CAPITOLO 13:
COME UNA MALATTIA

sammarek

Persone che non sanno amare, sanno di non saperlo fare e allontanano chi vedono troppo vicino a sé. Una scelta di vita per evitare inutili sofferenze. Ma si poteva chiamare vita?’


/ Motocicletta – Lucio Battisti /
Era tutto sommatèun buon periodo, nonostante si dividesse equamente fra lavoro e passatempo e non avesse molto tempo per sé stesso, Marek non si lamentava, non era nella sua indole. Semplicemente aveva delle cose da fare, sapeva come organizzarsi il tempo e se non arrivava a fare tutto, la sua scala di valori rendeva sacrificabile qualcosa. Per lui era importante aiutare la madre in casa economicamente e proteggere la sorella da quello che la vita poteva proporle per 'sporcarla'. Era contento che al di là della morte del padre non aveva sofferto oltre. L'aveva preservata il più possibile sostituendosi a lui, anche con sua madre si era rivelato una figura importante e sicura, una colonna su cui entrambe le donne di casa si appoggiavano.
Per questo poi quando aveva dovuto smettere di giocare a basket era stata dura e, nonostante il ginocchio ormai compromesso, aveva deciso di non rinunciare definitivamente tentando la strada dell'allenatore. Si impegnava, era della filosofia del 'io devo quindi posso', niente scuse o 'non ce la faccio'. Andava avanti con forza e determinazione senza mai cedere a nulla.
Il momento della morte prematura del padre non l'aveva mai superato veramente e quello shock l'aveva portato ad una chiusura totale, dalla quale poi ne era uscito convincendosi che l'amore semplicemente non esisteva visto che si poteva morire così facilmente. Anche perché senza si era sicuramente tutti più forti. Aveva fatto dei ragionamenti drastici ma gli erano serviti per risollevarsi e tirare fuori i cosiddetti. Aveva sostenuto la madre con le sue affettuosità un po' contenute e le sue idee di diventare medico-scienziato per trovare medicine contro la morte.
Aveva portato molto nel cuore della madre e lui, il piccolo Marek, crescendo aveva capito che il padre ormai non sarebbe più potuto tornare vivo ed aveva sviluppato una sorta di odio, inconsciamente, perché se ne era andato per sempre senza dirgli nulla, avvisarlo, chiedere permessi. Quando da quella fase era ulteriormente cresciuto gli era rimasto il desiderio di diventare medico per evitare quante più morti possibili, con forza e determinazione aveva messo da parte la propria vita privata per dedicarsi a questo suo sogno in contemporanea a quello di giocare basket. Il padre, infatti, era un grande giocatore di basket ed aveva insistito per insegnarlo anche a lui. I suoi sogni quindi erano diventati quello di realizzare il padre nel suo sport preferito e di diventare medico per salvare qualche vita in più, riscattandosi così per il suo genitore.
Fu semplicemente uno shock per lui rompersi il ginocchio e scoprire che non sarebbe più potuto diventare quel campione che tanto desiderava. Fu in contemporanea un enorme colpo notare come lentamente si stavano riducendo sul lastrico perché lo stipendio della madre sempre a lavoro non bastava.
La scelta di interrompere gli studi e lo sport fu in un certo senso costretta e libera insieme, ma vennero fatte nello stesso momento e per Marek questo determinò un allontanamento da sé stesso e dall'amore. Dall'esterno non lo diede a vedere ma per aiutare la madre in casa andò a lavorare, per evitare che la sorella finisse come lui la crebbe a modo suo in una campana di vetro ed infine per sé stesso, per permettergli di stare comunque sereno, accettò di diventare aiuto allenatore di basket salvandosi così almeno un po' dal crollo emotivo.
A quel punto capì che l'amore eterno non esisteva nella vita reale, dove invece si doveva lottare. Divenne pian piano incapace di donare amore ad una persona così come la natura richiede. L'alone che lo circondò fu di mistero e forza insieme, si vedeva che viveva per il basket, sin da quando aveva iniziato ad insegnarlo ai bambini si era sentito vivo e felice e l'aveva dimostrato a modo suo, senza troppo entusiasmo ma semplicemente ridendo con loro e rilassandosi. Determinato a non farsi mai mettere i piedi in testa lasciò che il silenzio e i fatti parlassero per lui. Anche se che sarebbe stato più sensato dimostrare la sua forza usando quante più parole possibili, insieme alle azioni. Del resto esistono diversi modi di far vedere come ci si fa valere.
La forza interiore è una dote che non tutti hanno e non tutti riescono ad esternare, alcuni detestano solo il pensiero di dover sopportare le idee altrui, ciò che non va bene a noi, essere messi da parte. In questo caso si finisce per prevalere con mezzi assoluti e far casino senza venire compresi.
Questo tipo di persona non era Marek, Marek amava il silenzio quando doveva dimostrare la sua incrollabilità e la sua fermezza. Silenzio ma non assenza di gesti. Riusciva ad essere incisivo con quel suo magnetismo che tanto Samantah amava.
In Trystin aveva trovato un compagno ideale. Trovando uno che in fondo gli somigliava molto, era comprensibile come mai stessero sempre insieme durante gli allenamenti.
Divennero presto amici, il moro conosceva bene l'inglese e traduceva gli ordini e le spiegazioni, si esercitavano spesso insieme e nel limite del possibile adorava mettere alla prova il biondo vedendo quanto capace fosse, a che punto potesse arrivare.
Daniel un po' geloso lo era ma non eccessivamente, non era il tipo da gelosia, non per cose simili per lo meno. Lo capiva e Trystin stesso ne parlava con lui. Quel ragazzo, Marek, era particolare. Erano così simili che era convinto che senza Daniel sarebbe diventato come lui; la differenza era proprio il fidanzato di questo.
Con una smorfia l'aiutante dell'allenatore decise di fermarsi e cedere il passo. Una nuova fitta al ginocchio l'aveva portato a desistere.
Con sottile fastidio non chiaramente dimostrato si asciugò un rivolo di sudore dalla fronte che colava lungo la guancia e si diresse negli spogliatoi per rinfrescarsi un po' e fare un impacco al ginocchio.
Aveva esagerato.
Seccato con gesti più veloci del solito si sedette nelle panchine della stanza deserta e si appoggiò un sacchetto di ghiaccio sulla parte che gli doleva, poi portò la testa all'indietro e chiuse gli occhi.
Rilassarsi? No, non fece in tempo visto che subito un frastuono lo fece saltare sul posto e allertare. La finestra si spalancò e chi vi spuntò fu una ragazza familiare tutta rannicchiata sul balcone, vestiti larghi e maschili, capelli raccolti e neri, spettinati, sguardo da chi era stato beccato in flagrante, e la bocca a forma di 'ops ' morto in gola nel momento in cui gli scuri occhi si erano infranti sul ragazzo seduto:
"Porco cane! Troia vacca! Su mille che potevano capitarmi proprio lui? Proprio Marek doveva beccarmi in questo stato ad entrare come una ladra? Che figura di merda! "
Pensò fulminea Samatah agitata; lei, un maschiaccio mancato che sin da piccola si arrampicava sugli alberi e sulle grondaie coi suoi fratelli, lei che imprecava ad ogni frase ma che aveva sempre una parola da dire, lei spontanea e pasticciona, immensa combina guai, lei che quando si innamorava di qualcuno era per sempre e dannosa al massimo... ebbene si, proprio lei finì con il mollare un sorrisino ebete colpevole e un flebile:
- Marek... -
Marek la guardò alzando un sopracciglio interrogativo: cosa ci faceva lei lì? Nella finestra degli spogliatoi maschili?
- Samantah? - Ma non si scompose più di tanto, rimanendo tranquillo e beato seduto lì. Il dolore al ginocchio stava ormai passando.
La vide accentuare un sorriso di circostanza e con il caos più totale finire l'operazione insolita con un agile salto all'interno della stanza... salto che in un qualsiasi momento sarebbe finito bene, ma che ora in quello stato d'animo finì decisamente male!
Un patatrak non indifferente allarmò seriamente Marek che si alzò istintivamente vedendola faccia a terra. Non un cenno di vita, per un attimo pensò che si fosse rotta l'osso del collo, poi sperò di sbagliarsi: sarebbe stato dannoso per tutti.
Si avvicinò cautamente conscio di non doverla muovere prima che lei stessa non si riprendesse, coi traumi cranici era così. Essendo poi lei di norma un trauma vivente...
- Ehm... ci sei? Tutto ok? -
Chiese poco convinto sporgendosi sulla figura stesa ed immobile. I primi movimenti furono delle sue braccia, poi i palmi si poggiarono ai lati del viso e facendovi forza si tirò su il necessario per alzare la testa verso di lui, aveva la faccia tutta rossa e la fronte con un bozzolo che cresceva a vista d'occhio. Un grugnito segnava che era ancora viva anche se agli angoli degli occhi due lacrimoni di dolore le si formavano, aveva un espressione buffa e spontanea che lo fece scoppiare a ridere istintivamente. Impossibile trattenersi!
Rise di gusto mentre prendeva il sacchetto del ghiaccio abbandonato sulla panca e accucciandosi davanti a lei glielo appoggiava sulla fronte, in mezzo agli occhi. Come aveva fatto a prendere la botta lì era un mistero!
Anche il naso era rosso ma non usciva sangue, si era morsa il labbro ed un rivoletto le spuntava colandole sul mento tremante. Senti molto dolore e prima di capire dove fosse si sentì subito in estasi, nel caos più totale. Confusione e gioia nel constatare che chissà come si trovava proprio davanti a Marek e che lui con gentilezza le stava mettendo il ghiaccio sulla testa. Che carino!
Trattenendo il fiato si sedette meglio lasciando le gambe spalancate continuando fissarlo, aveva parlato ma non aveva capito cosa avesse detto:
- Cosa? -
- Ti fa male qualche altra parte? -
- Oh... -
Rispose solo questa totalmente partita per la tangente, non comprendeva più la lingua italiana. Lui ridacchiò, era consapevole della cotta che aveva per lui e lo divertiva molto, ma al contempo era combattuto sul come comportarsi con lei. Alla fine, però, finiva sempre per agire d'istinto nonostante non fosse il tipo.
- Sam... hai preso una brutta botta, eh? -
Il soprannome con cui la chiamò la risvegliò e scotendosi disse sempre sognante:
- No, cioè si... oddio... ora che ci penso ho male ben da altre parti... -
Alzò le sopracciglia chiedendole quindi dove e lei dovendo fare mente locale, cominciò a toccarsi i vari punti che le dolevano. Fece una smorfia maggiore quando arrivò alla caviglia sinistra, improvvisamente la sentì che andava come a fuoco, dall'interno dell'osso una vampata comprendente mille aghi le si spanse per tutta la parte circostante.
- La caviglia? -
Annuì con aria colpevole e sofferente insieme ma che voleva essere felice; portò quindi i suoi grandi occhi espressivi in quelli di lui che semplicemente agivano da analgesico e calmante insieme.
- Qualcos'altro? -
Negò sentendosi improvvisamente un pochino stupida.
- Ma spiegami una cosa prima... che ci facevi lì? -
Assunse un'aria così infantile da farlo quasi scoppiare di nuovo a ridere mentre continuava a reggerle il ghiaccio sulla fronte, il dolore per lei era troppo forte per capire qualunque altra cosa e godersi appieno quel momento divino, divenne rossa e spiegò:
- Ecco... sono uscita durante gli allenamenti per prendere delle cose, ma quando sono tornata la porta della palestra era chiusa; siccome vi stavate allenando mi sono arrangiata ad entrare dalla finestra degli spogliatoi... solo che stavo cantando allegramente una canzone, poi a quello si era aggiunta l'azione di entrare acrobaticamente, infine ti ho visto e il fatto di doverti parlare ed insieme scendere cercando di non fare figuracce ha portato il mio cervello ad un sovraccarico e andando in tilt mi sono scordata di mettere bene il piede atterrando! Ed eccomi qui! -
Dopo il monologo dettagliato dell'accaduto Marek fece uno sforzo encomiabile per non ridere ancora, disse quindi:
- Deve essere scattata da sola la serratura che permette alla porta di aprirsi solo da dentro. -
Cosa che non fu molto chiara a Samantah, anche perché non poteva certo pretendere di capire qualcosa fra dolore ed estasi d'amore!
Realizzando che non avrebbe più risposto si alzò appoggiando il sacchetto sulla panchina, le tese la mano e le disse calmo e pacato:
- Ti aiuto, dobbiamo vedere se è rotta! -
Lei fissò stralunata la sua mano e non capì più che dovesse farci, le era sfuggita la logica che doveva aggrapparsi a lui per rimettersi in piedi. Indecisa e timidamente gli prese solo due dita per tastare il terreno: cosa doveva fare con la sua mano? Lui fece cenno di ridere ma con sforzo non lo fece:
- Ehm... dovresti prenderla e far forza su di essa per alzarti. Ricordati questa volta della caviglia dolorante... -
Le parlò come se avesse a che fare con una bambina!
Lei si illuminò diventando ancor più rossa, capendo forse la gaffe che aveva fatto:
- E chi se la dimentica? Mi fa un male boia! -
Così gli prese la mano stringendola, la sensazione fu di una piccola scarica elettrica dovuta al fatto che quando si è innamorati della persona con cui hai a che fare, è tutto amplificato ed esagerato. Un suo semplice gesto come il soffiarsi il naso viene visto come la cosa più sexy del mondo!
Riprese la sua aria sognante mentre si tirava su e ringraziando tutti i Santi del mondo per quanto le era successo, appena appoggiò il piede a terra lì maledì immediatamente cambiando idea e dimenticandosi di essere con l'amore della sua vita:
- Vacca Treno Porca Merdaccia Cane! -
Sbottò 'finemente' la signorina, a questo Marek non resistette e con un guizzo divertito negli occhi blu si lasciò andare ad una risatina non fastidiosa ma appropriata:
- Immagino che è meglio andare all'ospedale! -
La cosa più intelligente che potessero dire alla mora in quel momento. La seconda sarebbe stata 'sposati con Marek' , ma questo solo perché la sua mente era a senso unico.
- Vieni... -
Mormorò quindi lui portandole fluido un braccio attorno alla vita, immediatamente i loro corpi si avvicinarono e prima che lei potesse rendersene conto si trovò appiccicata a lui in una specie di abbraccio forte che la sorreggeva.
Lui non la guardava e lei non ebbe il coraggio ma avrebbe voluto farlo, divenne di tutti i colori possibili dimenticandosi di respirare. Andò in panico subito perché non sapeva dove mettere il suo braccio e la sua mano, così fu lui a guidarla attorno alle sue spalle passandosela dietro al collo.
Con la paura che lui sentisse la sua aritmia si morse il labbro e si concentrò sul dolore che effettivamente era notevole e la faceva a dir poco cainare rovinando l'idilliaco momento. Si diede della stupida per non aver saputo approfittare del momento, ma proprio non riusciva a prendere il controllo di sé. Non le rimaneva che continuare ad essere felice e super agitata.
Certamente era troppo chiedersi chi l'avrebbe accompag&!ta all'ospedale.
Si trovò quindi ancor più nel panico nel momento in cui si rese conto che avrebbe passato del tempo sola con LUI, tanto che in macchina, nella sua C3 nera, non spiccicò parola. Lui dal canto suo non era certo tipo da chiacchierata: al silenzio rispondeva con il silenzio!

/ Everybody hurt – REM /
Al pronto soccorso li scambiarono per una coppia di fidanzati e nessuno dei due negò, lei perché troppo imbarazzata, lui perché non gliene importava e onestamente la situazione lo divertiva sempre più.
Nella sala d'attesa seduti insieme si resero conto di dover parlare di qualcosa, ormai sembrava ridicolo quel stare assolutamente zitti e se per lui non c'erano problemi, per lei invece si... altro che storta alla caviglia!
Lei si chiedeva se quello non fosse il momento adatto per dirgli dei suoi sentimenti, poco romantica com'era certamente non sapeva quale fosse l'atmosfera adatta e per di più non si era mai dichiarata a nessuno, non sapeva come si faceva e cosa succedeva generalmente. Pensò che avesse dovuto fare quello che il suo istinto le avrebbe suggerito, ma non fu facile lo stesso. Introdusse con un argomento a caso:
- Mi dispiace rubarti tutto questo tempo, ma a casa non avevo nessuno... ti secca? Guarda, se hai impegni posso arrangiarmi... -
"Stupida! Cosa dici? E se se ne va veramente? Tu vuoi stare con lui il più possibile! Idiota, taci o parla con più criterio. Si, quale criterio? Non ne ho mai avuto uno… devo esercitarmi di più in futuro con Max o Gianluca, così poi potrò sostenere conversazioni degne con Marek... oddio, perché, ho anche intenzione di tornare a guardarlo negli occhi e parlarci, dopo oggi?"
Faceva tutto lei, montava e disfava pensieri complicati come una schizofrenica.
Lui dal canto suo si trovava sempre meglio e la cosa nonostante l'avesse sempre divertito, ora cominciava ad allarmarlo seriamente. Non voleva assolutamente che lei si illudesse, non era uno stronzo che usava le donne. Lui non credeva all'amore e non era capace di instaurare rapporti seri e duraturi, per questo evitava le donne e le relazioni come la peste, dal momento che non era uno stronzo e non riusciva solo a portarsele a letto preferiva essere onesto.
- Non preoccuparti, dai... per una volta! -
Finalmente lei si ricordò di qualcosa di sensato da chiedergli, si illuminò e felice disse:
- Anzi, ora che ricordo ti ho interrotto, come mai eri solo negli spogliatoi? Avevi il ghiaccio sul ginocchio... -
Lei non conosceva la sua storia e notò una breve luce di dolore e malinconia nello sguardo, quella luce che gli fece calare quel solito alone di mistero che l'accompagnava quasi sempre. Era così affascinante in quei momenti. Samantah arrossì e distolse lo sguardo da lui abbassandolo sulle sue gambe scomposte.
Parlò con un tono sottile e sfumato, vellutato ma strano... nostalgico:
- Ho problemi al ginocchio, è per questo che ho dovuto smettere di praticare il basket e sono venuto al di qua del campo. Ho dovuto proprio interrompere sul più bello della mia carriera cestistica. -
Lei ci rimase male e non lo mascherò:
- Oh, non immaginavo, scusa se te l'ho chiesto... -
Lui la tranquillizzò, sembrava molto controllato e calmo:
- Non preoccuparti. Così a volte mentre alleno i ragazzi mi vengono delle fitte, ma passano subito, basta metterci del ghiaccio. -
Forse era solo la voce così morbida di lui che l'invogliò a continuare, che la fece sentire come spinta a non mollare la cosa e spontaneamente ma non invadente chiese:
- Avevi un'aria stanca e malinconica, in un primo momento non ero sicura che fossi tu, pensavo di non conoscerti... poi ho fatto fuoco quando mi hai fissato ironico e freddo... -
E lui apprezzava di lei proprio il suo dire quel che pensava anche contro sé stessa. Fece un sorriso appena accennato di amarezza:
- Ho molti rimpianti per il basket... e non solo... in questi momenti me li ricordo tutti e non arrivo a non pensarci. -
Non era obbligato, lei non glielo chiese, sapeva dove fermarsi, ma forse l'atmosfera creata parlando di quelle cose aiutò la confidenza, Marek stava sempre meglio con lei sia quando non era seria che quando riusciva ad esserlo. Erano compatibili e il rendersene conto lo shockava sempre più. Proseguì sentendo che forse glielo doveva ma dentro di sé si diceva che doveva smetterla di illuderla in quel modo:
- Sai, mio padre è morto che avevo nove anni, improvvisamente... e ha lasciato me, mia madre e mia sorella. Non ti dico i sacrifici e le varie fasi della mia vita, ma quando sono cresciuto abbastanza da capire che non sarebbe tornato neppure con tutti i miei sforzi, ho deciso che avrei realizzato il suo sogno, lui giocava a basket e avrebbe voluto finire nella nazionale. Contemporaneamente nacque un altro sogno legato a lui... volevo fare il medico per evitare la rabbia e il rimpianto con cui l'avevo lasciato. Nulla di che, insomma... cosa tipiche di ragazzini. Peccato che nello stesso momento mi ruppi il ginocchio apprendendo che non avrei più potuto giocare, e mia madre mi disse che stavamo finendo sotto un ponte... per evitare queste cose mollai gli unici sogni della mia vita, smisi di studiare per lavorare e di fare sport per la mia salute. I rimpianti di cui parlavo sono questi. Banali e sciocchi come vedi, nulla di importante! -
Aveva parlato veramente con molta amarezza che colpì molto Samantah, la confidenza che le aveva fatto era importante e le fece crescere un sentimento molto più forte del precedente, istintivamente si voltò verso di lui portando una mano su quella di lui, non era pena ma sincera voglia di trasmettergli quello che aveva dentro, ora troppo evidente ed incontenibile.
- Smetti, non è vero. La mia vita è stata banale e sciocca non certo queste cose che ti sono capitate e che ora ti spingono a star così. Io confronto a persone come te mi sento veramente nulla e mi detesto da sola. Non so, non ne sono degna, no? Voglio dire di stare accanto a persone simili. Eppure mi sono presa la scuffia per te, che siamo così diversi persino nei nostri vissuti... e per me la vera tragedia è sentirmi niente confronto a te! -
Lei era passione e si sapeva, era un uragano pasticcione e molto timida verso l'amore... ma quando c'erano di mezzo i sentimenti e questi le sfuggivano di mano, spesso, difficilmente poi riusciva a controllarsi. Pensandoci dopo si diede dell'imbecille per averglielo detto in un pronto soccorso, dopo che lui si era confidato con lei, solo con un'atmosfera creata in un attimo da quelle parole.
Si guardarono a lungo negli occhi, lui aveva uno sguardo magnetico e scosso, lei altrettanto scossa ma più infuocato, come se del carbone vivo vi si muovesse dentro. Così seria non l'aveva mai vista, si trovarono molto vicini e fissandosi in quel modo in quella situazione molte cose scattarono in tutti e due, diverse o simili che fossero. Forse erano anche ovvie ma ci furono e lui si sporse verso di lei sfiorandole le labbra con le sue, delicato e leggero. Non un vero bacio, solo quello, come una sorta di ringraziamento.
Poi le sue sopracciglia si corrugarono ed una domanda nel suo volto:
"Che è successo?
Cosa sto combinando?
Smettila, prendi le cose nelle tue mani prima che sia troppo tardi! "
Confusi entrambi, Marek divenne subito di ghiaccio, si indurì e lei lo percepì irrigidendosi a sua volta; ancora non aveva capito bene l'accaduto, non aveva potuto registrarlo e gioire per esso. Lui la bloccò sul nascere e con un controllo inumano, con un cambiamento drastico pazzesco, la ferì volontariamente sperando che tutto potesse risolversi. Lui aveva una responsabilità nella sua scelta di non amare, era una responsabilità per non rendere infelice chi non se lo meritava. Samantah era entrata in lui in un modo o nell'altro e certo non si meritava di stare con lui che l'avrebbe resa infelice. Lui non sapendola amare come lei ne avrebbe avuto bisogno, come lei si meritava, doveva prevenire ed evitare ogni dolore. Proprio perché iniziava a volerle bene.
Una scelta che molti facevano, non tutti, ma c'era chi ragionava proprio così.
E feriva chi avevano davanti:
- Scusami, ci siamo capiti male. Io non sono il tipo di persona che si lega a qualcuno, non sono capace di rendere felice qualcuno. Lasciami perdere, lo dico per te, ti meriti di più. Vedimi come uno malato ma toglimi dalla tua testa. Chiamo a casa tua e rintraccio qualcuno che venga qua... ciao Sam. -
Del resto spezzare gli altri era estremamente facile, anche se c'era chi sosteneva che preferiva essere lasciato piuttosto che lasciare. Eppure in questo caso non si erano nemmeno messi insieme.
Tutto quel che rimase a Samantah fu guardare le sue spalle allontanarsi dalla sala e sentire un nodo crescere spropositato in lei.
Pianse gran parte della notte.

Persone che non sanno amare, sanno di non saperlo fare e allontanano chi vedono troppo vicino a sé. Una scelta di vita per evitare inutili sofferenze. Ma si poteva chiamare vita?