CAPITOLO
13:
COME
UNA MALATTIA
‘Persone
che non sanno amare, sanno di non saperlo fare e allontanano chi
vedono troppo vicino a sé. Una scelta di vita per evitare
inutili sofferenze. Ma si poteva chiamare vita?’
/
Motocicletta – Lucio Battisti /
Era
tutto sommatèun buon periodo, nonostante si dividesse
equamente fra lavoro e passatempo e non avesse molto tempo per
sé
stesso, Marek non si lamentava, non era nella sua indole.
Semplicemente aveva delle cose da fare, sapeva come organizzarsi il
tempo e se non arrivava a fare tutto, la sua scala di valori rendeva
sacrificabile qualcosa. Per lui era importante aiutare la madre in
casa economicamente e proteggere la sorella da quello che la vita
poteva proporle per 'sporcarla'. Era contento che al di là
della morte del padre non aveva sofferto oltre. L'aveva preservata il
più possibile sostituendosi a lui, anche con sua madre si
era
rivelato una figura importante e sicura, una colonna su cui entrambe
le donne di casa si appoggiavano.
Per
questo poi quando aveva dovuto smettere di giocare a basket era stata
dura e, nonostante il ginocchio ormai compromesso, aveva deciso di
non rinunciare definitivamente tentando la strada dell'allenatore. Si
impegnava, era della filosofia del 'io devo quindi posso', niente
scuse o 'non ce la faccio'. Andava avanti con forza e determinazione
senza mai cedere a nulla.
Il
momento della morte prematura del padre non l'aveva mai superato
veramente e quello shock l'aveva portato ad una chiusura totale,
dalla quale poi ne era uscito convincendosi che l'amore semplicemente
non esisteva visto che si poteva morire così facilmente.
Anche
perché senza si era sicuramente tutti più forti.
Aveva
fatto dei ragionamenti drastici ma gli erano serviti per risollevarsi
e tirare fuori i cosiddetti. Aveva sostenuto la madre con le sue
affettuosità un po' contenute e le sue idee di diventare
medico-scienziato per trovare medicine contro la morte.
Aveva
portato molto nel cuore della madre e lui, il piccolo Marek,
crescendo aveva capito che il padre ormai non sarebbe più
potuto tornare vivo ed aveva sviluppato una sorta di odio,
inconsciamente, perché se ne era andato per sempre senza
dirgli nulla, avvisarlo, chiedere permessi. Quando da quella fase era
ulteriormente cresciuto gli era rimasto il desiderio di diventare
medico per evitare quante più morti possibili, con forza e
determinazione aveva messo da parte la propria vita privata per
dedicarsi a questo suo sogno in contemporanea a quello di giocare
basket. Il padre, infatti, era un grande giocatore di basket ed aveva
insistito per insegnarlo anche a lui. I suoi sogni quindi erano
diventati quello di realizzare il padre nel suo sport preferito e di
diventare medico per salvare qualche vita in più,
riscattandosi così per il suo genitore.
Fu
semplicemente uno shock per lui rompersi il ginocchio e scoprire che
non sarebbe più potuto diventare quel campione che tanto
desiderava. Fu in contemporanea un enorme colpo notare come
lentamente si stavano riducendo sul lastrico perché lo
stipendio della madre sempre a lavoro non bastava.
La
scelta di interrompere gli studi e lo sport fu in un certo senso
costretta e libera insieme, ma vennero fatte nello stesso momento e
per Marek questo determinò un allontanamento da
sé
stesso e dall'amore. Dall'esterno non lo diede a vedere ma per
aiutare la madre in casa andò a lavorare, per evitare che la
sorella finisse come lui la crebbe a modo suo in una campana di vetro
ed infine per sé stesso, per permettergli di stare comunque
sereno, accettò di diventare aiuto allenatore di basket
salvandosi così almeno un po' dal crollo emotivo.
A
quel
punto capì che l'amore eterno non esisteva nella vita reale,
dove invece si doveva lottare. Divenne pian piano incapace di donare
amore ad una persona così come la natura richiede. L'alone
che
lo circondò fu di mistero e forza insieme, si vedeva che
viveva per il basket, sin da quando aveva iniziato ad insegnarlo ai
bambini si era sentito vivo e felice e l'aveva dimostrato a modo suo,
senza troppo entusiasmo ma semplicemente ridendo con loro e
rilassandosi. Determinato a non farsi mai mettere i piedi in testa
lasciò che il silenzio e i fatti parlassero per lui. Anche
se
che sarebbe stato più sensato dimostrare la sua forza usando
quante più parole possibili, insieme alle azioni. Del resto
esistono diversi modi di far vedere come ci si fa valere.
La
forza interiore è una dote che non tutti hanno e non tutti
riescono ad esternare, alcuni detestano solo il pensiero di dover
sopportare le idee altrui, ciò che non va bene a noi, essere
messi da parte. In questo caso si finisce per prevalere con mezzi
assoluti e far casino senza venire compresi.
Questo
tipo di persona non era Marek, Marek amava il silenzio quando doveva
dimostrare la sua incrollabilità e la sua fermezza. Silenzio
ma non assenza di gesti. Riusciva ad essere incisivo con quel suo
magnetismo che tanto Samantah amava.
In
Trystin aveva trovato un compagno ideale. Trovando uno che in fondo
gli somigliava molto, era comprensibile come mai stessero sempre
insieme durante gli allenamenti.
Divennero
presto amici, il moro conosceva bene l'inglese e traduceva gli ordini
e le spiegazioni, si esercitavano spesso insieme e nel limite del
possibile adorava mettere alla prova il biondo vedendo quanto capace
fosse, a che punto potesse arrivare.
Daniel
un po' geloso lo era ma non eccessivamente, non era il tipo da
gelosia, non per cose simili per lo meno. Lo capiva e Trystin stesso
ne parlava con lui. Quel ragazzo, Marek, era particolare. Erano
così
simili che era convinto che senza Daniel sarebbe diventato come lui;
la differenza era proprio il fidanzato di questo.
Con
una
smorfia l'aiutante dell'allenatore decise di fermarsi e cedere il
passo. Una nuova fitta al ginocchio l'aveva portato a desistere.
Con
sottile fastidio non chiaramente dimostrato si asciugò un
rivolo di sudore dalla fronte che colava lungo la guancia e si
diresse negli spogliatoi per rinfrescarsi un po' e fare un impacco al
ginocchio.
Aveva
esagerato.
Seccato
con gesti più veloci del solito si sedette nelle panchine
della stanza deserta e si appoggiò un sacchetto di ghiaccio
sulla parte che gli doleva, poi portò la testa all'indietro
e
chiuse gli occhi.
Rilassarsi?
No, non fece in tempo visto che subito un frastuono lo fece saltare
sul posto e allertare. La finestra si spalancò e chi vi
spuntò
fu una ragazza familiare tutta rannicchiata sul balcone, vestiti
larghi e maschili, capelli raccolti e neri, spettinati, sguardo da
chi era stato beccato in flagrante, e la bocca a forma di 'ops '
morto in gola nel momento in cui gli scuri occhi si erano infranti
sul ragazzo seduto:
"Porco
cane! Troia vacca! Su mille che potevano capitarmi proprio lui?
Proprio Marek doveva beccarmi in questo stato ad entrare come una
ladra? Che figura di merda! "
Pensò
fulminea Samatah agitata; lei, un maschiaccio mancato che sin da
piccola si arrampicava sugli alberi e sulle grondaie coi suoi
fratelli, lei che imprecava ad ogni frase ma che aveva sempre una
parola da dire, lei spontanea e pasticciona, immensa combina guai,
lei che quando si innamorava di qualcuno era per sempre e dannosa al
massimo... ebbene si, proprio lei finì con il mollare un
sorrisino ebete colpevole e un flebile:
-
Marek... -
Marek
la guardò alzando un sopracciglio interrogativo: cosa ci
faceva lei lì? Nella finestra degli spogliatoi maschili?
-
Samantah? - Ma non si scompose più di tanto, rimanendo
tranquillo e beato seduto lì. Il dolore al ginocchio stava
ormai passando.
La
vide
accentuare un sorriso di circostanza e con il caos più
totale
finire l'operazione insolita con un agile salto all'interno della
stanza... salto che in un qualsiasi momento sarebbe finito bene, ma
che ora in quello stato d'animo finì decisamente male!
Un
patatrak non indifferente allarmò seriamente Marek che si
alzò
istintivamente vedendola faccia a terra. Non un cenno di vita, per un
attimo pensò che si fosse rotta l'osso del collo, poi
sperò
di sbagliarsi: sarebbe stato dannoso per tutti.
Si
avvicinò cautamente conscio di non doverla muovere prima che
lei stessa non si riprendesse, coi traumi cranici era così.
Essendo poi lei di norma un trauma vivente...
-
Ehm... ci sei? Tutto ok? -
Chiese
poco convinto sporgendosi sulla figura stesa ed immobile. I primi
movimenti furono delle sue braccia, poi i palmi si poggiarono ai lati
del viso e facendovi forza si tirò su il necessario per
alzare
la testa verso di lui, aveva la faccia tutta rossa e la fronte con un
bozzolo che cresceva a vista d'occhio. Un grugnito segnava che era
ancora viva anche se agli angoli degli occhi due lacrimoni di dolore
le si formavano, aveva un espressione buffa e spontanea che lo fece
scoppiare a ridere istintivamente. Impossibile trattenersi!
Rise
di
gusto mentre prendeva il sacchetto del ghiaccio abbandonato sulla
panca e accucciandosi davanti a lei glielo appoggiava sulla fronte,
in mezzo agli occhi. Come aveva fatto a prendere la botta lì
era un mistero!
Anche
il naso era rosso ma non usciva sangue, si era morsa il labbro ed un
rivoletto le spuntava colandole sul mento tremante. Senti molto
dolore e prima di capire dove fosse si sentì subito in
estasi,
nel caos più totale. Confusione e gioia nel constatare che
chissà come si trovava proprio davanti a Marek e che lui con
gentilezza le stava mettendo il ghiaccio sulla testa. Che carino!
Trattenendo
il fiato si sedette meglio lasciando le gambe spalancate continuando
fissarlo, aveva parlato ma non aveva capito cosa avesse detto:
-
Cosa?
-
-
Ti fa
male qualche altra parte? -
-
Oh... -
Rispose
solo questa totalmente partita per la tangente, non comprendeva
più
la lingua italiana. Lui ridacchiò, era consapevole della
cotta
che aveva per lui e lo divertiva molto, ma al contempo era combattuto
sul come comportarsi con lei. Alla fine, però, finiva sempre
per agire d'istinto nonostante non fosse il tipo.
-
Sam... hai preso una brutta botta, eh? -
Il
soprannome con cui la chiamò la risvegliò e
scotendosi
disse sempre sognante:
-
No,
cioè si... oddio... ora che ci penso ho male ben da altre
parti... -
Alzò
le sopracciglia chiedendole quindi dove e lei dovendo fare mente
locale, cominciò a toccarsi i vari punti che le dolevano.
Fece
una smorfia maggiore quando arrivò alla caviglia sinistra,
improvvisamente la sentì che andava come a fuoco,
dall'interno
dell'osso una vampata comprendente mille aghi le si spanse per tutta
la parte circostante.
-
La
caviglia? -
Annuì
con aria colpevole e sofferente insieme ma che voleva essere felice;
portò quindi i suoi grandi occhi espressivi in quelli di lui
che semplicemente agivano da analgesico e calmante insieme.
-
Qualcos'altro? -
Negò
sentendosi improvvisamente un pochino stupida.
-
Ma
spiegami una cosa prima... che ci facevi lì? -
Assunse
un'aria così infantile da farlo quasi scoppiare di nuovo a
ridere mentre continuava a reggerle il ghiaccio sulla fronte, il
dolore per lei era troppo forte per capire qualunque altra cosa e
godersi appieno quel momento divino, divenne rossa e spiegò:
-
Ecco... sono uscita durante gli allenamenti per prendere delle cose,
ma quando sono tornata la porta della palestra era chiusa; siccome vi
stavate allenando mi sono arrangiata ad entrare dalla finestra degli
spogliatoi... solo che stavo cantando allegramente una canzone, poi
a quello si era aggiunta l'azione di entrare acrobaticamente, infine
ti ho visto e il fatto di doverti parlare ed insieme scendere
cercando di non fare figuracce ha portato il mio cervello ad un
sovraccarico e andando in tilt mi sono scordata di mettere bene il
piede atterrando! Ed eccomi qui! -
Dopo
il
monologo dettagliato dell'accaduto Marek fece uno sforzo encomiabile
per non ridere ancora, disse quindi:
-
Deve
essere scattata da sola la serratura che permette alla porta di
aprirsi solo da dentro. -
Cosa
che non fu molto chiara a Samantah, anche perché non poteva
certo pretendere di capire qualcosa fra dolore ed estasi d'amore!
Realizzando
che non avrebbe più risposto si alzò appoggiando
il
sacchetto sulla panchina, le tese la mano e le disse calmo e pacato:
-
Ti
aiuto, dobbiamo vedere se è rotta! -
Lei
fissò stralunata la sua mano e non capì
più che
dovesse farci, le era sfuggita la logica che doveva aggrapparsi a lui
per rimettersi in piedi. Indecisa e timidamente gli prese solo due
dita per tastare il terreno: cosa doveva fare con la sua mano? Lui
fece cenno di ridere ma con sforzo non lo fece:
-
Ehm... dovresti prenderla e far forza su di essa per alzarti.
Ricordati questa volta della caviglia dolorante... -
Le
parlò come se avesse a che fare con una bambina!
Lei
si
illuminò diventando ancor più rossa, capendo
forse la
gaffe che aveva fatto:
-
E chi
se la dimentica? Mi fa un male boia! -
Così
gli prese la mano stringendola, la sensazione fu di una piccola
scarica elettrica dovuta al fatto che quando si è innamorati
della persona con cui hai a che fare, è tutto amplificato ed
esagerato. Un suo semplice gesto come il soffiarsi il naso viene
visto come la cosa più sexy del mondo!
Riprese
la sua aria sognante mentre si tirava su e ringraziando tutti i Santi
del mondo per quanto le era successo, appena appoggiò il
piede
a terra lì maledì immediatamente cambiando idea e
dimenticandosi di essere con l'amore della sua vita:
-
Vacca
Treno Porca Merdaccia Cane! -
Sbottò
'finemente' la signorina, a questo Marek non resistette e con un
guizzo divertito negli occhi blu si lasciò andare ad una
risatina non fastidiosa ma appropriata:
-
Immagino che è meglio andare all'ospedale! -
La
cosa
più intelligente che potessero dire alla mora in quel
momento.
La seconda sarebbe stata 'sposati con Marek' , ma questo solo
perché
la sua mente era a senso unico.
-
Vieni... -
Mormorò
quindi lui portandole fluido un braccio attorno alla vita,
immediatamente i loro corpi si avvicinarono e prima che lei potesse
rendersene conto si trovò appiccicata a lui in una specie di
abbraccio forte che la sorreggeva.
Lui
non
la guardava e lei non ebbe il coraggio ma avrebbe voluto farlo,
divenne di tutti i colori possibili dimenticandosi di respirare.
Andò
in panico subito perché non sapeva dove mettere il suo
braccio
e la sua mano, così fu lui a guidarla attorno alle sue
spalle
passandosela dietro al collo.
Con
la
paura che lui sentisse la sua aritmia si morse il labbro e si
concentrò sul dolore che effettivamente era notevole e la
faceva a dir poco cainare rovinando l'idilliaco momento. Si diede
della stupida per non aver saputo approfittare del momento, ma
proprio non riusciva a prendere il controllo di sé. Non le
rimaneva che continuare ad essere felice e super agitata.
Certamente
era troppo chiedersi chi l'avrebbe accompag&!ta all'ospedale.
Si
trovò quindi ancor più nel panico nel momento in
cui si
rese conto che avrebbe passato del tempo sola
con
LUI, tanto che in macchina, nella sua C3 nera, non spiccicò
parola. Lui dal canto suo non era certo tipo da chiacchierata: al
silenzio rispondeva con il silenzio!
/
Everybody hurt – REM /
Al
pronto soccorso li scambiarono per una coppia di fidanzati e nessuno
dei due negò, lei perché troppo imbarazzata, lui
perché
non gliene importava e onestamente la situazione lo divertiva sempre
più.
Nella
sala d'attesa seduti insieme si resero conto di dover parlare di
qualcosa, ormai sembrava ridicolo quel stare assolutamente zitti e se
per lui non c'erano problemi, per lei invece si... altro che storta
alla caviglia!
Lei
si
chiedeva se quello non fosse il momento adatto per dirgli dei suoi
sentimenti, poco romantica com'era certamente non sapeva quale fosse
l'atmosfera adatta e per di più non si era mai dichiarata a
nessuno, non sapeva come si faceva e cosa succedeva generalmente.
Pensò che avesse dovuto fare quello che il suo istinto le
avrebbe suggerito, ma non fu facile lo stesso. Introdusse con un
argomento a caso:
-
Mi
dispiace rubarti tutto questo tempo, ma a casa non avevo nessuno... ti
secca? Guarda, se hai impegni posso arrangiarmi... -
"Stupida!
Cosa dici? E se se ne va veramente? Tu vuoi stare con lui il
più
possibile! Idiota, taci o parla con più criterio. Si, quale
criterio? Non ne ho mai avuto uno… devo esercitarmi di
più
in futuro con Max o Gianluca, così poi potrò
sostenere
conversazioni degne con Marek... oddio, perché, ho anche
intenzione di tornare a guardarlo negli occhi e parlarci, dopo oggi?"
Faceva
tutto lei, montava e disfava pensieri complicati come una
schizofrenica.
Lui
dal
canto suo si trovava sempre meglio e la cosa nonostante l'avesse
sempre divertito, ora cominciava ad allarmarlo seriamente. Non voleva
assolutamente che lei si illudesse, non era uno stronzo che usava le
donne. Lui non credeva all'amore e non era capace di instaurare
rapporti seri e duraturi, per questo evitava le donne e le relazioni
come la peste, dal momento che non era uno stronzo e non riusciva
solo a portarsele a letto preferiva essere onesto.
-
Non
preoccuparti, dai... per una volta! -
Finalmente
lei si ricordò di qualcosa di sensato da chiedergli, si
illuminò e felice disse:
-
Anzi,
ora che ricordo ti ho interrotto, come mai eri solo negli spogliatoi?
Avevi il ghiaccio sul ginocchio... -
Lei
non
conosceva la sua storia e notò una breve luce di dolore e
malinconia nello sguardo, quella luce che gli fece calare quel solito
alone di mistero che l'accompagnava quasi sempre. Era così
affascinante in quei momenti. Samantah arrossì e distolse lo
sguardo da lui abbassandolo sulle sue gambe scomposte.
Parlò
con un tono sottile e sfumato, vellutato ma strano... nostalgico:
-
Ho
problemi al ginocchio, è per questo che ho dovuto smettere
di
praticare il basket e sono venuto al di qua del campo. Ho dovuto
proprio interrompere sul più bello della mia carriera
cestistica. -
Lei
ci
rimase male e non lo mascherò:
-
Oh,
non immaginavo, scusa se te l'ho chiesto... -
Lui
la
tranquillizzò, sembrava molto controllato e calmo:
-
Non
preoccuparti. Così a volte mentre alleno i ragazzi mi
vengono
delle fitte, ma passano subito, basta metterci del ghiaccio. -
Forse
era solo la voce così morbida di lui che
l'invogliò a
continuare, che la fece sentire come spinta a non mollare la cosa e
spontaneamente ma non invadente chiese:
-
Avevi
un'aria stanca e malinconica, in un primo momento non ero sicura che
fossi tu, pensavo di non conoscerti... poi ho fatto fuoco quando mi
hai fissato ironico e freddo... -
E
lui
apprezzava di lei proprio il suo dire quel che pensava anche contro
sé stessa. Fece un sorriso appena accennato di amarezza:
-
Ho
molti rimpianti per il basket... e non solo... in questi momenti me
li ricordo tutti e non arrivo a non pensarci. -
Non
era
obbligato, lei non glielo chiese, sapeva dove fermarsi, ma forse
l'atmosfera creata parlando di quelle cose aiutò la
confidenza, Marek stava sempre meglio con lei sia quando non era
seria che quando riusciva ad esserlo. Erano compatibili e il
rendersene conto lo shockava sempre più. Proseguì
sentendo che forse glielo doveva ma dentro di sé si diceva
che
doveva smetterla di illuderla in quel modo:
-
Sai,
mio padre è morto che avevo nove anni, improvvisamente... e
ha
lasciato me, mia madre e mia sorella. Non ti dico i sacrifici e le
varie fasi della mia vita, ma quando sono cresciuto abbastanza da
capire che non sarebbe tornato neppure con tutti i miei sforzi, ho
deciso che avrei realizzato il suo sogno, lui giocava a basket e
avrebbe voluto finire nella nazionale. Contemporaneamente nacque un
altro sogno legato a lui... volevo fare il medico per evitare la
rabbia e il rimpianto con cui l'avevo lasciato. Nulla di che,
insomma... cosa tipiche di ragazzini. Peccato che nello stesso
momento mi ruppi il ginocchio apprendendo che non avrei più
potuto giocare, e mia madre mi disse che stavamo finendo sotto un
ponte... per evitare queste cose mollai gli unici sogni della mia
vita, smisi di studiare per lavorare e di fare sport per la mia
salute. I rimpianti di cui parlavo sono questi. Banali e sciocchi
come vedi, nulla di importante! -
Aveva
parlato veramente con molta amarezza che colpì molto
Samantah,
la confidenza che le aveva fatto era importante e le fece crescere un
sentimento molto più forte del precedente, istintivamente si
voltò verso di lui portando una mano su quella di lui, non
era
pena ma sincera voglia di trasmettergli quello che aveva dentro, ora
troppo evidente ed incontenibile.
-
Smetti, non è vero. La mia vita è stata banale e
sciocca non certo queste cose che ti sono capitate e che ora ti
spingono a star così. Io confronto a persone come te mi
sento
veramente nulla e mi detesto da sola. Non so, non ne sono degna, no?
Voglio dire di stare accanto a persone simili. Eppure mi sono presa
la scuffia per te, che siamo così diversi persino nei nostri
vissuti... e per me la vera tragedia è sentirmi niente
confronto a te! -
Lei
era
passione e si sapeva, era un uragano pasticcione e molto timida verso
l'amore... ma quando c'erano di mezzo i sentimenti e questi le
sfuggivano di mano, spesso, difficilmente poi riusciva a
controllarsi. Pensandoci dopo si diede dell'imbecille per averglielo
detto in un pronto soccorso, dopo che lui si era confidato con lei,
solo con un'atmosfera creata in un attimo da quelle parole.
Si
guardarono a lungo negli occhi, lui aveva uno sguardo magnetico e
scosso, lei altrettanto scossa ma più infuocato, come se del
carbone vivo vi si muovesse dentro. Così seria non l'aveva
mai
vista, si trovarono molto vicini e fissandosi in quel modo in quella
situazione molte cose scattarono in tutti e due, diverse o simili che
fossero. Forse erano anche ovvie ma ci furono e lui si sporse verso
di lei sfiorandole le labbra con le sue, delicato e leggero. Non un
vero bacio, solo quello, come una sorta di ringraziamento.
Poi
le
sue sopracciglia si corrugarono ed una domanda nel suo volto:
"Che
è successo?
Cosa
sto combinando?
Smettila,
prendi le cose nelle tue mani prima che sia troppo tardi! "
Confusi
entrambi, Marek divenne subito di ghiaccio, si indurì e lei
lo
percepì irrigidendosi a sua volta; ancora non aveva capito
bene l'accaduto, non aveva potuto registrarlo e gioire per esso. Lui
la bloccò sul nascere e con un controllo inumano, con un
cambiamento drastico pazzesco, la ferì volontariamente
sperando che tutto potesse risolversi. Lui aveva una
responsabilità
nella sua scelta di non amare, era una responsabilità per
non
rendere infelice chi non se lo meritava. Samantah era entrata in lui
in un modo o nell'altro e certo non si meritava di stare con lui che
l'avrebbe resa infelice. Lui non sapendola amare come lei ne avrebbe
avuto bisogno, come lei si meritava, doveva prevenire ed evitare ogni
dolore. Proprio perché iniziava a volerle bene.
Una
scelta che molti facevano, non tutti, ma c'era chi ragionava proprio
così.
E
feriva chi avevano davanti:
-
Scusami, ci siamo capiti male. Io non sono il tipo di persona che si
lega a qualcuno, non sono capace di rendere felice qualcuno. Lasciami
perdere, lo dico per te, ti meriti di più. Vedimi come uno
malato ma toglimi dalla tua testa. Chiamo a casa tua e rintraccio
qualcuno che venga qua... ciao Sam. -
Del
resto spezzare gli altri era estremamente facile, anche se c'era chi
sosteneva che preferiva essere lasciato piuttosto che lasciare.
Eppure in questo caso non si erano nemmeno messi insieme.
Tutto
quel che rimase a Samantah fu guardare le sue spalle allontanarsi
dalla sala e sentire un nodo crescere spropositato in lei.
Pianse
gran parte della notte.
Persone
che non sanno amare, sanno di non saperlo fare e allontanano chi
vedono troppo vicino a sé. Una scelta di vita per evitare
inutili sofferenze. Ma si poteva chiamare vita?