CAPITOLO V
CHE PALLE!
PARTE
II
- Ma…ma… non sarai mica un frocetto?… - una sfumatura di strafottenza
nell’esclamazione ed un’espressione a dir poco irritante sull’adorabile
faccina da deretano.
Un
sopracciglio aggrottato in risposta, tradotto: non ci vide più, perse
la pazienza. Un moto d’ira invase il suo corpo, caricò un diretto e le
spaccò il naso. Per lo meno non starnazzava più a vuoto, frignava per
un motivo adesso la troietta!
Non
appena si capacitò della scena dal retrogusto pulp, sbiancò
impercettibilmente e sparì dietro la porta del bagno. Con abbondanti
getti d’acqua gelida sul viso cercò di riscuotersi, riprendere il
controllo, ma le emozioni che lo percorrevano in realtà erano
indecifrabili sul volto dai lineamenti marcati.
“ Ok Gabriele…
c’è una bella differenza fra l’immaginare una cosa e farla sul serio…”
Imprecò
contro sé stesso. No, così non andava. Non sarebbe diventato come quel
vigliacco…
Era
stata così realistica l’impressione… si meravigliava delle sue nuove
capacità di visualizzazione, ancora i viaggi di fantasia lo
spaventavano… e pensare che c'era stato un tempo in cui l'immaginazione
lui nemmeno sapeva esistesse.
All’esterno
della toilette fu grato a sé stesso nel vedere la ragazza di prima con
la faccia ancora intatta: una cretina, già brilla, che ci aveva provato
con lui col solo risultato di infastidirlo. Che rottura di scatole!
Odiava quando diventavano soffocanti! Probabilmente ora lei lo stava
sputtanando agli occhi delle sue amiche, ma a Gabriele non importava un
fico secco di quello che potevano pensare di lui delle tipe squallide
del genere. Non se ne curò nemmeno.
Sollevato,
si mosse, la sua meta il bancone.
-
Vedo che hai fatto conquiste - lei, parlando, strofinava un bicchiere;
lì Alex era in veste di cameriera, non di bullo piantagrane.
Lui
semplicemente non fece caso all’innocente provocazione. La conosceva,
si aspettava un'uscita del genere. In realtà l'ossessivo scrutare di
sottecchi le persone in passato, l'aveva reso un buon osservatore della
fauna umana, ormai grazie all'esercizio, l'imprevedibilità altrui non
gli metteva più paura. Sapeva che dietro quelle parole di Alex si
nascondeva anche un'irragionevole dose di gelosia, la cosa lo divertiva
un po' in un certo senso. Non c'era niente fra loro, oltre un'amicizia
solidissima, ma lei aveva questa possessività congenita…
Le
ordinò, placido, una Weisse media ed una piadina atomica, intossicante
come solo al Fog Spirits sapevano farcirle, nel frattempo uscì a
fumarsi una sigaretta.
Sentì
parlare un gruppo di ragazzi all'esterno, pausa cicca anche per loro, e
scoprì che erano le 21.00. Presto! Eppure c'era già un potenziale
casino! Un discreto nugolo di gente occupava il locale, forse fans
arrivati/e in anticipo a caccia di autografi e foto con i membri della
band che si sarebbe esibita quella sera. Seppe che si trattava degli
Eclipse grazie ad un manifesto appeso sulla vetrata. Li conosceva di
fama, gli Eclipse avevano un'immagine un po’ troppo patinata per i suoi
gusti, ma aveva sentito dire che live funzionavano benissimo e
soprattutto che il cantante era un animale da palco, quindi la
curiosità lo forzò a rimanere per verificare se tutto ciò corrispondeva
alla verità: pensava di ascoltare i primi brani e poi andarsene.
Suo
malgrado prima della verifica gli toccò seguire, nel bel mezzo della
sua cena, un altro spettacolo da baraccone: una colorita discussione
fra la sua amica d’infanzia ed una tizia che frequentava la loro stessa
classe. Gabriele ne ricordava il nome giusto perché le era seduto
davanti in aula e la sentiva spesso chiamare. Tea. Aveva un bel
coraggio quella! Infilato il muso nel locale s’era messa a fare la
predica ad Alex per il casino combinato a Del Gobbo! Il diverbio si
concluse con la rossa che strizzava le tette alla bionda e con una
risata sonora e spontanea da parte della capo teppista... beh questo
non era da Alex! Reagire così… serena? Gabriele rimase spiazzato. Anzi,
per intercessione di Shadir, comparso anche lui al Fog con uno spunto
diabolico, le due ragazze trovarono persino un motivo d’alleanza
organizzando uno scherzetto al povero, ignaro, bersagliato Andry. Alex
doveva essere come minimo di buon umore!
"Surreale…" si ritrovò a constatare il messicano, oltre a
domandarsi se quello non fosse un raduno della 5^A…
Alex
gli avrebbe raccontato solo qualche giorno dopo quanto l’operazione
Eclipse fosse risultata un successo su tutti i fronti; a lui non
interessava molto, ma inspiegabilmente proprio quella sera, prima di
andarsene dal pub, persino Gabriele dentro di sé partecipò a quel
compiacimento, una considerazione gli frullò in testa soppesando
l'esibizione di Andry:
“Se la educasse
un po’ quella voce…” ammirativo, speranzoso.
Lo
afferrò brutale tirando i rasta e lo forzò fino a fargli cozzare il
cranio contro il frigorifero. La bottiglia che Gabriele teneva in mano
si rovesciò a terra. Poi lo prese di peso e lo sbatté con la schiena
contro la parete. Era così che Gabriele si sentiva in quei momenti: con
la schiena al muro, senza via d’uscita. Lo colpì duro in faccia.
Ennesimo occhio nero il giorno dopo. Continuò a picchiarlo: il suo
benvenuto. Gabriele era accasciato mentre calci puntavano allo stomaco.
Gabriele rannicchiandosi si faceva piccolo. Gabriele davanti alla
violenza del padre era indifeso. Gabriele tornava bambino. Gabriele non
c'era più, smetteva d’esistere.
Gabriele
incassò senza emettere un fiato, come al solito. Era stato veloce
l'hombre stavolta, non aveva infierito molto e c'era andato leggero
tutto sommato. Probabilmente la sbronza era più debilitante del
normale, echeggiarono per l'appartamento i conati di vomito e il rumore
dello sciacquone; oppure, prima di scolarsi la sua dose di whisky al
bar, era riuscito a sbattersi una qualche puttana, perciò si sentiva
già placato, il macho. Alcolici e sesso gentilmente finanziati
sprecando i due soldi guadagnati dalla mogliettina col part-time al
supermercato, ovvio! Ormai suo padre nemmeno si sforzava di levare le
chiappe e cercarselo uno straccio di lavoro per tirare avanti! Non che
lei fosse una santa, la madre di marmo, attaccata alla bottiglia quanto
il degno compagno! Ma in qualche modo, nonostante se ne sentisse
orfano, Gabriele forse la capiva… rispettarla no, amarla davvero
neanche, l'affetto che lei gli aveva riservato in quei diciott'anni,
d'altronde, era grande quanto una nocciolina…
Eppure era proprio
quando i suoi genitori diventavano bestie che non poteva fare a meno di
provare pietà. Ormai era disilluso, ma l'umanità, quella gli era
rimasta. Quel qualcosa, quel qualcosa che non gli permetteva di
mandarli al diavolo: un peso, un errore, un intoppo, un idiota buono a
nulla ecco lui cos'era, venire al mondo era stata la sua colpa, ogni
bruttura dunque meritata.
Da
quanto durava quella prassi? Come poteva ancora reggersi la triade
penosa della loro famiglia? Sopportavano ciò che non riuscivano a
perdonarsi. Perché? Non lo sapevano nemmeno, forse. Cosa? Sfocato,
persino fuori traiettoria talvolta. Cosa? Probabilmente tutto. Una
necrosi da silenzi gelidi e sguardi spenti. Vacui, estranei. La
granitica assenza di percezione d’una vera casa: lì non c’era, non
c’era mai stata. Distanti, assenti. Occhi che non volevano riconoscere
i fardelli irrisolti, i linguaggi mai acquisiti, i visi inesplorati, i
dolori (auto)inflitti, i non-rapportmmalsani, il ripiegarsi sterili in
attesa di sicure non-reazioni, le reti di dissapori muti, le
frustrazioni. Cuori testardi nonostante tutto non volevano accettare
d’esser falliti, stupidi, fragili, rassegnati.
Ad
accoglierlo dolore, fisico e morale. Gabriele non lo sopportava,
dannazione, non lo sopportava! Non serviva averci fatto il callo, ogni
volta arrivava a soccomberlo come l’intimidazione della forza d’un uomo
maturo, ogni volta arrivava rinnovato come lo shock della paura, ogni
volta amaro come il disprezzo da parte di chi dovrebbe incarnare il tuo
sostegno. Ogni volta avrebbe ceduto alla pulsione di scappare per
sempre nel vuoto, all’invitante sensazione di rifugio, alla seduzione
di trascinarsi verso la totale assenza. Rifiutare il peso di quella
realtà sarebbe stato comodo, indolore (non era vero e lo sapeva), ma
era solo la via più facile, una fuga (e lo sapeva). E lui da dissidente
aveva già rotto la catena per scoprire che a quel modo non serviva,
allora aveva fatto i conti con sé stesso e così, per sforzo e merito,
almeno da un giogo s’era liberato. Dunque aveva vinto? Era davvero
cambiato? Qualcosa era cambiato? A volte, in quei momenti, gli pareva
assolutamente niente.
Ma
che senso aveva il paragone col suo passato vissuto dietro quella
specie di oblò schizofrenico? Il presente era adesso, il maroso da cui
s’era schermato ancora in movimento. Quella era la sua vita, punto e
basta. La doveva guardare in faccia, puntarle contro il dito
all’occasione ma non c’erano evasioni, estraniamenti che potessero
modificarla. Lo sapeva, il prezzo l’aveva pagato sulla sua pelle: anni
scivolati via e il conforto subdolo di un’alienazione tanto innocua da
cancellarlo, quasi. Quella era la sua vita… aveva solo quella
nient’altro che quella… poteva bastargli se le rubava il meglio che
poteva, se imparava ad aderire…
“Già io sono il
perno, la mai volontà la leva…” o era viceversa?
Ad
ogni modo ripeté in testa, come la ricordava, la frase tantra da due
soldi suggerita da un qualche strizzacervelli, quindi con uno sforzo di
concentrazione riconnesse tutto il suo essere al corpo, alle emozioni,
all’esterno e si levò in piedi. Una capatina in bagno per controllare
l’entità delle botte e medicarle alla buona sarebbe stata sensata,
invece lento e silenzioso filò in camera, chiudendo a chiave la porta.
Era un'abitudine, odiava che i suoi genitori mettessero le zampe lì
dentro, la sua stanza era un tempio, almeno quello non lo avrebbero
profanato. Lo spazio abbastanza per un materasso buttato a terra con
accanto scatole di scarpe piene di cd e alcuni libri, una abat-jour
sopra un minuscolo comodino in cui teneva i quadernetti su cui annotava
le sue poesie, un'ingombrante vecchia cassettiera per i vestiti e la
biancheria reggeva un piccolo stereo, accatastati contro il muro testi
scolastici e poi le sue due chitarre con un amplificatore: il sacro
luogo sorvegliato da un solitario poster di Kurt Cobain, appeso
all'interno della porta.
Scalzo
e a petto nudo Gabriele si distese sul letto a fissare il vuoto del
soffitto, dalle imposte semi aperte penetravano raggi di luce
artificiale, striavano l'interno. Rimase in quella posizione qualche
minuto; teso, le mascelle si strinsero, serrò i palmi contro le unghie
fino a farli sanguinare. Serve energia per arginare.
Il
corpo tornò rilassato, dopo.
-
Che palle –
Ne
valeva la pena? Farsi del male, ancora? Consumarsi in quel rancore
inespresso, in quell'odio contorto verso di *lui* , anzi entrambi
*loro* … verso sé stesso: a che scopo?
Respirò
a pieni polmoni, avvertendo lievi fitte qua e là. Non se ne curò,
stoico o solo incosciente. Afferrò un libro avuto in prestito dalla
biblioteca: "Sulla Strada" di Kerouac. Momentaneo handicap
d'attenzione, scorreva il testo senza capirci un accidenti, mise da
parte la lettura. Una cosa soltanto aveva il potere di risollevarlo e
lui, fortunatamente, ora sapeva armeggiare con la sua miscela
alchemica. Imbracciò la chitarra elettrica ignorando il dolore al
torace ed il bruciore alle mani. La spia rossa accesa indicava che
l’amplificatore era in funzione, inserì il jack dello strumento e le
cuffie. Le sue dita lunghe ed affusolate si mossero esperte sulle corde
e sul manico. Nelle sue orecchie risuonarono note, riff, accordi,
armonici. Continuò a suonare ancora, a lungo: quella notte avrebbe
composto una nuova canzone. Solo così sapeva chi e cos'era; solo così
tornava libero e vivo; solo così ritrovava il rispetto per sé stesso:
creando, suonando.