla e schiaffeggi, rivide i
suoi occhi velati e sospirò di sollievo. - Ehi, buongiorno! - Disse con
un tono più delicato e quasi divertito. Don si aggrottò cercando di
capire come mai respirava meglio. Poi realizzò che Colby lo stava
tenendo dritto col proprio corpo, ma sostanzialmente era ancora appeso.
In un secondo momento vide dietro di lui ed impallidì. Lo shock lo
riportò immediatamente nel mondo dei vivi e più presente che mai, il
dolore alla mano, la testa che gli martellava dove l’aveva colpito
prima, il petto indolenzito per la posizione assunta dove le braccia
erano tirate ed il torace cadeva in avanti a peso morto.
- Che diavolo… -
Colby si girò a cercare Max
mentre cercava di fare mente locale ed ignorare qualcuno dei rami che
lo stavano tenendo bloccato lì.
- Ovviamente è sparito, figurati! - Esclamò seccato.
- Max? - Era evidente che un
fulmine aveva fatto cadere un albero sul loro rifugio, era un miracolo
che l’albero non fosse caduto su di loro ma li avesse mancati in quel
modo.
- L’avevo quasi disarmato,
stava scendendo, l’avevo convinto a portarmi dal complice che si
nasconde, ma questo maledetto albero ha rovinato tutto! Adesso chissà
dove diavolo sta andando! - Don tornò a farsi forza con il braccio
destro che stava bene, ancora incatenato.
- Lasciamo perdere Max adesso.
Dobbiamo metterci al sicuro. Riesci a muoverti? - Colby girò la testa e
tornò a guardarlo, in quel momento realizzarono la loro effettiva
posizione, attaccati, uno dei due completamente nudo, i visi a pochi
centimetri. Si concessero un istante, un istante che venne naturale nel
momento in cui i loro occhi si incontrarono per capire come uscire da
quella situazione.
- Felice di rivederti vivo,
comunque. - Disse Colby capendo che per togliersi da lì doveva muoversi
e quindi aggravare le ferita alla schiena. Sentiva almeno un paio di
rami premergli contro la carne.
Sorrideva. Don lo guadò ebete.
- Anche io. - Concesse. Colby lo guardò sorpreso.
- Ehi, cos’è quello slancio sentimentale? - Don così finì per ridacchiare.
- Era solo un ‘anche io’. Mica
ti ho detto che sei la più bella visione di oggi, anche se poi è vero!
- Colby rise di gusto procurandosi dolore in più, poi gli diede un
bacio sulle labbra, leggero e fugace. Infine stringendo gli occhi e con
un’espressione di dolore, portò una mano dietro di sé, afferrò il pezzo
grosso del ramo che lo stava massacrando e con un ringhio si spostò
sfilandosi da lì, scese giù dalla scala e appena fu fuori rotta, spezzò
il ramo per evitare che poi finisse su Don.
Questi lo guardava dall’alto
della sua posizione appesa alla parete e cercava di capire come stava,
ma Colby si guardò bene dal girarsi. Adesso senza quelle maledette
punte stava meglio, seppure sentisse il sangue colargli lungo la
schiena e la ferita bruciargli.
Alzò la testa e permise alla pioggia che cadeva dal tetto aperto di bagnarlo. Trovò un po’ di sollievo.
- Colby. C’è uno sgabello
basso da qualche parte… - Voleva aggiungere che era utopistico
trovarlo, ma doveva cercarlo. - E anche qualcosa tipo scalpello e
martello… - Don stava ragionando faticosamente e altrettanto
faticosamente parlava perché era tornato alla posizione appesa di
prima, il torace tirato dalle proprie stesse braccia. Il destro teso
per provare a sollevarsi, ma le catene ormai gli avevano lacerato la
pelle sul polso.
Colby tornò al dovere e cercò
lo sgabello, con un po’ di fortuna lo trovò subito e glielo mise sotto
i piedi in modo che Don si appoggiasse per sollevare il proprio peso.
Appena lo fece, si sentì nettamente meglio, il resto era sopportabile.
La mano sinistra non era più appesa, non aveva più il proprio peso da
sopportare.
- Niente scalpello, ma questo
picchetto con cui voleva completare la sua opera d’arte, potrebbe
esserci utile. - Don lo guardò torvo, poi capì perché l’aveva detto e
annuendo gli indicò di tornare su e togliere prima la destra.
- Sradica la catena di questa.
- Colby tornò sulla scala avanti a lui, usò il picchetto come una leva,
poi picchiò con il martello ed i chiodi che tenevano la catena alla
parete vennero via. Il braccio destro di Don fu finalmente libero. Lo
guardò sollevato.
L’ennesimo rombo arrivò a far tremare i resti di quella casa.
- Il picchetto non posso
estrarlo dalla mano. Posso estrarlo solo dal muro. - Don annuì
guardando la sinistra sanguinante e gonfia, squarciata. Forse non
avrebbe più ripreso sensibilità.
- Togli prima la catena, poi il picchetto. - Indicò freddo Don cercando di rimanere concentrato per non cedere al dolore.
Colby fece la stessa cosa che
aveva fatto poco prima, la catena venne subito via, poi sospirando lo
guardò in viso per capire quanto stesse trattenendo e quanto non ce la
facesse più. Aveva paura che svenisse di nuovo.
- Pronto? - Chiese mettendo il
secondo picchetto alla base del primo per allargare l’ingresso nel
legno ed estrarlo più facilmente.
Don prese un paio di respiri, poi concentrato annuì.
- Pronto. - Colby prese bene
la mira e con un colpo deciso cercò di sradicarlo nel più breve tempo
possibile. Dovette usare alcuni colpi di martello, il picchetto
naturalmente cozzò contro quello che appendeva la mano di Don, il quale
soffrì trattenendo il fiato. Divenne molto pallido e Colby temette di
vederlo scivolare sulle ginocchia, però si aggrappò alla sua spalla con
la mano libera e rimase dritto. Finalmente il picchetto che faceva da
chiodo, venne via dalla parete in legno e Don abbassò lentamente la
mano ferita. Il sangue incrostato lungo l’avambraccio ed il gomito
stava venendo lavato dalla pioggia che cadeva storta. A quel punto Don
si lamentò sorprendendo Colby il quale non l’aveva sentito dire mezzo
insulto fino a quel momento.
- Quel bastardo di menomato
mentale! Lo inchioderò per le palle se lo ritrovo! E porca puttana, lo
ritrovo! - Colby trovò confortevole il suo lamento, significava che era
umano. Per un momento aveva temuto non lo fosse.
Scese dalla scala e liberò anche le caviglie, infine tendendogli la mano che prese, lo aiutò a scendere.
Appena mise piede per terra a
Don si piegarono le ginocchia, infatti Colby lo avvolse con le braccia
sostenendolo istintivamente. Questo diede vita ad un inatteso ma
piacevole abbraccio, veramente la prima cosa piacevole di quella
giornata terribile. Per un momento la tempesta intorno a loro sembrò
affievolirsi, ma forse fu solo un effetto portato dallo stare bene fra
le braccia uno dell’altro.
Dopo che Don si fu raddrizzato
sulle gambe e vedendo che era sufficientemente stabile, Colby lo lasciò
a malincuore, ci fu un po’ di imbarazzo superato con il guardarsi
intorno alla ricerca di qualcosa di utile con cui coprirlo e magari
fermargli la mano ferita col picchetto che la passava da parte a parte.
- Per il momento muoverci è
molto più rischioso… - Cominciò trovando la coperta dal letto sfondato
per un quarto. La coperta venne via dopo un po’ che tirò e gliela mise
addosso, poi lo accompagnò nell’angolo meno rovinato da alberi e meno
soggetto alla pioggia. Lo fece sedere per terra e Don si fece fare
docile, stanco, massacrato e dolorante.
Colby continuò a cercare e
sempre dal letto prese il lenzuolo, dovette strapparlo perché una parte
era incastrata al tronco. Di quello fece un po’ di brandelli. Alcuni li
usò per coprire la mano sinistra ed il chiodo, con altri l’assicurò al
suo collo come si faceva con i bracci rotti. Poi gli pulì il sangue
dalla fronte e risalì sulla ferita aperta, ormai incrostata.
- Non credo che sia molto
profonda. Hai solo l’ennesimo segno di guerra… così sei ancora più
affascinante! - Commentò ironico cercando di sdrammatizzare una
situazione disastrosa. Apocalittica quasi.
- Non credi sia meglio andare via? - Chiese Don in risposta. - Tu sei ferito, fra l’altro. - Colby scosse il capo.
- I fulmini non colpiscono mai
due volte nello stesso posto. Per ora il posto più sicuro è questo.
Appena smetterà un po’ di piovere ci muoviamo. Sicuramente intanto gli
altri ci troveranno, son venuto con una squadra ma non sapendo dove
fossi di preciso ci siamo sparpagliati, purtroppo con questo disastro
le comunicazioni sono saltate. Ce la caveremo, il peggio è passato. -
Disse Colby sedendosi accanto a lui. Don voleva dirgli di togliersi la
maglia e fargli vedere la ferita, voleva curarlo, voleva rendersi
utile, ma appena fu seduto accanto a lui, Colby scivolò con la testa
sulla sua spalla sana in un segno di totale abbandono, estremamente
dolce e docile. Così Don sorrise e provò un po’ di caldo, finalmente da
quando aveva aperto gli occhi quella mattina.
Non disse nulla, rallentò
anche il respiro. Appoggiò solo la testa sulla sua. Per il resto nessun
discorso, non più Max, non più complici, non più teorie o piani.
Niente. Nemmeno la tempesta.
Solo loro due, uno accanto
all’altro, appoggiati insieme. Gli occhi chiusi, concentrati su quel
calore che proveniva uno dall’altro. Sarebbe andato tutto bene.
Ormai il peggio era passato davvero.