*Ecco
un altro capitolo, mi scuso del ritardo ma mi dico sempre 'ora
correggo' e poi non lo faccio mai! Dunque, siamo agli sgoccioli, diamo
uno sguardo a Tyler giusto per non abbandonarlo a sé stesso per poi
tuffarci nella storia di Don e Colby che hanno dovuto mettere da parte
per troppo tempo, ora l'impazienza fa capolino. Buona lettura. Baci
Akane*
43. LA COLPA DI ESSERE SÉ STESSI
"permetti
al sole di splendere sul tuo viso, solo il buio abbaglia la tua strada
Prenditela con calma cammini contando sulle tue sole forze cerca la
luce del sole, (tu) troverai (la tua) strada di casa"
/Just let the sun - Skin/
Don e Colby, ormai pronti e
vestiti con abiti borghesi consegnati da Alan, andando via si fermarono
a sincerarsi sulle condizioni di Tyler e di Colton.
Colton aveva subito una
lunghissima operazione, aveva rischiato di morire in due occasioni, non
era ancora fuori pericolo, ma avevano un cauto ottimismo.
Don predispose la guardia anche per lui, spostato in terapia intensiva.
Tyler, al contrario, stava
fisicamente meglio nonostante anche lui avesse subito un difficile
intervento pochi giorni prima. Ora era in semi intensiva e i dottori
spiegarono a Don che volevano spostarlo in degenze perché il corpo
rispondeva bene alle cure e non aveva più avuto ricadute o
peggioramenti dal punto di vista fisico.
- Il problema è psicologico.
Suggerisco caldamente sedute di psicoterapia perché sono preoccupato
per il suo stato mentale. - Fu un duro colpo per Don, ma Colby
ringraziò il medico e disse che si sarebbero assicurati che le
eseguissero.
- Da un lato è una buona
difesa in tribunale contro le accuse che lo stato è tenuto a muovergli.
Penso che potrebbero dargli alcuni mesi da scontare in un ospedale
psichiatrico per crollo nervoso. Rispetto a come poteva andare non è
male. Questo gli farà bene, si rimetterà e poi uscirà pulito. -
Don non disse nulla, rimase
serio e silenzioso fino a che varcò la soglia della camera singola di
Tyler, presieduta da due agenti di sorveglianza.
Tyler era seduto sul letto con
la schiena alzata, sotto i cuscini lo tenevano comodo. Le mani strette
insieme sul grembo, sopra le coperte azzurrine.
Lo sguardo spento ed incolore
rivolto verso la finestra da cui finalmente si vedeva uno splendido
sole mattutino sorto da poco. Il cielo era ancora roseo.
La notte era passata, c’era
chi era stato operato e si era salvato la vita per un pelo, chi aveva
dormito e si era rimesso in forze, chi aveva volato da un continente
all’altro col cuore in gola facendo appello a dei numeri per
tranquillizzarsi e c’era chi era rimasto sveglio a fissare la notte e
le stelle, per quel che da lì si poteva osservare.
- Ciao Tyler! - Salutò Colby con un tono sereno. Vedendolo per un momento ricordarono la prima volta che l’avevano incrociato.
Al locale, ben vestito,
corteggiato da un sacco di ragazzi. E mentre tutti cercavano la sua
compagnia, lui aveva cercato quella di Colby.
Quel ricordo era molto lontano
da lì, quasi un eco, nonostante fosse stato vissuto da poco rispetto
alle vicende che avevano concluso il giorno precedente.
Tyler si girò a guardarli, il che era buon segno perché reagiva agli stimoli.
Li riconobbe, ma non fece
cenni, né sorrisi. Il Tyler di qualche sera prima avrebbe sorriso
accattivante e ci avrebbe provato con Colby di nuovo, visto che era
stato uno dei pochi a rifiutarlo.
- Come stai? - Chiese Colby mentre con Don si avvicinava al letto.
- I dottori dicono che mi
riprenderò. - rispose monocorde, infelice. Gli occhi spenti facevano
impressione. La barba era incolta, i capelli spettinati gli davano
un’aria selvaggia e nel complesso, nonostante le occhiaie ed il
pallore, rimaneva padrone di una bellezza insindacabile.
- Io intendevo come stai tu,
non a livello medico. - Specificò indulgente Colby. Tyler si strinse in
una spalla come se non gliene importasse.
- Ci penso. - Rispose poi tornando a fissare fuori, evadendo da quella realtà insostenibile.
- A tuo cugino? - Chiese Colby, mentre Don ascoltava attento cercando di capire se si sarebbe ripreso e quando.
- Cosa ho sbagliato con lui. -
Rispose abbassando lo sguardo come se si vergognasse, come se si
sentisse in colpa. - Come ho fatto a non accorgermi mai di niente fino
a spingerlo a mettere in piedi una cosa simile… -
Don chiuse gli occhi
abbassando il capo per un istante. Si stava colpevolizzando e l’avrebbe
fatto per molto tempo, fino a che qualcosa, qualcuno, sarebbe arrivato
a fargli capire che niente di quello era successo.
- Colton era un manipolatore,
le persone come lui hanno un dono raro, purtroppo lui lo ha usato a fin
di male. Nessuno si sarebbe mai potuto accorgere della sua vera natura,
di quello che tramava sotto ogni gesto. Nemmeno tu. - Tyler sospirò e
scosse appena il capo come per dire che non era convinto. Tornò a
guardare fuori perché non voleva parlarne e discuterne.
- Tyler. - Chiamò poi Don che
era stato in silenzio fino a quel momento. Il sistema che si era creato
fra lui e Colby funzionava tanto nelle indagini quanto nella vita
quotidiana. Colby conduceva interrogatori e conversazioni, Don stava lì
ad osservare e studiava nel dettaglio ogni reazione per poi intervenire
al momento decisivo e tirare fuori quello che voleva. Era un sistema
che funzionava molto bene. - Tyler. - Tornò a dire Don con
fermezza. Tyler si girò verso di lui serio, triste, spento. - L’unica
tua colpa è stata essere te stesso. Passa il resto dei giorni a
rispondere a questa domanda. È una colpa essere sé stessi? Perché
Colton si vergognava ad esserlo, per questo è diventato quello che è
diventato. Il rifiuto verso chi era realmente lo ha divorato fino a far
fare a qualcun altro quello che voleva fare lui. Perfino Max era sé
stesso, nella sua follia di psicopatico. Anche se io credo che senza
quella manipolazione lui non avrebbe mai compiuto quel passo, il passo
dell’omicidio. Una volta compiuto per lui è stata la fine, ma senza?
Chi lo sa come sarebbe andata senza Colton? Io penso che sarebbe potuto
essere una persona in gamba. - Tyler e Colby lo guardavano silenziosi,
colpiti dal suo ragionamento. Così ripeté la domanda su cui voleva che
Tyler si concentrasse per uscire da quello stato depressivo. - Essere
sé stessi è una colpa? Accettarsi, vivere per quello che sì è senza
fare davvero del male a nessuno. Tu eri gay e l’hai vissuto alla luce
del sole. Ti piacevi e ti sei vissuto alla luce del sole. Sapevi
convincere la gente a seguirti e non ti sei nascosto e zittito. Che
colpe sono, queste? Io credo che sia ora che ognuno si prenda le
proprie responsabilità. Tu hai solo vissuto te stesso al centodieci
percento. Devi pagare per questo? -
- Dylan ha pagato per me per questo. - Puntualizzò infine Tyler dimostrando cosa aveva nell’animo come un ossessione.
- E tu hai pagato abbastanza
con questa verità. Penso che da qui in poi tu possa andare oltre e
lasciare a Colton e Max le loro colpe. Le loro. -
Sottolineò ‘le loro’ sperando che Tyler recepisse il messaggio.
Lo osservò, Tyler sospirò e rialzò lo sguardo sul suo.
- Ho bisogno di riflettere, di
stare un po’ per conto mio. - Questo era un punto di inizio, non diceva
categorico che era colpa sua. Forse poteva farcela. Don e Colby lo
sperarono.
- Stanno già cercando Dylan e
dopo che avremo finito di appurare le prove contro Max e quello che gli
ha fatto, lo consegneremo alla famiglia. - Disse Colby. - Ci rivediamo
in quell’occasione. - Tyler annuì al suo nome e alla prospettiva di
poter fare una vera commemorazione e seppellirlo come meritava.
- Vi aspetterò alla commemorazione. - Disse poi dando una speranza sul fatto che potesse presto trovare la forza per rialzarsi.
Don e Colby sorrisero, Colby
gli toccò la gamba, poi se ne andarono. Nel corridoio, mentre andavano
a ricongiungersi ad Alan e Charlie, Colby chiese a Don sottovoce:
- È davvero una delle persone
più forti che abbia mai incontrato. - Don fece un sorrisino e lo guardò
velocemente, con un tocco di malizia:
- Sì? Pensa che io un’altra
l’ho già incontrata. Ha una forza interiore che di rado ho visto! -
Colby capì che parlava di lui e capì che era addirittura un complimento
romantico, per i suoi canoni.
Ridacchiò e si illuminò compiaciuto delle sue parole.
- Ecco perché ci siamo trovati
subito bene io e Tyler, siamo simili in questo aspetto! -
L’insinuazione del trovarsi bene fra di loro non piacque poi a Don che
da malizioso divenne severo e fulminandolo alzò il dito.
- Io e te dobbiamo fare un
discorsetto! - Colby rise compiaciuto del Don geloso, anche se era
consapevole che poteva essere leggermente pericoloso. Per il momento
voleva solo goderselo, ai sistemi per stare bene con lui ci avrebbe
pensato dopo.
Don e Colby si congiunsero ad
Alan e Charlie, tutti e quattro sorridevano, chi più chi meno, felici
di potersene andare da quel posto che per forza maggiore trasmetteva
sempre brutti ricordi.
Era ora di riprendere la vita
da dove si era interrotta, di ricominciare meglio di prima per cercare
di stare bene. Ora si poteva.
Non che fosse una festa di
bentornato per qualcuno, però finì che a casa di Alan si radunarono
diversi amici per salutare Charlie e vedere come stava Don, fra FBI e
università, era un bel gruppetto.
Quando Don vide tutte quelle
persone, alzò gli occhi al cielo. La verità era che voleva stare solo
con Colby, stendersi in un letto e stare lì con lui a parlare.
Però chiaramente Charlie ed
Alan avevano insistito per una cena insieme visto che poi Charlie
sarebbe ripartito fra pochi giorni.
Così finì che la cena si
trasformò in una festicciole fra birre, un paio di pizze mega ordinate
per asporto e Nikki che aveva deciso di mettere su della musica al
posto della solita partita.
Gusti rock, chiaramente.
Don poteva fare ben poco, era
ancora stanco ed indolenzito. Nei polsi e nelle caviglie si
cominciavano a vedere i segni lividi delle catene a cui era rimasto
appeso, il petto faceva un po’ meno male quando respirava, meglio se
stava seduto e fermo con la schiena dritta appoggiata allo schienale
del divano, posizione perfetta che Don non cambiò per un bel po’.
Fino alla necessità naturale di andare al bagno.
Parlavano di gusti musicali, chi preferiva il pop, chi l’elettronica, chi il latino, chi il rock.
Giunsero a Don e nonostante odiasse parlare di sé, specie davanti a tante persone, Charlie lo incitò.
- Avanti, perché vergognarsi? - Don alzò gli occhi al cielo dopo averlo fulminato.
- Di cosa dovrei vergognarmi? -
- Avanti, io ho detto che adoro i Linkin Park! -
- Tutti sanno che adori i Linkin Park, non è come dirlo! - Puntualizzò polemico Don.
- Ma se nessuno sapeva che il
suo film preferito non è The Heat ma… - Colby stava per rivelare il
piccolo segreto del suo film preferito, ma essendo l’unico oltre a
Robin, al momento assente, a saperlo, Don gli mise un cuscino sulla
faccia. Non voleva che si sapesse che aveva gusti romantici. Gli
piaceva la sua reputazione.
- Vuoi avere ancora un lavoro domani? - Chiese Don grugnendo. Colby alzò le mani in alto e si zittì di colpo.
- Beh, ma tu non sai quale
musica ascolta tuo fratello? - Chiese Nikki mettendo su gli Skunk
Anansie con il suo I-Phone collegato allo stereo.
Charlie si grattò la nuca
imbarazzato, i capelli erano corti di un taglio delizioso che lo
aiutavano a stare bene coi suoi indomabili ricci, un taglio ovviamente
non troppo corto.
- Pensate che sia facile
crescere con Don? Lo vedete ora? Chiuso, riservato, che vorrebbe morire
pur di non dire cosa gli piace? E credete che da adolescente fosse più
aperto? - La sua risposta fece ridere tutti che capirono cosa doveva
essere stato Don da ragazzo. E su quello, Don annunciò il suo bisogno
di andare in bagno. Fra le risa fece per alzarsi piano, ma dopo tanto
tempo seduto i muscoli si erano indolenziti, perciò quando fece lo
sforzo, schiena e torace gli rimandarono delle fitte che per un momento
aveva dimenticato.
Don, col braccio sinistro
appeso al collo, al tutore, alzò gli occhi al cielo con una smorfia che
gli costò molto a livello personale. Colby e Charlie la colsero poiché
gli altri erano distratti a prenderlo in giro, e Colby, seduto vicino a
lui, fu più veloce a prenderlo per il braccio destro e ad aiutarlo ad
alzarsi.
- Non sono un derelitto, ce la faccio! - Brontolò mentre accettava il suo aiuto.
- Sì certo ed io voglio avere
ancora un lavoro domani, quindi farò il lecchino del capo! Lasciamelo
fare! - La mise come uno scherzo tipico suo, così gli altri
continuarono a ridere mentre i due andarono su per le scale alla
ricerca di un bagno.
Arrivarono in quello della
camera di Charlie, chiusa e adibita a santuario fino a che non sarebbe
definitivamente tornato dalla sua esperienza annuale in Inghilterra.
Colby si offrì di aiutarlo anche dentro coi pantaloni, ma lui brontolò
ed entrò da solo. Poco dopo imprecò e lo chiamò.
Colby entrò ridacchiando divertito, Don si girò verso di lui con la destra lungo il fianco.
- La cintura. - Aveva
dimenticato come in ospedale si era fatto portare dei vestiti
chiedendone di normali. E fra i suoi ‘vestiti normali’ c’erano sempre
jeans e cintura. In quell’occasione Charlie aveva goduto ad
allacciargli tutto, mentre Don si lamentava delle sue richieste e di
suo padre che non rifletteva mai quando serviva lo facesse.
Colby entrò e con un sorrisino
che divenne malizioso gli prese la cintura e guardandolo negli occhi da
vicino, disse piano e suadente mentre l’apriva piano:
- Mi viene da pensare che
avevi progettato questo momento, ecco perché ti sei fatto portare jeans
e cintura invece che una comoda tuta! - Don lo ricambiò con uno sguardo
che si fece altrettanto malizioso e non disse nulla, rimase a farsi
fare.
Non lo baciò, non lo provocò,
ma quello sguardo così ravvicinato mentre Colby gli slacciava i
pantaloni fu sufficiente ad eccitarlo.
Lo lasciò e rimase lì vicino davanti a lui.
- Ti serve altro? - Chiese infine come se lo invitasse a qualche proposta indecente.
Don mantenne quell’aria sorniona e maliziosa insieme, penetrante, con mille sottintesi. Infine scosse il capo e lo ringraziò.
- Faccio subito. - Mormorò girandosi verso il WC. Colby annuì ed uscì dal bagno aspettandolo nella camera di Charlie.
Incredibile come fosse facile buttarsi in una nuova storia, in una nuova vita. Davvero sconvolgente.