CAPITOLO X:
L'INIZIO DEL MOSAICO
“ Che
le carezze di una madre non dovessero essere una tortura per il proprio
figlio, era certamente vero, ma lo era anche il fatto che una madre non
dovrebbe credere di accarezzare il figlio sbagliato. “
/
You shock me all night long - AC-DC/
Si era incamminato da poco per i corridoi della
scuola quando qualcosa gli piombò addosso da dietro spingendolo
brutalmente in avanti. Per poco Evan non cadde e quando capì di essere
ancora vivo e che quello che batteva così forte per la prima volta dopo
anni –forse dalla nascita- era il suo cuore, si chiese cosa mai fosse
successo.
Prima di vederlo lo sentì e mentalmente qualcosa in
lui urlò solo che non ebbe modo di decifrarne il tono: contentezza o
fastidio?
- CIAO COMPAGNO DI STUDI! – La voce allegra e
squillante di Bill che ormai era l’unica incisa nella sua memoria, lo
destabilizzò ulteriormente ma il colpo di grazia glielo diede il suo
viso super sorridente ed abbagliante. Sembrava avesse vinto alla
lotteria!
Evan naturalmente rimase composto ed impassibile.
Siccome non rispose, il ragazzo dai capelli neri tutti arruffati
intorno al viso minuto da folletto, proseguì la sua crociata stile Era
Glaciale:
- Allora, che ne dici se ci mettiamo d’accordo per
oggi? Dobbiamo fare quella ricerca, sai, e prima è, meglio è! –
Sembrava fosse uno di quei secchioni che ci tenevano a quel genere di
cose e che vivesse per prendere bei voti.
Barzelletta migliore non ci sarebbe potuta essere!
Specie considerando che nemmeno ad Evan interessava
la scuola…
Il giovane soprannominato da tutti principe e da
Bill nella fattispecie principe infelice, si limitò a guardarlo ancora
indifferente e a rimanere in perfetto silenzio.
Continuava su quella linea con testardaggine e
l’interlocutore che di statura era più basso di qualche centimetro, si
chiese cosa pensasse di ottenere, ma poi si disse che comunque non
avrebbe potuto tacere per sempre!
Come una sfida nella sfida –qualunque fosse quella
principale- andò avanti per la sua strada rispondendo al posto suo,
facendo la parte di Evan così come secondo lui sarebbe potuto essere.
- Ma certo, amico mio, hai proprio ragione! – Disse
con una voce da scoiattolo elizzato, affibbiandogli non solo un modo di
parlare improbabile ma anche di approcciarsi!
Evan smise di camminare e questa fu una conquista
per Bill che proseguì il suo teatrino demenziale tornando sé stesso:
- Bene, dove pensavi di vederci? – Poi riprese la
versione da elio con una vocina sottile ed un entusiasmo eccessivo
perfino per lui: - Che ne dici a casetta mia? È bellissima grandissima
e attrezzatissima per tutte le ricerchineineine che vogliamo! – Infine
fu di nuovo Bill più radioso che mai: - Andata! Allora passo da te alle
tre, ok? – Non attese risposta, gli diede una sonora pacca sulla
schiena e saltellò via come fosse posseduto ancora dallo scoiattolo
elizzato che gli aveva appena fatto fare una scena schizoide
esilarante.
Evan rimase immobile ed interdetto e sebbene non
avesse mosso nemmeno un muscolo facciale, il moretto si era detto
soddisfatto per il semplice fatto che quel nulla apparente altri non
era che sbigottimento e questa era sicuramente una vittoria!
Al ragazzo dai capelli biondi lasciati
selvaggiamente come preferivano stare, non rimase che chiedersi come si
fosse ritrovato in quell’assurda situazione e soprattutto perché mai
quel tipo strano continuasse a fissarsi con lui.
In effetti l’interesse di Bill nei suoi confronti
aveva dell’incredibile, ma essendo lui così di natura non ci si poteva
stupire, tanto meno si poteva provare a capire qualcosa di quell'essere
anomalo!
Quando arrivò, capì che era lui perché il
campanello invece di una volta fu suonato una decina, come se il
visitatore avesse un tic nevrotico.
Evan nella sua camera sospirò allibito, aveva quasi
sperato di aver sognato.
Non sapeva come mai, ma sentiva dentro di sé cose
contrastanti verso di lui, a volte lo intrigava e la cosa lo turbava,
quindi successivamente lo rifiutava e lo disapprovava. Principalmente
però non gli piaceva il fatto di non comprenderlo, per lui era come un
alieno.
Alla fine di tutte quelle considerazioni che aveva
di consueto dopo che lo incontrava, Evan capì una cosa principale che
lo lasciò basito e quasi spaventato.
Alla fin fine, di qualunque tipo di reazione si
trattasse, comunque ne aveva. Ormai quasi nessuno era capace di fargli
provare nulla, certo non fastidio o confusione.
Bill addirittura era il caos, per lui, e come
chiunque avesse a che fare col caos per la prima volta nella propria
vita, passava da momenti in cui gli piaceva e lo affascinava ad altri
in cui ne era spaventato e infastidito.
Una sola era costante.
Bill lo turbava.
Bussarono alla porta della sua camera e
strascicando i passi andò ad aprire. Si trovò la cameriera davanti con
occhi sbarrati dallo shock che non riusciva a parlare e capì che i suoi
sospetti erano fondati.
Fece un altro passo fuori dalla propria stanza e si
chiuse la porta dietro di sé, quindi di nuovo la voce squillante di
Bill fece capolino nelle sue cervella tramortendolo per un attimo. Le
due ore precedenti le aveva passate nel silenzio più totale, in fondo,
e sentirsi gettato in mezzo a urla simili non era una passeggiata.
- CIAO EVA! – La cameriera corse via terrorizzata,
per nulla abituata a modi simili, quindi il ragazzo che rimase non poté
evitare, quella volta, di alzare mezzo sopracciglio, qualcosa di
estremamente impercettibile in realtà ma che a Bill naturalmente non
sfuggì. – Posso chiamarti Eva, vero? Ormai siamo amici ed io ai miei
amici do sempre soprannomi! – C’era da sollevarsi del fatto che non
usasse il suo personale nomignolo, ovvero ‘principe infelice’!
Eva, tutto sommato e conoscendo il tipo che l’aveva
ideato, non era nemmeno male, solo che nessuno aveva mai osato dargli
un soprannome ed anzi era già tanto se sporadicamente si sentiva
effettivamente chiamare da qualcuno.
- Chi tace acconsente! – Concluse poi stringendosi
nelle spalle. Cambiando argomento ed illuminandosi ancora più di prima,
gli batté amichevolmente il braccio dove le solite maniche lunghe
arrivavano a coprirgli gran parte delle mani. – Allora, non entriamo in
camera tua? Quale sarà la nostra postazione di guerra? Dai dai dai,
sono curioso di vedere qualcosa della tua dimora! -
A quello Evan non poté esonerarsi dal parlare e
seppure a malincuore e con le corde vocali atrofizzate, lo fece calmo e
piatto:
- In biblioteca. – Non si diede pena di spiegare
che camera sua era impraticabile o che era meglio non facesse
confusione perché c’erano i suoi, ma Bill non si diede per vinto:
- Biblioteca?! Ma no, io pensavo potessimo rimanere
qua… sai, i bibliotecari storcono sempre il naso quando mi vedono… - Il
che era vero, ma questo non l’aveva mai fermato. Era solo che voleva
rimanere a casa sua e non perché gli piacessero ville così grandi,
bensì la sua era curiosità. Era infatti convinto che per arrivare a lui
dovesse prima scoprire quante più cose poteva sul suo conto, ma non era
meschino, non le avrebbe cercate di nascosto. Voleva trovarle con Evan
stesso!
- No, la nostra biblioteca. Non dobbiamo uscire. –
Puntualizzò stupendo Bill sia per le sette parole messe in fila che per
il significato di ciò che aveva detto.
In breve mostrò apertamente tutto il suo stupore e
lo espresse senza paura:
- COSA?! AVETE UNA BIBLIOTECA!? – Urlò di nuovo.
Evan alzò gli occhi sopra la sua spalla rivolto ad una porta specifica
in fondo al corridoio. Poteva anche essere che sentendo delle grida,
sua madre avesse uno dei suoi attacchi… forse era meglio allontanarlo
da lì il prima possibile. Se c’era una cosa effettiva che voleva, era
non dover spiegare a Bill di sua madre!
Senza aggiungere nulla o fargli il gesto del
silenzio, si voltò e cominciò a dirigersi verso le scale del piano
superiore adibito interamente a biblioteca.
Il piano era davvero enorme e l’unica stanza era un
bagno peraltro gigantesco e comodissimo, per il resto c’erano solo
scaffali e scaffali pieni di libri. Era tutto arredato in legno antico,
come fosse una biblioteca rinascimentale e così anche il resto come
tavolini, leggii, sgabelli, scalette, poltroncine, divani e per di più
un lungo piano bar provvisto di bevande e stuzzichini.
In più angoli c’erano alcuni computer con scanner e
stampanti, le uniche note tecnologiche del piano.
Bill rimase proverbialmente di stucco.
Nemmeno la biblioteca della città era così grande
ed incredibile!
Bisognava dire che un posto simile faceva la sua
meravigliosa figura.
- E… e voi avete un piano intero come biblioteca… -
disse con un filo sottile di voce, la gola secca. Evan si sconvolse più
della sua reazione che di tutto ciò che aveva già fatto e si strinse
nelle spalle non avendo voglia di dire l’ovvio.
Dopo un primo attimo di intontimento, il cantante
si svegliò e si mise a correre come un bambino fra gli scaffali e per
tutto l’enorme e quasi infinito spazio. C’era da perdersi…
- Ehi, ma chi li ha sistemati tutti? Come sono
divisi? Per genere, autore, ordine alfabetico, di casa editrice, di
anno… quanto sono vecchi? Anzi, qual è il più antico che avete? Quanto
avete impiegato a fare una cosa simile? Chi è l’appassionato di
letteratura? Ma ce l’avete la sezione porno? – La raffica di domande
proseguì ma la voce si perse nei meandri della biblioteca ed il giovane
proprietario non si diede pena di raggiungerlo, tanto meno di
rispondere a tutto.
In realtà tutto quello splendore esagerato era per
pura esibizione dal momento che ormai si trovava praticamente tutto in
internet e nessuno si dava pena di utilizzare i libri cartacei… però
era un po’ il fiore all’occhiello della loro famiglia e suo padre ne
andava fierissimo. Nei rari momenti in cui aveva bisogno di pensare e
staccarsi dalla moglie e dal lavoro, si rifugiava fra quegli scaffali e
guardava i molti libri raccolti dalla sua famiglia di nobile lignaggio
nel corso delle generazioni.
Evan non ci veniva mai, non amava leggere, non lo
trovava un modo valido per sentirsi meglio. Fuggire dalla realtà lo
trovava stupido.
La sua realtà era pietosa, vuota e priva di
significato, tanto valeva non illudersi di essere in qualche avventura
fantasiosa che poi lasciava solo molto più amaro di prima.
Le sue considerazioni furono interrotte dalla voce
squillante ormai familiare -identificabile come il suo peggiore incubo-
che lo chiamava da chissà dove. Evan tese l'orecchio e si incamminò già
stanco in partenza.
- EEEVAAAAAA!!! VIEEENIIII! TI PREEEGOOOOOO!
AIUUUTOOOOO!!! -
Mano a mano che proseguiva fra i casellari la sua
voce diventava sempre più assordante e temendo che stesse disastrando
qualche libro, si affrettò di un millesimo compiendo per questo uno
sforzo eccessivo rispetto al suo solito.
Quando lo trovò era in bilico sullo scaffale più
alto, aggrappato come una scimmia in procinto di lanciarsi da un albero
all'altro.
L'altezza non era trascurabile, erano all'incirca
tre metri.
Avrebbe voluto chiedergli cosa ci faceva lì senza
la scaletta... si guardò intorno e vide che effettivamente non c'era
proprio!
- Ma come ci sei salito? -
La sua voce finalmente si udì per la seconda volta
e Bill quasi perse l'equilibrio per la sorpresa.
- Mi sono arrampicato ma ora ho paura a scendere...
- Bugia più grande non avrebbe potuto dire, i salti erano la sua
specialità... ma si aspettava che Evan ci credesse? Certo che no, però
si affidava al fatto che non indagasse e così infatti fu. Il giovane
aristocratico nemmeno scosse il capo disapprovando, strinse appena le
labbra ma Bill dalla posizione in cui era non lo vide, così riprese: -
Vieni qua sotto che ti salgo sulle spalle... se salto mi rompo una
gamba! -
La tentazione di dirgli di fare pure fu grande ma
si trattenne sconvolgendosi di tutte quelle reazioni brutali che domava
a fatica... perché quel tipo riusciva a tirargli fuori tutto quello?
Più stava con lui e più se ne rendeva conto, non poteva smettere di
chiederselo.
Suo malgrado, nonostante potendo scegliere non gli
avrebbe mai e poi mai fatto da scaletta, gli andò diligentemente sotto
volendo evitare di avere a che fare con suo padre per la caduta di una
libreria intera!
Una volta che fu in posizione Bill mollò i piedi
facendoli passare ai lati della sua testa ed in breve si fece cadere
sedendosi sulle sue spalle. Si aggrappò alla sua fronte e
sbilanciandosi volenterosamente all'indietro si trovò ad abbracciare
con decisione tutta la sua faccia passando per il collo.
Evan barcollò, doveva ammettere che quella scimmia
era piuttosto leggera ma ugualmente un essere umano sulle spalle non se
lo prendeva ogni giorno.
Mosse incerto qualche passo all’indietro cercando
l’equilibrio, poi quando lo trovò si rese conto di stare per morire, o
almeno così pensò sentendo il proprio cuore galoppare come un matto ed
il respiro mancargli.
Ok che era praticamente da sempre che non faceva
sforzi fisici di alcun genere –anche per educazione fisica era riuscito
ad ottenere un esonero-, però lì gli sembrava di esagerare.
Non se ne spiegò minimamente la ragione, però cercò
di calmarsi per non trapassare davvero. Artigliò le gambe del giovane
seduto sopra di sé e inspirò profondamente un paio di volte.
Bill da sopra continuava a tenersi stretto alla sua
testa come se fosse un cuscino, ma notando questa sua strana reazione
occhieggiò in basso facendo capolino dalla sommità del capo.
Trovò un Evan cadaverico più pallido che mai che ad
occhi chiusi pareva concentrato sul proprio respiro.
Si chiese se non lo stesse per caso soffocando e
allentò le mani, questo permise al sangue della testa di circolare
normalmente e la pelle bluastra riprese un minimo di colore decente.
In quel momento il giovane che faceva da scaletta
si accorse che stava fisicamente meglio e cominciò a riprendere
coscienza di sé e a fare il punto della situazione.
Elencò tutte le sue parti corporee e attestò che
Bill gli stava ancora in groppa anche se aveva smesso di soffocarlo.
Quando si sentì sollevato non ne capì il motivo ma
soprattutto si sconvolse del fatto che aveva cercato di combattere la
sensazione di morire –o per lo meno quella che gli era sembrata tale.-
Lui che tentava ogni Santo giorno di farla finita e
che si feriva per ricordarsi di essere vivo, quando qualcuno gli aveva
tolto il respiro aveva cercato di riprenderselo con una certa ansia.
- Ehi, sei vivo? – Chiese Bill ancora sopra di lui
bussandogli sulla testa, fra i capelli biondi morbidi parzialmente
all’insù.
Evan avrebbe dovuto rispondere con delusione di
esserlo, ma preferì non dire nulla per evitare di scoprirsi ancora
FELICEMENTE vivo.
Il ragazzo al suo silenzio a libera interpretazione
saltò agilmente giù prendendosi alle sue spalle e salendo dritto a
verticale come un’acrobazia da circo. Dimostrò naturalmente di avere
molta dimestichezza coi salti dando conferma a Evan che si era
inventato tutto per divertirsi sulle sue spalle!
Quando fu a terra gli andò davanti per guardarlo in
viso e fu lì che il principe infelice se lo chiese, fissando costernato
–ma solo uno stato d’animo interiore mai espresso con il viso- gli
occhi grigio chiaro quasi trasparenti di Bill.
Che fosse lui?
Lui che gli aveva fatto follemente desiderare per
una fugace frazione di secondo di rimanere ancora in vita?
Non trovò risposta e l’altro con furbizia sorrise
allegro seguendo chissà quale pensiero pericoloso.
- Allora, si comincia? – Come se ne avesse davvero
l’intenzione…
In un attimo tutto fu accantonato ed Evan tornò a
concentrarsi sulla sua impresa più complicata di quella giornata:
tentare di decifrare le sue stranezze… si perché per lui tutto ciò che
faceva lo era!
Specie quando cercava di fare il normale… Bill non
lo era per cui in quei momenti risultava solo più strambo di sempre, il
che era tutto da vedere!
Infatti dopo aver deciso di cominciare, i due
rimasero fermi imbambolati a guardarsi aspettandosi che l'altro tirasse
fuori l'argomento. Nessuno dei due fece nulla così il primo a parlare
fu naturalmente il più chiacchierone -senza bisogno di specificare nome
e cognome...-
- Bè? -
Evan si trovò costretto a rispondere e rimanendo in
posizione neutra, ovvero con le braccia lungo i fianchi e le gambe
appena divaricate in un vuoto totale, fece atono:
- Su cos'è la ricerca? -
Bill alzò le spalle e sprofondò le mani nelle
tasche dei jeans neri:
- Non ne ho la più pallida idea, non ho nemmeno
portato la roba di scuola... tanto non mi ero appuntato nulla... -
Rivelò così tutto il suo grandissimo interesse per
la ricerca scolastica, al quale Evan rispose con il proprio
praticamente identico al suo:
- Nemmeno io mi sono scritto niente, non so... -
Risultato? Rimasero a fissarsi seri per un altro
paio di secondi aspettando di nuovo, come prima, che uno dei due
tirasse fuori un coniglio dal cappello e quando questo non si verificò,
Bill alzò le spalle per la seconda volta asciugandosela con facilità:
- Pazienza, il prof dovrà arrendersi! - Dopo di ché
come se fosse la cosa più normale del mondo, si guardò intorno in quel
posto fantasmagorico alla ricerca di chissà cosa.
Evan non staccò i propri occhi azzurri dal compagno
che sembrava quasi contento di non poter lavorare e finalmente si
decise ad alzare un sopracciglio e questa volta molto bene.
- Puoi andare... - Dovette dirglielo dal momento
che l'altro pareva per nulla intenzionato a levare le tende.
Sentendolo, Bill si girò di nuovo verso di lui di
scatto e fissandolo come se fosse un blasfemo disse inorridito:
- Perché mai!? -
Evan alzò incredibilmente anche l'altro
sopracciglio e questo fece felice l'interlocutore che si decise più che
mai a rimanere lì con unghie e denti:
- Perché non abbiamo più nessuna ricerca da fare...
- Articolò la frase con più di due monosillabi di fila e l'entusiasmo
di Bill salì ulteriormente alle stelle -come se più di così fosse
possibile-
- E allora? Passiamo un po' di tempo insieme, dato
che ci siamo... così ci conosciamo meglio. -
Sembrava fermamente convinto di quel che diceva e
tanto lui lo era, tanto l'altro non lo era per niente!
- Perché? - E comunque non capiva minimamente il
motivo di tanto accanimento da parte sua. Non gli importava un bel
niente di conoscerlo meglio, perché lui avrebbe dovuto? Tutto sommato
voleva solo capire perché era così fissato su di sé, il resto non
contava.
- Perché siamo amici, dovremmo conoscerci meglio! -
Continuava ad insistere su quel piano e il principe infelice a capire
sempre meno.
- Siamo amici? - Non ne era per niente convinto ma
Bill sentendo un vago stupore nella sua voce atona, decise di non poter
assolutamente mollare proprio ora.
- Certo! - Rispose subito con fervore. Poi sgranò
gli occhi grigi come un cucciolo colto in flagrante: - Non lo siamo? -
Evan tornò a chiudersi in un mutismo col quale erse
nuovamente uno dei suoi muri altissimi e tanto fino a quell'istante
Bill era stato convinto di averlo quasi raggiunto, tanto ora si accorse
di averlo perso.
Ma naturalmente non si diede per vinto e senza
aspettare risposta alzò le mani in segno di 'stop' e si affrettò a fare
retromarcia:
- Va bene, va bene, non rispondere. Diciamo che
siamo in fase di studio, ok? -
Ma Evan lo stupì di nuovo facendogli a bruciapelo
una domanda con fare brusco e diretto, ancora una volta senza il suo
solito vuoto che lo contraddistingueva sempre. Bill gioì dentro di sé.
- Perché ti interesso tanto? - Finalmente ebbe il
coraggio di domandarlo.
Vedendo lo sguardo allacciato al suo con fare
penetrante, Bill capì quanto per lui contasse saperlo e sebbene avrebbe
evaso abilmente la risposta, si trovò interdetto a parlare e lo fece
con una sincerità disarmante prima di tutto per lui stesso:
- Perché sì. - Ed il punto era questo.
Dall'esterno poteva sembrare che l'avesse di nuovo
preso in giro e che non volesse rispondere seriamente, in realtà per il
cantante fu nient'altro che la verità, tanto più che così onesto ormai
lo era solo coi suoi due inseparabili compagni di gruppo, Jake e Tray.
Evan rimase nuovamente sospeso cercando di
decifrare l'entità di questa risposta, incerto su come considerarla, ma
fu profondamente colpito dalla serietà mescolata all'ovvietà che lesse
nel ragazzo a lui difronte, decise infatti di accettare la risposta:
- Non lo sai neanche tu, eh? - Però quest'uscita
non era preventivata e dopo averla detta si pentì, infatti non volendo
sapere più nulla si girò per andarsene da lì a gambe levate.
Dannazione, era casa sua, dove pensava di
rifugiarsi?
Poteva piantarlo lì in quell'enorme biblioteca e
nascondersi in camera nella speranza che lo lasciasse in pace?
Tante emozioni in un'ora sola non erano sostenibili
per lui.
Emozioni... diretto alle scale per andare al piano
inferiore, si chiese di che genere fossero, ma più di quello era
sconcertato dal fatto di averle provate.
Certo, ogni cosa che provocasse una reazione,
seppure minima e di qualunque natura fosse, era definita emozione.
Fino a quel momento e dalla morte di suo fratello
non ne aveva più provate di autentiche e dopotutto nemmeno prima non è
che ne avesse avute molte...
perché poi arrivava un essere umano sconosciuto e
apparentemente come tanti -per quanto Bill potesse essere comune a
qualcun altro- e riusciva in quell'impresa?
Sembrava così facile... ma porca puttana, non lo
era!
Non era facile tirargli fuori emozioni e reazioni,
aveva addirittura fatto una considerazione di sua iniziativa, non
l'aveva obbligato a dire quell'ultima cosa, che diavolo gli era saltato
in mente di dirla?
E prima ancora di rendersene conto, stava quasi
correndo.
/
Sinfonia numero 40 - Mozart /
Si fermò di colpo accorgendosene e trovandosi
praticamente davanti alla porta della propria camera, l'aprì e si
rifugiò dentro appoggiandosi ad essa sperando fosse un salvagente.
Il cuore di nuovo batteva, aveva voluto scappare da
Bill e l'aveva fatto platealmente turbato e nemmeno capiva il motivo e
cosa di lui lo turbasse.
Cosa c'era in quel coso saltellante più simile ad
una scimmia impicciona che non lo lasciava in pace?
Aveva vissuto una vita alla ricerca di qualcosa di
diverso dalla massa insulsa di cui era circondato, qualcosa che gli
desse un minimo brivido. Possibile che semplicemente non cercasse
qualcosa ma qualcuno e che quel qualcuno era lui?
Stupida, stupidissima considerazione.
Quelle cose erano da favole.
Forse la chiave della sua salvezza era un amico, ma
quale certezza aveva che si trattasse di Bill?
La confusione esplose e nell'agitazione più totale,
agitazione che non provava da anni, fece la prima cosa che gli venne in
mente per calmarsi, perché così stava male, male e basta.
O per lo meno credeva che quello fosse male.
In realtà era solo una cosa nuova.
Che nome aveva?
Alzò la manica della sua maglia e si guardò
l'avambraccio, la pelle chiara piena di tagli vecchi.
Era tutto nuovo e diverso, per calmarsi doveva
ritrovare una sensazione familiare che lo rassicurasse e tornasse a
ovattarlo nel suo mondo bianco dove era stato fino a quel momento con
la granitica convinzione che nulla potesse mai e poi mai cambiare e
migliorare.
Andò al bagno all'interno della sua stanza e prese
una delle sue lamette, quindi quasi tremando e col viso turbato in una
specie di smorfia, se la passò sul polso pallido. In poco si macchiò di
rosso e la sensazione familiare di nullità lo pervase.
Era ancora vivo, il dolore fisico perfettamente
sopportabile era quello di sempre, l'unico picco delle sue giornate
tutte uguali. La consapevolezza di essere ancora al mondo e di non
essere stato cancellato dal suo bianco perfetto poiché il suo corpo lo
sentiva di nuovo, era lì.
Per la prima volta il ferirsi non funse da ancora
sul mondo ma da calmante e fu strano, ma funzionò.
Il sangue cominciò a gocciolare e vedendolo
scivolare dalla punta delle sue dita lunghe e affusolate al lavandino
in marmo perlato, si riscosse con un pensiero potenzialmente peggiore
delle sue emozioni.
“Bill è in casa da solo... e se incontra
mia madre...”
Non finì il pensiero poiché non riusciva nemmeno ad
immaginare l'esito di quell'eventualità.
Non ci ragionò oltre, si abbassò la manica e senza
nemmeno tamponare il taglio o pulirsi la mano, si precipitò fuori.
Appena in corridoio vide la porta della stanza
della donna aperta e chiedendosi perché lo allarmasse tanto un loro
probabile incontro, entrò costatando che era vuota.
Uscì di nuovo, possibile che nessuno fosse con lei?
Probabilmente dormiva e si era svegliata, ma perché
era uscita?
L'ansia di trovarli insieme aumentò, era diversa da
quella provata prima, caotica e violenta. Questa era più sopportabile e
quasi normale.
Si rendeva conto che avrebbe dovuto lasciare che
Bill si arrangiasse, nel caso si fosse incontrato con una schizofrenica
dalle mille personalità una più fantasiosa dell'altra, però dopotutto
non era arrabbiato con lui, solo turbato, quindi non c'era motivo per
augurargli un male simile.
Cercò qualche altra porta aperta od indizio che gli
indicasse la loro presenza, poi lontane delle note di pianoforte lo
raggiunsero.
Si fermò sperando di aver sentito male ma dovette
ricredersi.
Sospirò sconsolato. Ma perché tutte quelle emozioni
in una volta sola? Non potevano limitarsi?
Colpa di quel Bill di sicuro...
Salì le scale e superò la biblioteca raggiungendo
la mansarda all'ultimo piano, pregando che suo padre non si accorgesse
di tutto quello.
Ed ancora una volta il batticuore si fece sentire.
Dannazione, era di nuovo lì a sperare in qualcosa e
non perché temesse i suoi genitori di cui ormai era abituato,
semplicemente di mezzo c'era Bill e lo capiva con una lucidità
sconcertante.
Chi diavolo era quel ragazzo?
Come si permetteva di tirargli fuori tutto quello?
Giunto in mansarda, un posto delizioso con le travi
a vista, curata e ben tenuta con una varietà esorbitante di mobili a
cassetti, scrivanie ed armadi, cercò la fonte del suono. Al centro un
pianoforte a coda, era in legno nero lucido.
Si fermò come sospeso nel nulla e come vide la
scena non ebbe più la forza di reagire né muoversi.
Bill era seduto a suonare ma non una canzone
qualunque, si trattava della Sinfonia numero 40 di Mozart.
“Perché proprio questa?”
Si chiese Evan spostando poi gli occhi sulla madre
col busto interamente appoggiato sullo strumento e la testa sulle
braccia incrociate. Lo sguardo perso su Bill. Ma lo vedeva veramente?
Lo ascoltava?
Si avvicinò cauto cercando di non farsi distrarre
dalla strana atmosfera provocata dalla canzone suonata in quel modo.
Era una particolarità di sua madre poiché in realtà non veniva mai
eseguita al pianoforte, solo lei aveva sempre insistito affinché gliela
suonassero con quello strumento dando così di un'opera a tratti
allegra, un'impressione molto più malinconica del solito.
Però non era proprio triste, specie non nel modo in
cui Bill la stava suonando con un sorriso strano sulle labbra.
Era una via di mezzo fra ogni sensazione possibile.
Se ne stordì.
Solo una persona era in grado di farla in quello
stesso modo e rendendosene conto tremò per ciò che sarebbe potuto
significare per sua madre.
Giunse a sua volta vicino al pianoforte, dall'altra
parte rispetto a lei che però non si accorse della sua presenza.
Pareva come sedata eppure lucida in un certo senso.
Si paralizzò smettendo anche di respirare.
In realtà sembrava addirittura quello che era
effettivamente.
Una madre colta da un'onda dolorosa ma al tempo
stesso bella e commovente di ricordi. Ricordi di un tempo lontanissimo,
di quando lei stava bene e non aveva avuto nessun crollo psicotico poi
degenerato in personalità multiple e allucinazioni.
Bill si accorse della sua presenza, gli sorrise
appena e tornò a guardare la donna con gentilezza ed un tocco
misterioso di qualcos'altro di stranissimo.
Catturato tornò anch'egli ad osservare la madre.
Era una donna intorno ai quarantacinque anni che
appariva ingannevolmente eternamente giovane.
I capelli biondi si inanellavano sulla superficie
liscia del pianoforte e la camicia da notte piena di veli bianchi
sembrava quella di una bambina piccola.
Gli occhi erano verde giada.
Per la prima volta sembrò sana anche se in un certo
senso assente.
Girava un piede sulla punta appoggiato dietro di sé
mentre il resto del corpo era sullo strumento.
Fu inevitabile farsi cogliere da un'ondata di
ricordi a sua volta, ricordi che detestava ogni volta.
Increspò il viso dai lineamenti tremendamente
simili a quelli delicati della donna che era lì e si morse il labbro.
Solo suo fratello aveva quel potere.
Il potere di oscurarlo.
Altri due occhi verde giada gli arrivarono alla
mente come un treno in corsa, capelli corti e neri come la notte,
ordinati sul capo, i lineamenti affascinanti e affilati, la bocca in
una perenne inclinazione ironica, lo sguardo indecifrabile che diceva
tutto e niente. Un viso estremamente simile a quello del padre se non
per le iridi identiche a quelle della madre.
E quel carattere strano... così strano... che
affascinava tutti ed al tempo stesso li inquietava nella medesime
misura...
“Alexander...”
Quando la canzone si concluse ed il silenzio li
avvolse, per un momento rimasero fermi a guardare i tasti bianchi e
neri aspettandosi di vederli muoversi da soli.
Il primo a reagire fu Bill, il quale alzando le sue
iridi argentate su quelle di cielo del compagno, lo salutò spiegando
cosa ci facesse lì:
- Ciao! Stavo andando via quando l'ho incontrata...
immagino sia tua madre, ti somiglia tantissimo. Mi ha chiesto se sapevo
suonare la Sinfonia numero 40 di Mozart al pianoforte ed ho detto di
sì, così mi ha portato qua. Spero non ti sia dispiaciuto. - Sembrava
anche educato come se capisse la situazione delicata.
Fu allora che sua madre alzò la testa e
appoggiandosi sui gomiti guardò il figlio come se lo riconoscesse.
- Aly, tesoro, hai sentito che bravo che è il tuo
amico? La fa quasi identica a come la fai tu... - Dalla frase Evan capì
che era solo sembrata in sé ed una nuvola oscurò nuovamente il suo
volto. In quei momenti sperava che l'apatia lo colpisse anche lì eppure
solo quando di mezzo c'era Alexander finiva per sprofondare nel buio ed
abbandonare il bianco protettivo.
E Alexander lo metteva in mezzo sempre e solo sua
madre, nessun'altro.
Ecco perché la evitava più che poteva.
Essere scambiato per lui era tremendo ma ancora di
più dirle che era Evan e che suo fratello era morto, per questo fingeva
di esserlo, per non farle avere una crisi delle sue. Almeno in quei
momenti ci si poteva stare un po' insieme.
Peccato che fosse a suo discapito.
Come se stesse estraendosi dal ventre una scheggia
grande come un pugnale, rispose spento:
- E' molto più bravo di me, mamma. -
Bill colse al volo sia la sua cupezza che la sua
sofferenza e la collegò a quel nome sbagliato ed alla sensazione che
gli provocava quella donna, così si inserì immediatamente nella
conversazione seguendo un istinto indomabile:
- Suoni anche tu? -
- Oh, è bravissimo... - Rispose la madre
illuminandosi ed alzandosi. Danzò intorno al pianoforte e raggiunse il
figlio abbracciandolo affettuosamente: - Diventerà un famoso
pianista... sai, lui compone, anche, ma non vuole farmi sentire niente.
Nessuno sa cosa compone... ma so che è bravissimo... tesoro, dovresti
fargli sentire... - Evan faticò a tenerla a sé ma lo fece spaventato
dall'idea che crollasse per le troppe medicine che le davano. Era
strano che ora stesse in piedi...
- No, non ora... gli farò sentire più tardi,
magari... - Così dicendo si nascose la mano macchiata di sangue, se
l'avesse visto si sarebbe resa conto che lui era Evan e non Alexander e
si sarebbe messa a gridare.
Bill colse il gesto e domò il lampo di stordimento
con un sorriso radioso, si alzò dallo sgabello e andò dall'altra parte
prendendo la donna sotto braccio allo stesso modo di Evan.
- Venga, andiamo a riposare... la vedo stanca... -
Allora lei si accorse che era vero, ma non per lo scarso riposo bensì
per la debolezza dovuta alla sua condizione e annuendo appoggiò la
testa alla spalla del figlio chiudendo gli occhi, si lasciò docilmente
condurre per le scale come fosse una bambina che faticava a camminare
ed obbedì a tutti i movimenti che i due ragazzi le suggerivano.
Canticchiava di nuovo quella canzone.
Che le carezze di una madre non dovessero essere
una tortura per il proprio figlio, era certamente vero, ma lo era anche
il fatto che una madre non dovrebbe credere di accarezzare il figlio
sbagliato.
Quando la riposero nella sua camera e le
rimboccarono le coperte, Evan non ebbe spazio per accorgersi della
dolcezza di Bill e di quel suo nuovo lato che naturalmente non gli
avrebbe mai affibbiato al di fuori di quel contesto. Tirò solo un
respiro di sollievo quando fu fuori.
Le ginocchia gli tremarono quindi decise di
aspettare che le forze tornassero, il compagno rimase lì fermo a
guardarlo serio.
- Non sai suonare, vero? - Come poi l'avesse capito
non avrebbe potuto dirlo, ma non se ne interessò. Come non fu colpito,
non in quel momento, nemmeno dalla sua serietà leggendaria.
- Sì, suono, ma non bene come dice lei. E
soprattutto non sono io quello che compone. -
- E' per Aly che ti ferisci? - Lo chiese diretto
come un proiettile ma non accusatore o fastidiosamente. Però Evan
sussultò.
Non sembrava turbato da niente di ciò che aveva
capito, né dalla scoperta che si feriva. E come poteva dire che si
feriva da solo? Aveva solo visto un po' di sangue sul suo polso...
- Che ne sai tu di Alexander? - Chiese rimanendo
ancora ben saldo all'appoggio per non cadere. Le emozioni erano state
così tante e violente che non riusciva ancora a riaversi.
Da zero a mille in un giorno solo, dopo mesi di
nulla.
- Niente, vado ad intuito. -
Non seppe, poi, perché lo disse, ma lo fece:
- Alexander, Aly, era mio fratello. Ora non c'è
più. Lui componeva, lui suonava, lui era amato dalla mamma. Lui l'ha
fatta impazzire. - Dopo di quello si avviò, cercando le ultime forze in
sé. Raggiunta la propria porta, mise la mano sulla maniglia e si girò a
metà esitando sul finale.
Gli occhi verso il basso, il tono un sussurro quasi
inudibile.
- La mansarda era il suo rifugio. Là suonava. Nei
cassetti e negli armadi è pieno di roba sua, le sue composizioni sono
chiuse a chiave in quei mobili. Nessuno le ha mai sentite e nessuno mai
le sentirà. -
Ma stringendo a pugno la mano sporca del suo
sangue, che ormai aveva smesso di uscire, si chiese infine, di nuovo,
perché gli avesse detto anche quello.
Bill non rispose e non fece niente, rimase a
guardarlo rifugiarsi al di là della porta e capendo il suo desiderio di
stare solo non insistette oltre capendo che il famoso mosaico aveva
finalmente cominciato a comporsi.
Ora doveva terminarlo.
E magari capire cosa fare di esso una volta
concluso.