CAPITOLO VI:
BIANCO VUOTO

"Aveva sempre aspettato il nero, per farla finita, non aveva mai contemplato la possibilità, talmente che era remota ed impossibile, che invece potessero arrivare dei colori."

/Otherside - Red Hot Chili Peppers/
Attraversato tutto il vasto giardino che a volte gli pareva tanto infinito quanto insulso, entrò in casa silenzioso con le sue chiavi. Non salutò, non si annunciò, non cercò nessuno.
Sapendo che nessuno l’avrebbe né visto né cercato, si diresse subito al piano superiore salendo delle scale talmente larghe ed elaborate da sembrare quelle di una reggia, così come il resto dell’arredamento della villa.
Sfarzoso, esagerato e costoso, come a voler ostentare tutta la ricchezza di famiglia.
Naturalmente quella specie di castello era stato ereditato dagli avi di sangue nobile, il titolo era rimasto anche se a conti fatti avevano perso il potere di un tempo.
Ormai erano solo una delle tante famiglie ricche di quartiere con l’abitazione più grande di tutte.
Sentendo vagamente delle urla che provenivano dalla camera in fondo al corridoio, Evan alzò gli occhi azzurri che però rimasero spenti anche quando costatò che erano di sua madre, tanto per cambiare.
Una delle sue solite crisi nevrotiche, dedusse con noncuranza.
Vide uscire di corsa una cameriera con la divisa sporca di cibo, doveva averglielo tirato addosso dicendo di non voler mangiare. Si fermò un attimo prima di varcare la soglia della propria camera, fortunatamente parecchio distante da quella della donna.
Come da copione, da un’altra porta accuratamente chiusa, sempre nello stesso piano, uscì un uomo affascinante, alto, magro, ordinato, vestito di tutto punto e con un portamento distinto ed elegante.
Camminando verso le urla isteriche che non si fermavano più, lo notò e lo guardò senza però rallentare il passo sostenuto. Non poteva certo sperare diversamente.
Non gli fece nemmeno un cenno con gli occhi, quasi che non lo riconoscesse come suo figlio.
Evan non se ne curò.
Lo vide entrare nella camera della madre e chiudersi la porta dietro.
Vagamente sentì le urla aumentare mentre la sua voce ferma e altezzosa che tentava di essere paziente, si faceva strada nella follia.
Il giovane dai capelli biondi che anche quell’oggi stavano come meglio volevano, un po’ per aria ed un po’ sul collo e sul viso, avrebbe sorriso ironico ed amaro se gli fosse importato qualcosa di quella situazione allucinante.
La pazzia di sua madre che cercava di essere domata dall’ipocrisia di suo padre; era inutile si sforzasse tanto, tutti sapevano che la teneva lì e non la internava non certo per amore come voleva far credere, lo faceva solo per le apparenze e la reputazione, che era tutto ciò che ormai contava per quell’uomo privo di scrupoli e di cuore.
Ed Evan si sentiva giorno dopo giorno sempre più simile a lui, non per la crudeltà d’animo con cui affrontava la vita, bensì per l’indifferenza totale ad essa.
Suo padre era crudele ed indifferente, lui per ora solo indifferente, ma quanto ci avrebbe impiegato a diventare anche crudele?
Sua madre era pazza, non poteva stare lì, un giorno si sarebbe uccisa anche lei e allora che avrebbe fatto?
Avrebbe accusato ancora qualcun altro innocente di averla fatta fuori, pur di mantenere la facciata?
Probabilmente sì, l’aveva già fatto una volta, no?
Era bravo in quello.
Esternandosi da tutto, si chiuse in camera non volendo minimamente saperne di quel manicomio che era casa sua.
Non la guardò nemmeno, un’ampia stanza totalmente disordinata, completamente opposta al resto della villa sistemata, pulita e curata.
Vestiti e oggetti ovunque, letto disfatto, armadi e cassetti aperti… le uniche cose a posto erano una chitarra elettrica con amplificatore e casse ed i libri scolastici. Alla chitarra ci teneva poiché era un ricordo di suo fratello, ai libri tutto il contrario… non li apriva per niente.
Aprì il CD che si era masterizzato, l’unico segno di volontà all’interno della sua vita. L’aveva fatto per metterci le uniche canzoni che non gli dispiacevano, erano quelle che lo facevano pensare, su cui era d’accordo.
La prima era Otherside dei Red Hot Chili Peppers.
Anche lui, come il cantante, pensava che non era male tagliarsi la gola, scivolando senza l’altra sua parte.
Ignorando lo stomaco vuoto che ormai per pranzo si rassegnava a non chiedere più cibo, conscio che ne avrebbe ricevuto solo a cena, grazie a qualche cameriera di cuore, si buttò nel letto dove passava tutti i suoi pomeriggi.
Se non fosse stato obbligato a frequentare le lezioni scolastiche per pura forma, avrebbe fatto altrettanto anche durante la mattina, ma il suo caro paparino ricco si dava pena per fare beneficienza alla scuola, quindi il patto era che lui ci andasse. Solo quello. Nemmeno l’impegno gli era stato chiesto, tanto magicamente riusciva a prendere il necessario ad ogni compito in classe e a non venir mai bocciato.
Con l’intenzione di fare assolutamente nulla anche quella giornata, rimase fermo e puntò i suoi occhi azzurro spento sul soffitto bianco.
Quel colore era l’unica cosa che riusciva ad accettare per ore ed ore, oltre alle parole dello stereo che non lo prendevano in giro ma che erano in linea coi suoi pensieri.
Pensieri sempre uguali.
Passava tutto il suo tempo a riflettere sul solito argomento, si riviveva il dialogo con suo fratello di quella notte per vedere se qualcosa cambiava, ma ogni volta era sempre uguale.
Ogni volta finiva sempre allo stesso modo.
Ogni volta non aveva mai nessuna risposta nuova, solo più convinzione che quella fosse l’unica via sensata da percorrere.
Ripensò follemente alle parole di quella canzone, quel tipo fuori di testa che per un motivo incomprensibile si era fissato su di lui, era convinto che il sole ci fosse.
Che sciocchezze.
Lui la faceva troppo facile.
Cosa poteva saperne un tipo così felice e contento di essere al mondo?
Dove li trovava i colori?
Non esistevano, c’era solo il bianco, nella sua vita.
Il bianco vuoto.
Privo di significato.
Passò tutto il pomeriggio fermo a guardare il soffitto e a pensare ad ogni motivazione per farlo, cercando ancora quelle per non farlo. Le prime vincevano sempre.
Quel famoso giorno aveva avuto la curiosità a fermarlo.
Come poteva un essere umano che trovava un altro in procinto di uccidersi, scusarsi per averlo interrotto e andarsene per farlo continuare liberamente?
A farlo decidere per rimandare l’atto, era stata la domanda insolita e non da lui che si era posto.
Cos’aveva in testa quel Bill?
Poi però i giorni successivi credeva di averlo capito, o per lo meno in parte. La sua era stata solo curiosità, probabilmente lui così amante della vita non capiva come mai uno potesse odiarla a tal punto… e comunque, anche se ammetteva che in quella creatura anormale c’era qualcosa di sfuggente ed incomprensibile, quello non era sufficiente a dargli la voglia di vivere.
Quella volta a scuola non era stato il suo primo tentativo di suicidio, ci aveva provato ancora e a onor del vero ogni sera era lì che vedeva se ci riusciva.
Probabilmente era solo un vigliacco o magari uno sfigato che ogni volta che sembrava farcela, qualcos’altro lo fermava in tempo.
Non la poteva vedere diversamente.
Perdendo completamente la cognizione del tempo, si riscosse solo al bussare della porta, si tirò su guardando l’ora e vedendo che erano già le sette e trenta della sera, seppe che era una cameriera con la cena.
Come mai ci pensassero solo alla sera era un mistero, ma lui preferiva così.
La fece entrare, prese il vassoio con qualcosa di elaborato da mangiare e la vide dileguarsi.
Rimase da solo col cibo a combattere, alla fine cedette e ingurgitò qualcosa.
Probabilmente era buono, lui non se ne accorse, il sapore era sempre uguale, privo di interesse, come tutto.
Lo mise in parte e come ogni sera prima di andare a dormire, si diresse nel suo bagno personale che si affacciava solo alla sua camera.
Entrò lasciando la porta aperta, si mise davanti allo specchio e si tirò su le maniche. Le braccia erano magre come il resto del suo corpo e presentavano dei segni di tagli che andavano dai più recenti a quelli più vecchi. Tutti piccoli, superficiali ed orizzontali.
Mantenendo un’espressione totalmente priva di inclinazioni, vuota, liscia e scolpita nel marmo, con la bella bocca ben disegnata piegata verso il basso, prese in mano le solite lamette che aveva smontato dal rasoio usa e getta.
Non esitò, non ci pensò, non soppesò il momento, il modo o l’idea.
Non gli parve inappropriato, idiota o quant’altro.
Andò dritto all’avambraccio e se lo tagliò in orizzontale, superficialmente, solo per veder la sua pelle bianca sporcarsi di rosso. Fece altrettanto con l’altro braccio. Poi posò la lametta e rimase fermo a guardare il sangue che usciva lento e scarlatto gocciolando sul lavandino.
Ogni sera era lì a vedere se gli andava di farlo fino in fondo, se si sentiva vivo, se qualcosa cambiava, se provare del dolore era sinonimo di sensazione, di sentimento… se in quel principio di suicidio, per come la vedeva lui, provava paura o desiderio di proseguire.
Ogni volta, però, il nulla continuava a congelarlo.
Né sì né no.
Ed allora perché farlo o non farlo?
Certo, a favore del sì c’erano un sacco di motivazioni che suo fratello Alexander gli aveva illustrato al tempo, motivazioni che pur volendo non era riuscito a demolire ma che al contrario gli erano entrate dentro.
Però doveva ammettere che non erano sempre sufficienti, che qualcosa che lo fermava lo trovava sempre.
Qualche domanda dell’ultimo minuto, qualche accadimento surreale, qualche arrivo insolito, qualche cosa.
Qualche cosa lo trovava sempre, e alla fine non lo faceva.
Perché nel bianco non pensava che valesse la pena farlo, che servisse il nero, ma lui al nero non era ancora mai arrivato se non quelle poche volte che ci aveva provato davvero a farla finita ed era stato tirato al di qua per i capelli o con l’arrivo di chi, probabilmente, qualcuno avrebbe chiamato angelo.
Lui non lo chiamava in nessun modo.
Però l’aveva fermato, in qualche maniera strana che ancora non riusciva a capire.
Nemmeno quella sera si decise a farlo, quindi prese della carta igienica e se la premette sulle piccole ferite aspettando che si richiudessero da sole, non ci voleva mai molto.
Quanto era privo di senso, ogni cosa.
Insofferente verso quella sua stessa incapacità di prendere una posizione definitiva, sentì un improvviso rumore di vetri rotti dall’interno della camera, quindi sussultando impercettibilmente si girò svelto e vide effettivamente la sua finestra rotta.
Increspò appena la fronte incapace di immaginare che cosa stesse succedendo, quindi buttò la carta insanguinata e si tirò giù le maniche incurante delle macchioline che si formarono subito.
Camminò sopra i vetri rotti all’interno della camera, aveva ancora le scarpe, ma si appoggiò allo scheletro della finestra dove qualche frammento spuntava ancora e si ferì i palmi. Non parve sentire dolore e se lo provò comunque non lo diede a vedere, non fece una piega, solo si sorprese di vedere fuori in giardino tre individui che riconobbe quasi subito essere i tre matti che suonavano.
Non attirò la loro attenzione, ma sentì che parlottavano credendo di fare piano. Naturalmente il tono risultava tutt’altro che sommesso.
- Hai tirato troppo forte, idiota! L’hai rotta! -
- E se magari non sentiva? -
- E se magari ora ti tocca pagarla? Sai quanto costerà? Hai visto che razza di casa? -
- Casa?! Ti sembra una casa? È una reggia, questa! Persino quella di Jay è meno grande! -
L’intenzione di Evan fu quella di ignorarli e rientrare in camera, ma poco prima di farlo fu visto proprio da Bill che per poco non gridò a gran voce il suo nome. Fu fermato dal biondino dai capelli più corti, Jake gli pareva si chiamasse. Loro, aveva sentito, lo chiamavano Jay, invece.
Quando gli tolse la mano dalla bocca gli disse di non urlare, così Bill sembrò capire però una volta libero prese fiato a pieni polmoni e mettendo le mani ai lati delle labbra, fece con un tono che per lui doveva evidentemente essere basso ma che in realtà era appena meno alto dell’urlo di Tarzan:
- Eva! Vieni giù! - Evan alzò di nuovo un sopracciglio che però per l’ombra della sera non fu notato, fortunatamente per sé.
- Idiota! - Lo ammonì l’amico apparentemente più sensato mentre l’altro, quello più grosso e più strano, rideva sguaiato.
Avrebbe voluto chiedere ‘perché’ ma avrebbe richiesto un utilizzo eccessivo del suo tono di voce, per cui si rassegnò e sapendo che se ne sarebbe amaramente pentito, ma al tempo stesso chiedendosi cosa diavolo gli passasse per la testaccia, sgusciò silenzioso fuori dalla stanza.
Percorse i corridoi già vuoti e bui e senza accendere una luce né farsi minimamente notare, uscì di casa raggiungendo i tre matti per eccellenza.
- Ciao, come va? - Chiese allegro Bill come se fosse normale la loro presenza lì.
Evan non poteva fare a meno di guardarlo come se fosse pazzo, cosa che probabilmente era davvero.
Per una volta fece un’espressione abbastanza chiara e gli altri due ragazzi se ne stupirono, Jake fu contento di spiegargli che avevano incontrato una loro cameriera mentre usciva e avevano chiesto a lei di indicare la sua camera. La giustificazione geniale di Tray era stata che non avrebbero avuto la minima intenzione di entrare in quella reggia, visto che sicuramente si sarebbero persi.
Il sasso l’aveva tirato Bill troppo forte.
Al termine di tutta la spiegazione, il biondo che sembrava un angelo decaduto si accorse che Bill, rimasto miracolosamente in silenzio, non aveva smesso di contemplarlo piuttosto da vicino, seppure fossero in ombra e non si vedessero bene. Sembrava proprio lo studiasse.
Non è che gli piacesse fare da cavia da laboratorio e onestamente cominciava a seccarsi di quel suo atteggiamento. Che non lo capiva era ovvio, ma che non volesse nemmeno riuscirci, ormai, era la sua conclusione.
Da uno così si doveva solo stare alla larga!
Eppure lì per lì non si accorse che per la prima volta stava provando qualcosa di diverso dall’apatia totale e che era tutto merito di quello svitato che gli stava davanti a pochi centimetri a fissarlo insistente e contento.
Aveva l’aria da folletto monello, di chi pensava ad un sacco di guai da combinare mentre altrettanti già ne faceva, ed i capelli neri spettinati che gli coprivano la fronte erano appropriati per lui.
- Cosa volete? - Si trovò quasi costretto a chiederlo visto che non erano intenzionati a dirglielo di loro volontà.
A quello Bill si illuminò ricordandosi del motivo per cui erano lì e prendendolo per la mano lo tirò dicendo: - Devi venire in un posto assolutamente! - ma non fece in tempo a trascinarlo davvero e nemmeno a spiegargli il perché e il cosa fosse. Si fermò subito sentendo la mano bagnata e veloce come un fulmine lo prese per il polso e se la portò davanti al viso per guardare cosa fosse. Nonostante la scarsa luce capì che era del sangue, anche se non era molto, e spontaneo come solo lui poteva essere, esclamò sinceramente dispiaciuto:
- I vetri della finestra… ti sei fatto male… scusami… - ritenne fosse indirettamente colpa sua ed in effetti era così.
Prima che Evan potesse rispondere e ritirare la mano come istintivamente aveva voluto fare da subito, si ritrovò le sua lingua sul piccolo buco nel palmo.
Chiuse le labbra sulla pelle sensibile e bagnata e lo sentì succhiargli via il sangue e ripulirlo.
Fu un contatto breve ma intenso in un certo senso, intenso per il bruciore istantaneo che la lingua gli provocò a lui che era sempre freddo ed indifferente.
Ancora una volta quella specie di tornado gli stava facendo provare una serie di sensazioni che di norma non lo sfioravano nemmeno.
Fu un contatto oggettivamente semplice eppure per lui sconvolgente, nessuno era arrivato più a toccarlo da anni, troppi, forse.
Alexander era stato l’ultimo e ora arrivava quel Bill e se ne fregava totalmente di lui, della sua volontà e della sua condizione e lo toccava… e lo leccava per curarlo… che gliene poteva mai importare di lui? Mica si conoscevano… mica erano amici… perché insisteva tanto?
Aveva cominciato a salutarlo, a guardarlo di continuo, a cercare di coinvolgerlo nelle sue cavolate, a cercare anche di farlo reagire in qualche modo, invano. Gli aveva scritto e dedicato una canzone. Era venuto da lui per portarlo chissà dove.
Ed ora lo stava leccando per ripulirgli la piccola ed insignificante ferita al palmo della mano.
Cosa gliene importava di lui?
Non capiva perché dovesse fare tutte quelle cose, ma peggio di tutto era che non capiva quel fuoco colorato che lo investiva improvviso cogliendolo alla sprovvista.
Aveva sempre aspettato il nero, per farla finita, non aveva mai contemplato la possibilità, talmente che era remota ed impossibile, che invece potessero arrivare dei colori.
Dopo una vita di bianco, di vuoto e di freddo, tutto quello gli parve troppo e non lo resse.
Trattenendo il respiro lo spinse via istintivamente, ritrasse la mano come se si fosse scottato e la nascose proteggendola contro il petto.
Lo guardò inselvatichito, come un gattino convinto di trovarsi davanti al nemico più pericoloso che esistesse e quindi cercasse di difendersi spaventandolo a sua volta.
Naturalmente tutto quello che risultò, nel complesso, fu solo un ragazzo spaurito, smarrito e sconvolto.
Bill lo guardò sorpreso e per una volta proverbialmente senza parole, incapace di reagire a quella spinta improvvisa e a quel difendersi da qualcosa di buono.
Non lo poteva capire ed Evan si sentì ancora più solo e abbandonato di prima, visto che nemmeno chi cercava di raggiungerlo, alla fine ci riusciva.
Era un caso senza speranza anche lui, dopo tutto, ma per un motivo opposto dal loro.
Anche Jake e Tray fecero improvvisamente silenzio e si fermarono osservando quella breve scena, troppo corta per poter essere decifrata su due piedi.
Avrebbe voluto dire qualcosa, avrebbe voluto insultarlo, dirgli di andarsene, di lasciarlo in pace, di non avvicinarsi mai più a lui, ma alla fine Evan riuscì solo a voltarsi e a precipitarsi dentro senza correre, come se fosse un fantasma.
Nel giro di un attimo non fu più là con loro, ma al sicuro nella propria stanza, da solo, senza nessuna creatura imprevedibile a toccarlo, leccarlo, a cercare di capirlo, di arrivare a lui, di farlo reagire, di… ma che ne poteva sapere cosa cavolo aveva cercato di fare quel tipo?
Sapeva solo una cosa.
Che il punto in cui l’aveva leccato gli bruciava ancora e sarebbe successo ogni volta che l’avrebbe visto o avrebbe pensato a lui.
Cosa gli stava succedendo e soprattutto cosa voleva Bill?