*INTERIORITÀ*
 
-VERSO UNA NOTTE INFINITA-
 
 
“Cosa state cercando di dirmi?”
Un sussurro, un soffio tramutato in parole esalato dalle labbra di una fanciulla che celava l’essenza di Dea.
Le mani appoggiate al davanzale, lo sguardo levato in alto, alla volta stellata, Saori interrogava le regine del cosmo, quegli astri che avevano costellato la sua esistenza, dalla sua nascita di ragazza e nel corso di tutta la sua eternità di divinità antica.
Saori aveva paura di ciò che percepiva, aveva paura di cogliere il senso estremo del messaggio che sentiva; Athena tentava di relegare Saori in un angolo in cui ella potesse scomparire, in cui non avrebbe potuto interferire in una situazione che richiedeva tutta la calma e la razionale saggezza della dea guerriera.
“Non possiamo permetterci titubanze adesso” mormorò, rivolgendo quella preghiera a se stessa e alla sua componente umana “Proprio per coloro che tanto amiamo.”
Ottenne lo scopo; Saori tacque, la Dea si concentrò sul suono ancestrale dell’universo che tentava di parlarle. In realtà non aveva bisogno di capire, per quanto desiderasse negarlo a se stessa, ciò che stava per accadere lei lo sapeva, perché l’aveva già vissuto, perché in nome di quell’evento era venuta al mondo, come in passato, in difesa della Terra.
Tutto ciò che era accaduto, tutte le sofferenze patite dai suoi ragazzi erano state in funzione di quell’attimo in cui un sigillo, apposto in un’altra epoca, in un luogo lontano da ogni possibile intromissione, si sarebbe spezzato, liberando un orrore che avrebbe rischiato di portare alla rovina non solo i suoi guerrieri, non solo la Terra con tutti i suoi esseri viventi, ma l’universo intero.
Si portò una mano agli occhi e soffocò un gemito; non unicamente la donna, anche la dea soffriva e si struggeva, perché l’amore nei confronti di quel pianeta del quale si era eletta a protettrice si era fatto sempre più intenso attraverso i secoli, così come il senso di responsabilità che nutriva verso i suoi giovani santi.
Quando la mano si abbassò, lo sguardo aveva abbandonato il cielo, posandosi sulle fronde che stormivano poco distante, accarezzate dalla lieve brezza notturna. Un movimento lieve attirò la sua attenzione, una sagoma leggera ed evanescente come uno spettro, illuminata da fugaci raggi di luna, si aggirava nel boschetto, sbucando a tratti tra un albero e l’altro.
Non era un fantasma e Athena riconobbe quasi subito quella figura, ma sorrise pensando a quanto effettivamente risultasse ultraterreno l’incanto che emanava.
Dove stava andando, Shun, in quell’ora della notte?
Il loro angelo dagli occhi verdi e dal cuore immenso, era l’unico saint rimasto a Tokyo in seguito allo scontro nel regno dei mari, a parte Seiya che, tuttavia, non abitava a Villa Kido insieme a loro. Shiryu si era rifugiato tra i monti di Goro-Ho, Hyoga in Siberia, Ikki chissà dove. Lo stesso Seiya sarebbe partito ben presto, era intenzionato a scoprire la verità sulla sorella scomparsa.
E Shun? Cosa avrebbe fatto? Sembrava non risolversi mai a volersi allontanare da quel luogo, neanche per tornare alla sua Isola di Andromeda, quasi sperasse che, un giorno, si sarebbero riuniti tutti lì, insieme, per non separarsi più. Dava l’impressione che temesse, se se ne fosse andato, che gli altri, ricomparendo all’improvviso, potessero non trovarlo.
Come potrò dire a tutti loro che nulla è finito e che… probabilmente nessuno di noi sopravvivrà alla nuova guerra che dovremo affrontare?
Con un sospiro lasciò la finestra; doveva prepararsi. Il suo posto non era lì, non più, ma al Santuario. All’alba sarebbe partita.
Un senso di oppressione la colse, un grido di aiuto… da un punto ben preciso del cosmo; trascinata da un impulso, si affacciò nuovamente alla finestra e puntò gli occhi azzurri verso l’alto… verso la costellazione di Andromeda. La testa le girava trasmettendole una sensazione di nausea, il cuore batteva fino a dare l’idea di volerle esplodere in petto.
“Devo andare da Shun!”
***
 
 
“Siete in ritardo...”
Lo sguardo rivolto verso l’alto, Shun osservava nel vuoto, gli occhi di un altro colore, perso nell’apprezzamento di due figure che non erano reali, ma forse vivevano solo nel sogno.
“Il tempo non è governato da noi divinità inferiori...”
Si scusarono appena le due figure, tremolando nell’aria, in quella leggera notte immersa nei sogni di tempi che furono. Shun rimase ad osservarli, ancora il naso all’insù, a delineare, con lo sguardo, i piccoli tremolii, ogni singolo, pauroso sussulto.
“... non mi servono scuse...”
Al giovane giapponese bastò pronunciare, con voce cavernosa, quella singola frase per annullare ogni istinto bellicoso nelle due anime sospese nel vuoto.
“Le chiediamo perdono...”
In un angolo, nascosta, celata completamente dalla forza delle stelle, Athena osservava, ad occhi sgranati, la scena. La conversazione mentale tra Shun e quelle due presenze, le cui fattezze erano celate in globi di energia dalla luce inquietantemente nerastra, spruzzata d’oro e d’argento, giungeva al cuore della Dea che, tuttavia, non coglieva le parole, solo un sussurro, quasi un bizzarro ronzio di insetti che le vorticavano nella testa, causandole dolore.
I due esseri erano come grandi lucciole forgiate dalla tenebra e Shun sembrava dominarle, con il solo sguardo, che Athena non poteva scorgere, perché il ragazzino le dava le spalle.
“Quello non è Shun!”
Glielo suggerì la consapevolezza di Dea, ma non le bastò a capire cosa avrebbe dovuto fare; avrebbe dovuto riconoscere l’essenza delle due creature di luce nera, lo sapeva.
“E le conosci… non le vuoi riconoscere… il tempo è giunto.”
“Così presto” mormorò la voce umana “Non avranno dunque riposo i miei ragazzi?”
E cosa stava accadendo a Shun? Cosa stava accadendo, in maniera tanto misteriosa, davanti a lei?
Un braccio del ragazzo si levò, fino a sfiorare una delle due creature dell’incubo e Athena si trattenne a stento dall’urlare nel momento in cui l’arto del suo guerriero divenne parte integrante della tenebra. Il gesto di qualunque cosa fosse diventato il santo di Andromeda era un segnale, in seguito al quale le due figure, dopo averlo gratificato di un volteggio in segno di assenso e saluto, si innalzarono poi, come meteore ascendenti, verso il cielo e in direzione di esso scomparvero, dando l’impressione di cancellare, per parecchi istanti, le stelle.
Il ronzio nella mente di Athena cessò, scese sulla terra un silenzio irreale, mentre lei, tremante, cominciava a muoversi, senza distogliere lo sguardo dalla persona di Shun.
Vide il suo corpo scosso da un brivido violento, seguito da una serie di convulsioni che precedettero il grido di straziante dolore emesso dalle labbra del giovane; subito dopo, le membra si sciolsero e si abbandonarono, scivolando al suolo come prive di consistenza e Shun restò immobile. Athena si riscosse, spiccò una corsetta sicura, lo raggiunse e si chinò accanto a lui.
Andromeda era sdraiato su un fianco, ancora più pallido del solito alla carezza della luna che ne ammorbidiva i lineamenti già tanto delicati; alla Dea non era mai apparso tanto piccolo e fragile come in quel momento, neanche quand’era bambino. La sua vulnerabilità le provocò un improvviso, doloroso terrore e, nello stesso istante, maturò la propria decisione: mai più Shun e i quattro fratelli, guerrieri della speranza, che già tanto avevano sofferto, avrebbero messo a rischio per lei la propria incolumità.
A maggior ragione dopo quanto era accaduto, poco prima, davanti ai suoi occhi: maturava in lei la certezza che, nella prossima guerra sacra, Shun avrebbe dovuto affrontare qualcosa di inaccettabile.
Si tese verso il fanciullo privo di conoscenza, lo raccolse tra le braccia e lo strinse contro il proprio petto, cullandolo come avrebbe fatto una madre, mentre gli accarezzava dolcemente la guancia, sussurrando parole di conforto atte a richiamarlo alla vita.
E, infine, un lampo smeraldino tra le ciglia che cominciavano a schiudersi annunciò il riattivarsi lento dei sensi, le labbra vibrarono appena, a mormorare qualcosa.
“Saori… san…”
E la Dea gli sorrise con tutta la tenerezza di una madre piena d’amore.
Ma una madre non manderebbe mai i propri figli incontro ad una morte sicura, non richiederebbe mai il supremo sacrificio dei figli…
Il pensiero forgiò una lacrima che, sfuggita al controllo, scivolò lungo la guancia e cadde, a lambire la gota del piccolo santo; gli occhi di Shun, a quel punto, si sgranarono in tutta la loro immensa purezza, ma erano così colmi di terrore che il cuore di Athena si strinse, intuendo che il ragazzo, pian piano, ricordava.
“Che cosa… mi è accaduto?” esclamò, sfuggendo all’abbraccio di Athena e mettendosi a sedere di scatto, guardandosi intorno smarrito.
La dea bambina allungò una mano e gli sfiorò il viso, invitandolo a incontrare i suoi occhi; lui, lentamente, incrociò il suo sguardo, il respiro affannoso, le dita che affondavano convulse in due zolle di terra ed erba, fino a graffiarsi.
“C’era… qualcuno… dentro di me…” balbettò la sua voce ancora così infantile, limpida, la voce di un bambino appena adolescente, non quella dura di un guerriero che aveva già sostenuto tante battaglie, tanta violenza, suo malgrado.
Come ho potuto essere talmente insensibile, è mostruoso quel che ho fatto a questi ragazzi.
Non era certa se, a pensare in tal modo, fosse l’umana o la dea, ma sicuramente fu la voce divina a parlare all’adolescente sconvolto:
“E’ stato solo un brutto sogno, mio Shun, non devi aver paura di nulla, va tutto bene… andrà tutto bene… per voi… per voi cinque almeno…”
“Saori-san… io…”
Un dito della ragazza si posò sulle labbra del fanciullo:
“Sht, non dire nulla, non pensare a nulla…”
Quindi lo attirò ancora contro di sé, gli fece posare il capo sul proprio petto e Shun accolse quel gesto come un naufrago che aveva trovato un approdo sicuro; il respiro andava regolarizzandosi e, con un ultimo sospiro, evidentemente stravolto da quel che era successo e che ancora non capiva, si abbandonò ad un sonno innaturale ma che Athena assecondò, perché potesse riposare, anche a costo di restare così, entrambi, durante quel che rimaneva della notte.
Quindi, il viso della dea si sollevò, verso il cielo stellato, ma la vista degli astri le serviva per trovare il necessario coraggio dentro di sé, non ad essi rivolse la propria, aggressiva affermazione:
“Qualunque cosa tu abbia in mente, non lo avrai, non avrai nessuno di loro, non ti permetterò di fare loro del male!”
Un capogiro la aggredì nel momento esatto in cui la volta celeste fu velata da una cappa di tenebra e, contemporaneamente, una risata agghiacciante, beffarda, risuonò in lei, avvolgendo il suo cuore in una morsa soffocante. Con un’esclamazione di sconforto abbassò il capo, lo affondò nei capelli di Shun, coprendolo con il proprio corpo, come a volerlo proteggere da qualcosa che, in quel momento, percepiva solo lei ma, senza sapere perché, senza ancora riuscire a capire, aveva l’impressione che un artiglio feroce stesse tentando di strapparlo al suo abbraccio.
“Vattene” gemette, soffocando i singhiozzi nella folta chioma di Shun.
Il silenzio calò nuovamente, intorno e dentro di lei, ma era convinta che qualcuno li stesse ancora osservando e che la misteriosa presenza, avida e feroce, con il proprio artiglio di tenebra, volesse ghermire la purezza perfetta che aveva dimora nell’anima nobile del suo guerriero bambino.
La notte era lunga… ancora troppo lunga e lo splendore del Sole, forse, non sarebbe tornato mai a dare vita alla Terra.