CAPITOLO
VI:
TUTTI FERISCONO
… SPECIE GLI ADULTI!
Erano dei
giorni sereni, tutto sommato.
Troppo.
Le lezioni
proseguivano in completa pace per i suoi canoni, era sempre più amico
degli studenti, si era ubriacato di meno rispetto al suo solito… era
anche riuscito a ridurre le sigarette ad un solo pacchetto giornaliero!
Era contento ed
era ovvio che cominciasse a preoccuparsi.
Motivo?
Oltre a tutte
quelle note positive, c’era il fatto che era da mesi che non sentiva
più Michelle, qualcosa che non era mai accaduto!
Ora, lui non è
che fosse preoccupato perché pensava che stesse male, lo era perché era
SICURO che presto si sarebbe fatta sentire con una nuova disgrazia.
In realtà non
aveva sbagliato i suoi calcoli, solo che alla lista dei motivi di
preoccupazione doveva aggiungerci anche quell’opzione che aveva
scartato: che fosse successo qualcosa alla sua ex ragazza-calamità
naturale?
Non prese in
considerazione la questione finché non suonò il campanello del suo
appartamento disordinato ed un bambino sui 10 anni non gli si trovò
davanti.
Era alto per
uno della sua età, sempre che ne avesse 10, di bell’aspetto ma
piuttosto scarmigliato, capelli rossi, lisci, scomposti sulla fronte,
una specie di taglio a funghetto che però gli donava; gli occhi erano
azzurri e l’espressione era poco socievole, piuttosto scorbutica in
realtà, come se ce l’avesse con chiunque gli capitasse a tiro!
- Sei tu Ryan
Del Gobbo? –
Aveva detto il
bambino con un tono che sembrava accusare.
L’uomo
inghiottì a vuoto riconoscendo il bambino, mesi fa lei gliene aveva
mandato una foto.
- Si… -
Ma cosa era
successo?
- Mia madre,
Michelle Reneè, è morta e i suoi genitori non volendo occuparsi di me
mi hanno indicato questo posto. Hanno detto che mi avresti spiegato tu.
Chi sei? –
Aveva parlato
sempre con quel tono accusatore, ma non era alterato o iroso, era più
strafottente. Ryan cominciò a sudare freddo, si dimenticò di respirare
e impallidendo vistosamente indietreggiò notando solo in un secondo
momento le valigie che si era portato appresso.
Panico.
Chiamasi panico
quella sensazione di confusione mentale che si ripercuote sul fisico
bloccando ogni facoltà intellettiva sensata.
Ryan vi era
sommerso.
Cosa dire?
Cosa fare?
COSA PENSARE?
Michelle morta.
Questo lo
comprese.
Il resto però
lo perse per poi riprendersi sulla domanda finale: chi sei?
- C-c-chi sono?
–
Ripeté
balbettando, il piccolo si seccò e sbuffando riprese:
- Si, chi sei?
Io mi chiamo Daniele Del Gobbo, tu hai il mio cognome perché sei mio
zio? Mio cugino? Chi diavolo sei? –
Per parlare già
in quel modo doveva essere stato cresciuto in un ambiente difficile, ma
non pensò a questo squadrando il bambino che aveva davanti. In realtà
ripeteva come un pappagallo ogni parola e si chiedeva come mai la sua
vita invece di migliorare andava peggiorando.
Solo
secondariamente avrebbe rivalutato la situazione, quando in effetti
sarebbe migliorata, però inizialmente gli si presentava una scena da
paura, per uno come lui.
- Allora? –
Chiese ancora
impaziente.
All’ennesimo
richiamo si riscosse trovandosi in un vicolo senza uscita, c’era poco
da fare, toccava a lui dirgli come stavano le cose ma sapeva cosa gli
aveva raccontato quella strega. Quanto avrebbe sofferto quel bambino,
ora? Sicuramente l’aveva dipinto in un modo completamente diverso, gli
aveva fatto credere che suo padre era morto, come spiegargli ora che
era stato abbandonato dalla madre e dai nonni, che invece suo padre era
vivo e che la vera ‘cattiva’ era la madre morta?
Eppure non
aveva idea del rapporto che quei due avevano avuto, magari con lui si
era comportata bene, chi poteva saperlo.
Ormai certe
cose si sarebbero sepolte con lei.
Si fece forza e
decise di dirlo semplicemente come lui avrebbe saputo dirlo:
- Io sono tuo
padre… -
Le parole
potevano essere molto crudeli, più di qualsiasi gesto o morte
improvvisa.
Fu dura,
veramente dura da digerire e non ci riuscì subito. Il bambino sgranò
gli occhi allungati, erano azzurri e molto belli, come quelli della
madre, una splendida donna… da dire era che il padre non era comunque
da meno!
Temette per lui
e la sua reazione: non sapeva che tipo fosse, come potesse reagire, in
quale misura fossero gravi le bugie raccontategli… certo di vigliacchi
il mondo ne era pieno, ma ormai lui non poteva far altro che
amplificare il dolore inflitto da altri. Gli rimaneva solo questo
poiché la verità era sofferenza, il più delle volte.
Non avrebbe mai
potuto immaginare cosa significava per un bambino della sua età averne
passate già così tante, mentre si riprendeva e notava i cambiamenti di
stupore del suo viso, rifletteva veloce su tutte quelle considerazioni.
Si sentiva solo
l’ennesimo idiota con una pistola in mano che sparava a chi non
chiedeva altro che vivere.
- Mi dispiace
tu lo sappia così, non mi aspettavo una cosa simile… non ero preparato
a… tutto questo… -
Gli sembrava
troppo anche dirlo: ricevere suo figlio, spiegargli chi era, vederlo
dal vivo quando mai questo era accaduto, sapere che la donna odiata, un
tempo amata, con cui aveva fatto quella creatura per errore ora era
morta, che nessuno l’aveva voluto, che ora si trovava a fare il PADRE
improvvisamente, senza avere idea di come si facesse, di cosa
significasse, che ora doveva conoscere un figlio sconosciuto e
impedirgli di crollare emotivamente e mentalmente.
Prevedere le
mosse altrui non era stato il suo forte, nemmeno reagire
successivamente, aveva sempre fatto tutto allo stesso modo: si era
lasciato vivere. Ora gli sarebbe toccato darsi da fare, prendere le
redini, comandare...
- No. Mio padre
è morto che io ero ancora nella pancia della mamma, non è possibile.
Chi sei veramente? –
Dopo lo stupore
iniziale aveva iniziato a ragionare dicendosi che sua mamma non poteva
avergli mentito su una cosa così importante, era stata la sua dea, gli
aveva insegnato a sopravvivere da solo in quel mondo terribile, a non
fidarsi di nessuno, ad essere furbo e mettere alla prova le persone per
non soffrire.
Come poteva
essere ora che proprio dell’unica di cui si era fidato, in realtà era
la più falsa?
Mortificazione
nello sguardo di Ryan non ancora pronto a quella situazione.
- Mi dispiace
ma è così… non so cosa ti abbia raccontato tua madre ma posso spiegarti
la nostra vera storia ora… -
L’uomo fece un
passo avanti ed istintivamente lui ne fece uno indietro; fiducia, che
parola grossa specie per uno ‘addestrato’ a non darla a nessuno, specie
per uno che era appena stato tradito dall’unica di cui invece si era
fidato.
- Daniele? –
In un istante
lo sguardo divenne cupo, si notò la rabbia attraversarlo per poi
divorarlo, non era un bambino dal carattere facile, lo capì in un
istante, ma cosa significava precisamente?
- Non me ne
frega nulla della tua storia! Sei un bugiardo! Tu, mia madre, i miei
nonni… tutti… -
- Daniele… -
- Smettila di
dire il mio nome! Con che diritto? – Gli mise una mano sulla spalla e
questo provocò uno scatto: - Lasciami! Per chi mi avete preso, tutti
quanti? –
Ryan si spiazzò
non aspettandosi una cosa del genere,tanto meno un linguaggio simile.
Rimase a guardarlo sconcertato con la mano a mezz’aria respinta dal
figlio, senza avere idea della mossa migliore da fare.
Solo lì si rese
conto di ciò che aveva dovuto passare in pochi giorni quel bambino.
- Io… -
Provò a dire
qualcosa ma non uscì nulla, non era un tipo che al momento giusto
tirava fuori le parole giuste, per lo meno non credeva di esserlo.
Una persona
senza forza, completamente debole, immersa nelle proprie disgrazie.
- NO! NON
VOGLIO SENTIRTI! BASTA! –
Aveva urlato
con tutte le sue forze quell’ultima frase ed era scappato come un lampo
lasciando tutti i suoi bagagli lì.
Neppure volendo
non avrebbe potuto fare nulla, ma il punto fu che nemmeno ci provò e
questo lo colpì molto, Daniele, facendolo soffrire ulteriormente.
Ryan rimase
qualche minuto inebetito a guardare la porta aperta e le valigie del
figlio, non si mosse, pensò che fosse una cosa incredibile e terribile,
che non aveva la vaga idea di cosa dovesse fare, come fare a
convincerlo a stare con lui e come trattarlo una volta convinto.
Poi però come
se una voce interiore lo sgridasse, si disse che una cosa era certa:
non poteva lasciarlo andare e qualunque cosa sarebbe servita, l’avrebbe
fatta, non importava se al momento era nel caos e non sapeva; non
sapere non implicava il non agire.
Doveva fare
qualcosa e qualcosa avrebbe fatto!
Partì di corsa
dietro al ragazzo con un vantaggio di qualche secondo, non era un tipo
atletico e si trovò in difficoltà a star dietro ad una piccola scheggia
infuriata col mondo. Lo chiamò a gran voce e il piccolo aumentò la sua
velocità, convinto che non sarebbe mai tornato indietro!
Correva come se
così facendo potesse scappare dalla sua situazione terribile, come se
potesse tornare indietro nel tempo o cancellare le cose brutte che gli
erano accadute. Correva e sperava che sarebbe servito a qualcosa.
Correva e
sapeva che nulla sarebbe cambiato da cinque secondi prima.
Eppure l’idea
di vivere con quell’uomo sconosciuto che istintivamente gli dava una
brutta impressione e che aveva paura di lui, di un bambino, lo spingeva
ad andarsene da lì. Qualunque altro posto sarebbe andato meglio.
Qualunque.
In fondo quello
diceva di essere suo padre, colui che credeva morto, il fatto che non
lo fosse significava che non lo aveva mai voluto con sé e la reazione
del presente lo confermava, come non l’avevano più voluto i nonni che
appena morta la madre si erano liberati di lui.
In fondo
l’unica persona di cui si era fidato, a cui aveva voluto bene, che
l’aveva forgiato, aveva scoperto essere una bugiarda.
Non sapeva
perché ma lo era e questo bastava.
Non poteva più
nemmeno vivere nel mito di una grande madre o di un grande padre.
La madre era
stata una falsa, il padre non l’aveva voluto, come tutti gli altri.
Per cosa vivere?
Già, qualunque
altro posto sarebbe andato bene.
Fu per questo
che cominciò a correre senza nemmeno più guardare dove andasse, non gli
importava, non gli importava nemmeno di attraversare la strada e
sfidare il fato, quel fato crudele che gli aveva inflitto così tanti
colpi.
Fu mentre si
gridava nella mente che non gli importava niente, che sentì una grande
frenata sull’asfalto, molte grida, su tutte quella di suo padre che lo
chiamava, successivamente una folata di vento, un forte strattone e una
grande caduta.
La sua.
Ma non da solo.
Era stato
spinto e con lui era caduto quello che l’aveva fatto.
Non capì cosa
era accaduto, rimase un attimo immobile sotto shock, alzò la testa
dall’asfalto e vide molta gente, un pezzetto di cielo e la parte
posteriore di un’auto ferma col motore acceso.
Sentì l’odore
di gomme bruciate e un braccio che lo cingeva come a proteggerlo.
Se questo
l’avesse fatto suo padre qualcosa sarebbe cambiato, qualcosa l’avrebbe
spinto a ricredersi, qualcosa gli avrebbe fatto capire che c’era una
verità da sapere.
Peccato che non
era stato Ryan, non era arrivato in tempo.
Ad arrivare in
tempo era stato un ragazzo sconosciuto dall’aria un po’ spenta e lo
sguardo un po’ infantile.
Come chi sapeva
rifugiarsi in un altro mondo per evitare le ingiustizie della realtà.
Fu quella
l’unica idea che gli trasmise Gabriele con un unico sguardo, poi se ne
dimenticò poiché era arrivato precipitandosi suo padre abbracciandolo.
Questo l’aveva
stupito profondamente shockandolo maggiormente rispetto al suo scampato
investimento.
Non calcolò la
gente che chiedeva se andava tutto bene, si dimenticò anche del ragazzo
che l’aveva aiutato, sentiva solo l’abbraccio che gli veniva posto in
modo inaspettato.
Che cos’era?
Era forse
l’abbraccio di un padre preoccupato?
Il primo?
Era strano, non
capiva bene, doveva pensarci meglio.
Si disse solo
quello mentalmente, poi respinse l’uomo che gli chiedeva se fosse tutto
intero: non era comunque arrivato al punto di poterlo già perdonare.
Non se ne rese
conto ma il fatto che si dicesse una cosa simile indicava che era già
disposto a perdonarlo, in un futuro più o meno prossimo.
- Gabriele…
grazie! Ti devo la vita! –
Gli venne
spontaneo dire una cosa simile, aveva appena pensato che sarebbe morto
lui stesso se Daniele non ce l’avrebbe fatta.
Non pensò che
non era stata un’azione non da lui, non pensò nemmeno alla gente che
voleva sapere, non pensò a null’altro se non subito a suo figlio che
era vivo e che doveva fare in modo ci rimanesse a lungo. Avrebbe dovuto
trovare il modo di parlargli seriamente e farsi ascoltare, eppure
sapeva che al momento non avrebbe mai voluto ascoltarlo.
La pazienza, si
diceva, era la virtù dei forti.
Ne sarebbe
stato in grado?
Non capitò
altro se non che Daniele tornò in sé, si alzò e ringraziando il ragazzo
al quale Ryan l’aveva presentato come suo figlio, facendosi così
guardare in modo lievemente strano, si riavviò verso la sua nuova casa,
decidendo in quell’istante cosa fare.
Una volta a
casa Ryan si sentì dire questo, con uno sguardo molto serio ed adulto
nonché comunque scontroso:
- Ho pensato a
tutti i modi in cui avrei potuto e dovuto reagire e dopo di questo non
mi è venuto in mente altro. Non voglio sapere nulla di te e di quella
che era mia madre. La vostra storia, la tua, non mi interessa. So quel
che mostrano i fatti. Tuttavia nella mia poca esperienza di vita ho
capito che non potrò mai sapere chi aveva ragione fra voi. Posso solo
pensare al mio presente ed al mio futuro. Al momento non ho altra
scelta che vivere con te. Voi grandi siete un branco di idioti che
feriscono i bambini, il meglio che noi piccoli possiamo desiderare è di
sopravvivere, con te posso farlo e non ho scelta, come dicevo. Quindi
non parliamone più! –
Concluse in
questo modo il suo lungo discorso che non sapeva di bambino nemmeno in
una frase di quelle parole troppo poco infantili.
Ryan continuò a
guardarlo scrutando il suo viso, cercando di capire i suoi reali
pensieri, che tipo fosse e come comportarsi con lui:
“Forse
odia solo tutti i grandi, è comprensibile visto come si sono comportati
con lui… ed io come farò a fargli cambiare idea almeno su di me? Ma
soprattutto… come si fa il padre? Che ne so io di come sono fatti i
padri? Il mio era terribile! Oh Gesù, aiutami!”
Pensò questo
prima di farsi prendere nuovamente dal panico, realizzando che da ora
avrebbe vissuto con suo figlio!
Un tugurio.
Ecco come
definì Daniele l’appartamento del padre, senza troppi problemi. Del
resto non lo si poteva biasimare.
Dove viveva
prima non era una villa, ma nemmeno un appartamento così mal ridotto:
era una donna con buon gusto, che curava la casa a due piani che
possedeva facendosi aiutare da una governante. Una volta morta, questa
ragazza era stata cacciata come anche il figlio, i genitori non
l’avevano più voluto intorno, d’altro canto il padre era vivo ed era
giusto che se ne occupasse lui.
Ricordava
nitidamente il momento in cui era arrivata la telefonata dall’ospedale,
l’aveva raccolta proprio lui. La sensazione di vuoto era viva in lui,
ricordò chiaramente l’idea di essere sospeso in aria, il successivo
bruciore gelido che gli aveva infiammato la pelle facendolo sudare
freddo, il ronzio alle orecchie, il mal di testa crescente e il respiro
tagliato.
Erano
sensazioni ancora forti in lui e mai il rumore di un telefono che
cadeva, gli era sembrato così forte.
Un bambino.
Era solo un
bambino cresciuto nel mito di un padre morto prima della sua nascita,
di cui non aveva mai visto nemmeno una foto, un bambino a cui la madre
aveva provveduto a tacergli certe verità, facendo in modo di renderlo
forte, furbo ed intelligente.
Il risultato
era stato solo uno: un odio incontaminato per gli adulti, tutti,
nessuno escluso.
Sospirò
scontento rivendendo la sua vita fino a quel momento, era solo un
moccioso che ne aveva passate tante, che ne avrebbe dovute passare
ancora di più e che non aveva più scelta. Era solo un moccioso che
voleva crescere per farsi valere, per non venir più calpestato, che
soffriva quindi della sua condizione di piccolo.
Odiava i grandi
ma voleva diventarlo lui al più presto.
La verità era
che ciò che odiava veramente di più al mondo era sé stesso e il suo
essere solo un bambino insulso!
- E’ uno
schifo! O pulisci o chiamo io qualcuno che lo faccia! –
Non gli passò
per l’anticamera del cervello che forse i soldi di cui disponeva il
padre erano minori rispetto a quelli della madre.
Il problema
‘soldi’ non l’aveva mai sfiorato.
Ryan si sentì
rivolgere una frase tanto sfrontata da lasciarlo di sasso, si guardò
intorno: un appartamento in disordine, sporco, che puzzava di polvere,
di cibo, di fumo, di alcool e di chiuso, buio e trascurato. Forse non
aveva tutti i torti. Ricambiò lo sguardo del figlio con uno che sapeva
di scuse e si strinse nelle spalle dicendo con un filo di voce:
- Farò del mio
meglio… -
Daniele alzò
gli occhi al cielo esasperato:
- Ma insomma,
quanti anni hai? 30? 40? Dimostra di essere il grande, non posso fare
tutto io! –
Alzò un
sopracciglio, cominciava a capire che tipo fosse anche se il quadro
generale ancora gli sfuggiva.
- 28, grazie! –
Asserì con una
punta d’orgoglio! Era giovane, che diamine!
Il piccolo gli
rivolse ancora una volta la sua attenzione e senza mutare la propria
espressione astiosa, continuò a parlare:
- Avevi 18
anni, eh? –
Disse solo
questo, poi senza attendere risposte che non voleva, prese uno dei suoi
borsoni e lo trascinò nella parte della casa riservata alle camere:
- Prendi il
resto, dov’è la mia camera? –
Ryan non riuscì
a rispondere, non gli sembrava volesse sapere qualcosa della sua
storia, dei reali fatti, ma ci teneva a farglieli sapere. Sperava di
trovare l’occasione giusta, così si limitò a prendere il resto delle
valigie e a seguirlo, indicandogli con fare semplice la camera degli
ospiti:
- In realtà la
usavo come ripostiglio, c’è un gran disordine, devo liberare il letto
che c’è… se mi lasci un po’ di tempo sistemo tutto. Se vuoi riposare,
cambiarti o lavarti, intanto, usa pure la mia stanza. Il bagno è quella
porta in mezzo alle nostre due camere, la cucina è dall’altra parte,
confinante con il soggiorno! –
In poco aveva
dato una descrizione completa e semplice di un caos mega galattico!
Daniele guardò
malamente quella che sarebbe dovuta essere la sua camera, se fosse un
tipo che si sconsolava facilmente, avrebbe pianto!
Era un
cambiamento enorme, troppo, ma aveva deciso di non piangersi addosso,
anche se era lui l’unica vittima non avrebbe fatto la parte della
femminuccia, lui era forte; sua madre anche se era stata una falsa
ipocrita, gli aveva insegnato tante cose utili, era giusto darsi da
fare e mettere da parte la debolezza.
Tutti
soffrivano come anche tutti ferivano.
Senza fare
piega alcuna, nonostante ne avesse volute fare, girò sui tacchi
aspettando che suo padre si facesse da parte per farlo passare, una
volta successo uscì dalla stanza piena di scatole, vestiti, scarpe e
quant’altro. Fece pochi passi e arrivò subito all’altra camera, la
guardò con aria critica: non era meglio.
- Sicuro che
non sia questo il ripostiglio? –
Chiese, non
attese risposta nemmeno questa volta, chiuse la porta alle sue spalle
cercando disperatamente una privacy che lo richiamava a gran voce.
Se lo disse
solo lì, in quel momento, da solo.
Meno stava con
quell’uomo e meglio era.
Sarebbe stato
più produttivo diventare come sua madre che come lui.
Di primo
impatto pensò questo di Ryan ma avrebbe avuto modo di cambiare idea.
L’espressione
successiva che ebbe una volta solo nella caotica stanza col letto
matrimoniale pieno di camicie stropicciate, fu di sofferenza. Solo un
lampo piegò le sopracciglia verso l’alto appoggiando la testa sulla
porta, sospirò ed infine disse a fior di labbra:
- E’ dura,
però! –
Fare il bambino
è da sempre il mestiere più difficile.
Né il genitore,
né l’insegnante, né il sopravvissuto.
L’unico reale
lavoro difficile e complicato per la sua pericolosità è quello del
bambino.