*cliccate sul titolo della canzone In the
arms of the angels, aspettate un po' e leggete ascoltandola...*
CAPITOLO 33:
L'OMBRA DEL GIORNO
“E
se ne andò nel modo migliore in cui una persona potrebbe andarsene.
Amando
chi mai l’avrebbe dimenticata.”
/Funeral
Song – Rasmus/
Le giornate di sole sono sempre le peggiori.
Sembra che le cose più drammatiche debbano
accadere in quelle di pioggia e magari di notte, invece alla fin fine,
quelle veramente che si ricordano, accadono proprio di giorno sotto un
bel sole cocente.
Ormai l’estate era alle porte e l’anno
scolastico stava praticamente finendo, così come il campionato di
basket per la categoria giovanile.
Il tempo, dall’inizio di tutta la loro
storia, era passato a vista d’occhio e fra una serie di avventure che
li aveva legati e cambiati nonché certamente segnati molto, i ragazzi
protagonisti di questa serie erano sicuramente cresciuti sia
fisicamente che interiormente: i loro aspetti cominciavano a modellarsi
e maturare e segno dei mesi passati non erano solo i capelli più lunghi
ma anche certi sguardi più adulti.
Tuttavia quella che aveva subito più
cambiamenti in assoluto era certamente Samantah. La ragazza ora
fidanzata si era inevitabilmente curata di più e senza accorgersene si
era resa molto più femminile di quanto non lo fosse mai stata. I
capelli neri che ormai le arrivavano fin quasi al fondoschiena erano
spesso e volentieri abbelliti con morbide onde che le donavano un altro
spessore, ma anche quando erano naturali e lisci erano finalmente
ordinati e a posto e non spettinati e aggrovigliati. Si era curata
anche dettagli come le sopracciglia che ora erano più sottili e
definite. Un filo leggerissimo di trucco lo si poteva notare nelle
uscite col suo ragazzo e nei vestiti non c’erano sempre i soliti colori
spenti; soprattutto, però, non indossava solo pantaloni larghi e maglie
sformate ma anche cose di un certo tipo. Bè, non esageratamente
femminili, rimaneva pur sempre lei, ma il suo cambiamento era
decisamente sorprendente.
Ovviamente il carattere rimaneva lo stesso
ed anzi sarebbe stato un guaio se fosse stato proprio quello a mutare.
Merito di tutti quegli accorgimenti era
stata, a onor del vero, la madre. Marek le aveva acceso il desiderio di
rendersi più carina, ma la madre era stata sua complice principale in
questa opera grandiosa. Aveva passato giornate intere con lei in giro
per negozi e saloni a farle capire su cosa dovesse puntare per non
apparire l’eterno maschiaccio. Lei non era stata cosciente di averle
dato realmente retta, tuttavia alla fin fine era successo e a giovarne
era stato Marek!
Del resto la madre di Samantah, Giada, era
la persona che più di tutte, dopo Max naturalmente, aveva influenza
positiva su di lei. Le due donne erano un tutt’uno da sempre e più che
altro erano considerate due amiche. L’aggiornava sempre su tutte le sue
novità in ogni settore, specie quello sentimentale, e le chiedeva i
suoi pareri. La sua crescita era sì stata influenzata da tutti gli
uomini di casa sua, ma se in lei era rimasto un barlume di femminilità
da tirare in seguito fuori, quello era dovuto solo alla madre.
Quel giorno, infatti, proprio per la sua
adorata unica figlia, era andata in una zona poco raccomandabile della
città a prenderle degli accessori che non avrebbe mai trovato in nessun
altro posto. Quel negozio era l’unico che aveva esattamente quello che
cercava e siccome Samantah aveva dei gusti particolari, se non
sceglieva la cosa giusta era inutile.
Ci era andata da sola di proposito
scegliendo il giorno in cui sia lei che Gianluca erano impegnati con
una delle ultime partite di campionato. Al suo ritorno a casa avrebbe
trovato una bella sorpresa.
Sorridendo contenta stringendo il suo
sacchetto con le nuove compere, percorreva il tragitto che portava dal
negozio al parcheggio dell’auto. Si era stupita di come la gente a
quell’ora approfittasse per fare compere, infatti aveva dovuto
parcheggiare in un vicolo a qualche metro da lì. Svoltando con la testa
da tutt’altra parte rispetto al mondo reale, da qualcuno la figlia
aveva preso, cercò subito la propria auto senza dar retta a tutto il
resto che la circondava e che le stava davanti.
Veramente se fossero stati abbastanza furbi
l’avrebbero capito da soli che lei non li aveva affatto notati. Sarebbe
anche andata via senza nemmeno vederli e tutto sarebbe andato a posto.
Ma la gente, si sa, quando ha la coscienza
sporca fa gli errori più grandi nonché le cose più stupide.
E forse a metterci lo zampino era anche
stato il caso.
Il caso che quella non fosse una banda
qualunque e che la somiglianza fra madre e figlia fosse impressionante.
Giada canticchiava una canzone allegra che
le ricordava la vitalità della figlia, una canzone comunque vecchia di
cui non avrebbe saputo dire il titolo né identificarla. Sicuramente una
canzone dei suoi tempi.
Raggiunse quasi ballando il proprio mezzo e
solo allora delle voci la distrassero facendole spostare gli occhi
scuri nella direzione delle persone ferme proprio in quel vicolo.
Del resto quel quartiere era proprio un
brutto posto, lo sapeva perché Alessandro gli aveva raccomandato di non
andarci da sola poiché lì c’erano le sue vecchie compagnie sempre
pronte a tirare brutti scherzi a chiunque. Però non le era sembrato
così sconsiderato andarci in pieno giorno e con quel splendido sole
estivo.
Forse però, tutto sommato, avrebbe dovuto
dar retta a quel ragazzo.
Le bastò un occhiata e la sua ingenua
felicità svanì dal suo viso.
Un viso maturo con poche rughe che non
dimostrava affatto l’età che aveva.
In quel momento l’aria era talmente immobile
da essere addirittura irrespirabile, un’onM8ta di calore la invase
dall’interno facendola improvvisamente accaldare più del dovuto.
Strinse convulsamente il sacchetto attaccandosi alla propria macchina,
sperando di poter semplicemente andarsene e basta.
Era un gruppo considerevole di ragazzi e
quel che con una sola occhiata notò, fu un uomo circondato in fondo
all’angolo, poco distante da loro. Quell’uomo era terrorizzato e con
gli occhi pareva proprio chiederle aiuto.
Sulle prime non capì cosa le stessero
dicendo quei ragazzi, le ci volle un secondo appello più iroso per
riscuoterla e riattivare l’uso dell’udito e della comprensione.
- Hai sentito, bella? – Inghiottì a vuoto.
- C-cosa? – Chiese cercando di apprendere la
cose migliore da compiere. Non era facile ma del resto che avrebbero
potuto farle?
Sicuramente l’avrebbero derubata e magari le
avrebbero preso anche l’auto visto che ci stava vicino… ma non sarebbe
potuto essere più disastroso. Non lo era se si considerava che tutto
ciò che contava per lei non erano certo i soldi e gli oggetti costosi.
Era ricca ma per lei il denaro non era mai contato, ecco perché solo
guardandola non si capiva che fosse qualcuno con un certo rango.
Se l’avessero capito, forse, avrebbero
sfruttato ulteriormente la cosa.
- Scappi, signora! – Urlò improvvisamente
l’uomo che era aggredito da quella banda di ragazzi.
Non le sembrarono nessuno, in quel momento.
Tutti uguali e fatti in serie, dei cloni
identici fra loro.
Però vedere un arma dal vivo era tutta
un'altra cosa.
Oh, se lo era.
Quel che le fece davvero impressione non fu
tanto l’urlo dello sconosciuto né quei teppisti, ma solo le loro armi.
E fu quindi istintivo, alla fin fine,
seguire quel consiglio; provarci e basta.
Perché poi avviene tutto velocemente e nei
film è così: uno urla e ti grida di andartene, loro reagiscono in
fretta pensando che te ne vada davvero e quindi cerchi di sfuggire a
quella reazione che sicuramente è esagerata. Però alla fine fai peggio.
Ci si rende conto di ciò sempre e solo
troppo tardi.
Sul momento segui il tuo istinto.
Tutto lì.
Dopo l’avvertimento quasi disperato, Giada
vide quelli che le stavano davanti scattare improvvisamente e fu lì che
per reazione istintiva mollò il sacchetto girandosi a sua volta per
scappare. Non si ragiona in quei casi e lei non lo fece.
C’è chi rimane impietrito dalla paura e chi
prova a far qualcosa.
Lei probabilmente aveva troppo carattere per
farsi inglobare dal terrore e rimanere immobile.
Chissà… alla fin fine non si sarebbe
comunque mai saputo quale sarebbe stata la cosa migliore da fare.
Nemmeno col senno di poi.
Fatto fu che mentre lei provò a fuggire,
loro l’afferrarono svelti con un insulto pesante che comunque non le
arrivò mai al cervello, stava registrando solo la presa ai polsi e il
blocco contro cui nemmeno strattonando con tutte le sue forze potè
sovvertire.
E lì maledì il suo essere donna, nonostante
avesse sempre detto a Samantah che esserlo era una bella cosa.
Di colpo si sentì sbattere proprio contro la
sua auto e cercando con gli occhi l’uscita del vicolo che distava un
po’ da dove era, si chiese se mai qualcuno sarebbe venuto.
Se lo chiese ma poi il fiato le si spezzò
letteralmente a metà.
Prima di capire come mai non respirava più,
come mai non ci riusciva proprio, vide gli occhi del ragazzo che le era
addosso e che la bloccava. Li guardò e dentro vi vide l’inferno più
nero.
Due occhi castani comuni a tanti scavati in
due profonde occhiaie nere. Non erano due occhi umani.
Ne fu colpita ed a quel punto capì quanto
fosse stato inutile sin dall’inizio anche solo credere di potercela
fare.
Fu allora che sentì il dolore acuminato al
ventre irrigidirle il corpo, le parve come se tutto d’un tratto
l’estate fosse diventata inverno ed un vento gelido le soffiasse contro
raffreddandola. Divenne così fredda da cominciare a tremare, poi capì
che il dolore era talmente forte da impedirle addirittura di
inghiottire la saliva, peccato che oltre ad essa c’era un sapore
diverso che non aveva mai assaggiato.
Quando l’aggressore, sicuramente coetaneo di
suo figlio Gianluca, la mollò, lei potè accasciarsi a terra di botto
sbattendo con le ginocchia e con le mani.
Non sentì nulla se non quella micidiale
fitta alla pancia che si spandeva lentamente a macchia d’olio.
Bagnata.
Oltre al freddo e al tremore le parve anche
di bagnarsi i vestiti.
Come era possibile?
Quando ebbe davanti agli occhi l’asfalto
della strada, notò che ciò che aveva sentito in bocca era solo il
proprio sangue. Finalmente libera di muoversi, si toccò l’addome con
una mano mentre con l’altra ancora si reggeva a gattoni, ebbe sulla
pelle qualcosa di strano e anomalo al tatto. Era davvero bagnata
laddove sentiva quel dolore allucinante. Si portò con fatica la mano
davanti al viso e vedendola sporca completamente di sangue capì.
Capì senza voler guardarsi il buco che quel
coltello le aveva fatto.
Il proprio corpo avrebbe voluto ricordarselo
senza nessuna ferita.
Intatto e femminile proprio come quello
della figlia, il suo ritratto.
Si lasciò stancamente cadere di fianco
girandosi poi di schiena. Qualche ciocca nera rimase sul viso mentre il
resto si spargeva intorno a terra. Non riusciva ad emettere un suono.
Rimise la mano sulla propria ferita che le impediva ancora di respirare
regolarmente senza avere l’impressione di perforarsi ulteriormente il
corpo, infine guardando il cielo sereno ed azzurro illuminato dal sole
che stranamente non le dava fastidio agli occhi, sentì qualcosa sotto
la sua testa.
Spostò a fatica l’altra mano toccando il
sacchetto che poco prima aveva mollato a terra e si ricordò della
figlia e del fatto che forse non avrebbe mai ricevuto il suo regalo
speciale.
Avrebbe tanto voluto vedere la sua
espressione vedendo quel completino sexy. Quando l’aveva visto da sola
per caso andando di fretta, aveva pensato che era perfetto per Sam, ma
non aveva mai avuto tempo di tornare e altrove non l’aveva trovato.
Si avvicinava il compleanno della sua
adorata peste troppo cresciuta, una peste che finalmente si era messa
con il ragazzo dei suoi sogni e che per la felicità si era decisa a
diventare ‘donna’.
Non avrebbe voluto farle altro che il regalo
più adatto, un regalo poco da madre in fin dei conti.
Pensò a lei e a questi insoliti e
probabilmente insensati particolari mentre non si chiedeva nemmeno più
se qualcuno l’avrebbe soccorsa.
Tanto sapeva come era fatta la gente, la
differenza fra lei e sua figlia era quella. Che lei non era così
ingenua nei confronti delle persone. Sapeva fin troppo bene fin dove
arrivava l’indifferenza degli altri.
Ecco perché preferì avere un pensiero per
ognuno dei suoi cari, partendo dalla figlia, proseguendo per il suo
adorato Max, la colonna della famiglia, passando per il piccolo Andrea
che non avrebbe mai capito la crudeltà della vita, dal più grandino
Michele che sarebbe stato arrabbiato col mondo per il resto della sua
vita, giungendo a Gianluca alla ricerca disperata di qualcosa che non
capiva ancora bene, forse di qualcosa che fermasse la sua parte più
inquieta ed oscura, e concludendo con il suo amore. Suo marito Nicola,
il grande avvocato che ogni causa vinceva. La persona paradossalmente
più fragile di tutti, il ritratto fisico di Gianluca, l’unico che aveva
preso da lui. Il più distrutto sarebbe stato sicuramente Nicola mentre
quelli che la preoccupavano maggiormente erano proprio Samantah dal
cuore grande e Gianluca l’imprevedibile. Ma sicuramente le mani di Max
erano buone, sapeva comunque di lasciarli con l’unico capace di
rimetterli in piedi.
Pensando a loro Giada si rese conto di non
sentir lentamente nemmeno più dolore, non capì più nemmeno se provava
freddo o caldo… o se era ancora stesa e se il silenzio intorno era
perché non c’era nessuno oppure per quale altra ragione.
Eppure quel che non riuscì a capire
facilmente fu se quella luce che vedeva e che la sentiva avvolgere, era
illusione oppure unicamente ciò che c’era dopo la vita.
Se lo chiese e dopo aver trovato la risposta
giusta un sorriso aleggiò sulle sue labbra sporche di sangue.
Stranamente.
Un sorriso sereno quasi di sollievo.
Labbra che negli ultimi sospiri mimarono un
ultimo ‘vi amo’ diretto alla sua dolce, adorabile e caotica famiglia.
Giada non passò i suoi ultimi momenti di
vita a chiedersi perché stesse morendo, né se fosse davvero la sua fine
e dove andasse dopo, non si fece domande esistenziali né recriminò su
nulla, non si riempì di odio e di rabbia bloccandosi nel nulla senza
riuscire a procedere in nessuna direzione.
Si lasciò andare all’unica cosa che nel suo
essere le provocasse piacere. Coloro che amava.
E se ne andò nel modo migliore in cui una
persona potrebbe andarsene.
Amando chi mai l’avrebbe dimenticata.
Era la penultima partita di campionato,
vincendo quella avrebbero avuto diritto a disputare la finale e così
l'agognata vittoria finale sarebbe stata della squadra di Jack.
Erano tutti molto concentrati e carichi e
avendo vinto gli altri incontri che avevano già disputato, quel giorno
per loro rappresentava un ulteriore passo da aggiungersi a quelli già
fatti. Un passo per arrivare più in alto di quanto non lo fossero stati
fino ad allora.
Il tempo era passato anche per quei ragazzi
che in campo giocavano come probabilmente ad inizio anno accademico non
avrebbero mai detto. In gruppo, insieme.
Consolidati i nuovi ruoli per alcuni di loro
e rafforzati laddove andavano rafforzati, ormai erano diventati una
squadra a dir poco imbattibile e la loro fama era proprio quella dei
candidati alla vittoria finale.
Giocavano con consapevolezza, voglia di
vincere ma soprattutto di giocare per prendersi ciò che spettava loro
di diritto.
Avevano fame di successo.
Alessandro era stato fra quelli che non
aveva cambiato ruolo e rimanendo in quello d'ala grande dimostrava
quanto in forma quel giorno fosse. Nulla l'avrebbe fermato.
Da solo aveva segnato la metà dei punti che
avevano accumulato in tutta la partita e considerando che non era
finita, sicuramente avrebbe potuto fare il suo nuovo personale record
di canestri. Ad ogni intervallo chiedeva a Samantah i suoi punti
ghignando e pavoneggiandosi con Daniel che ribatteva che ne aveva fatti
molti anche lui. Anche Gianluca ne aveva fatti un numero considerevole
mentre Trystin, nel ruolo di playmaker, aveva dovuto sacrificarsi un
po' per costruire il gioco. Sorprendentemente era davvero il ruolo
migliore per lui anche se ogni tanto scattava come ai vecchi tempi
dimostrando la sua straordinaria versatilità.
Erano davvero tutti in forma.
Tutti a parte Samantah, a bordo campo, che
ne sbagliava più di sempre segnando ogni volta qualcosa di errato.
Non se lo spiegava affatto eppure le
sembrava proprio di avere la testa da un altra parte.
Marek, accanto a lei, la riportava in
continuazione alla realtà notando anche lui il suo strano stato d'animo.
Ad ogni modo sembrava comunque procedere
tutto nel verso giusto. Gli avversari erano presi male ed in netto
svantaggio e senza saper più che pesci prendere; Alessandro ovviamente
infieriva su di loro.
Dopo l'ennesimo canestro del tornado biondo
che tornava in fretta in posizione per non risparmiare nemmeno la
minima forza, guardò con piacere la furbizia di Jude nell'intercettare
la palla che gli avversari non avevano saputo tenersi al primo
passaggio. Jude era il re delle finte ma anche quello che capiva al
volo il modo per sopraffare chi aveva davanti, confondeva e andava
dritto sui punti deboli sfruttandoli a suo vantaggio.
Era sempre stato un ottimo giocatore e
quando si era trovato senza Francesco si era dato ulteriormente da fare
tirando fuori le capacità che per pigrizia erano rimaste latenti in lui.
Quando Jude prese la sfera di cuoio
lasciando senza parole i due rivali che aveva intorno, la lanciò forte
in avanti notando lo scatto da tigre di Alessandro. Come faceva ad
avere ancora tutte quelle energie dopo quanto aveva già fatto?
Era davvero inesauribile!
Il giovane arrivato subito sotto area, saltò
per fare canestro e roteando il busto preparò le mani davanti alla
testa per ricevere la palla che arrivò potente e diretta fra le sue
dita, una volta lì completò il giro su sé stesso che avveniva in aria
per poi schiacciare sul cerchio in ferro con una potenza non da poco,
tutta la struttura che lo sosteneva tremò a lungo.
Un ovazione più esuberante delle altre
arrivò a festeggiarlo. L’intero pubblico era per lui, in quel momento,
e per le sue fantastiche acrobazie spericolate che non faceva mai
mancare a nessun incontro.
Balsamo per il suo ego!
La sua attenzione, che mentre era ancora
appeso cercava il suo compagno con occhi vivaci, fu però attirata da
una scena che al momento avveniva discretamente a bordo campo.
Mollò la presa atterrando accanto alla palla
che non calcolò, quindi corrucciò la fronte capendo che la presenza di
Max lì dentro non era normale.
Non sarebbe dovuto essere lì, aveva detto
che non si sarebbe mosso da casa per studiare su un esame difficile.
Si asciugò i rivoletti di sudore dal mento
con l’avambraccio altrettanto sudato, non si mosse infatti il gioco
riprese con un richiamo da parte di Jude che stava per tirare la palla
a Trystin, siccome non rispose Gianluca si girò per vedere cosa avesse
tanto da guardare.
E capì come mai quell'espressione stranita
si era dipinta sul suo bel volto selvatico e sempre ghignante per
qualche motivo.
Anche lui si incupì ma più repentinamente.
Max, suo fratello, stava abbracciando
Samantah davanti alle panchine.
Gianluca si raggelò smettendo probabilmente
di mandare avanti ogni funzione vitale.
Perché Max stava facendo una cosa simile?
E lei che espressione aveva? La nascondeva
ma anche se non la videro bene, quella degli altri lì presenti parlava
chiaro. Jack e Marek in piedi anche loro si stavano passando le mani
sul viso contratto e... preoccupato... quasi angosciato... no,
veramente qualcosa non andava.
Quando Gabriel si alzò su ordine
dell’allenatore e si preparò ad entrare, Alessandro, il quale al
contrario dell’altro stava avendo una serie di accelerazioni corporee
non facili da sopportare, non capì ulteriormente e facendosi colpire
dall'ansia per questo fatto perse completamente l'azione che fu messa a
segno da Daniel; però quando sentirono la chiamata per il cambio di
giocatore, anche gli altri si voltarono non capendo come mai togliesse
qualcuno di loro.
Il gioco si fermò un istante e sempre per
quell'istante tutti i dieci giocatori in campo guardarono nella stessa
direzione vedendo che ad essere sostituito era Gianluca e che Samantah
era in piedi stretta da un ragazzo che prima non c'era.
Tutta la scena intera si cristallizzò grazie
alla concentrazione di ognuno in quel qualcosa di anormale.
I battiti iniziarono ad andare irregolari
nel petto di Alessandro.
Il sudore cessò di uscirgli copioso
imperlandogli la pelle chiara.
Lo stomaco gli si contrasse.
Avrebbe vomitato se non fosse stato così
deciso a capire cosa diavolo succedeva.
Con Gabriel dentro che ordinò a Daniel di
tornare a fare l'ala e lasciargli a lui il centro, la partita dovette
riprendere ma il biondo dai capelli mossi tutti scomposti e trattenuti
dalla sua fedele fascia, ancora non si mosse.
Rimasero solo gli altri quattro a
riprendersi nonostante si chiedessero che fosse accaduto a fratello e
sorella. Se lo chiedevano ma non con l'intensità impaziente e
angosciosa della loro ala che col suo istinto capì subito che era
qualcosa di serio.
Di grave.
Lo capì perchè assottigliando gli occhi
felini vide che Max tenendo ancora stretta a sé la mora, parlava a
Gianluca.
Non vide mai l'espressione del suo ragazzo
poiché era di schiena rispetto a lui, ma lo vide irrigidire tutti i
muscoli del corpo, stringere i pugni fino quasi a farsi uscire sangue e
dopo un interminabile istante fermo senza nemmeno respirare, lo guardò
tirare un calcio violento alla panchina dove nessuno era più seduto.
L'oggetto metallico si ribaltò a terra
creando un trambusto che distrasse tutti nel palazzetto dello sport e
di nuovo il gioco si sospese per qualche secondo, il necessario per
vedere il ragazzo uscire con passo spedito e portamento infuriato.
Ora i battiti erano impazziti e la nausea
sempre più incombente. Se l'avessero preso a pugni, in quel momento,
gli avrebbero fatto un favore.
I suoi occhi azzurri cercarono
disperatamente di capire dal suo profilo cosa gli fosse successo ma non
ci riuscì vista la velocità con cui se ne andò.
Fu istintivo per lui andare a sua volta a
bordo campo per seguire il proprio compagno, ma fu fermato da Jack che
con fare fermo, si chi non ammette repliche, gli ordinò di rimanere.
Non sentì davvero le sue mani sulle braccia,
né il lamento dell'arbitro o il brusio incuriosito e polemico degli
spettatori, solo lontanamente la voce dell'allenatore che a pochi
centimetri dal suo orecchio gli aveva ordinato di rimanere in campo e
continuare la partita fino alla fine, che non poteva uscire e di non
fare storie.
- Ma cosa è successo? – Chiese impaziente ed
ansioso come non avesse sentito nulla, continuando a guardare nella
direzione dell'uscita presa anche da Max, Samantah e Marek.
- Non ora, Ale. Guardami! - Alessandro stava
ovviamente opponendosi cercando di sfuggire alla sua presa ed andarsene
per i fatti propri, la forza che ci mise obbligò Jack ad aumentare la
propria tirando fuori tutta la decisione che mai aveva dimostrato.
Del resto non aveva a che fare con un
ragazzo comune.
- ALE! - Non poteva farlo andare, non era il
momento.
Il giovane finalmente portò su di lui lo
sguardo affilato come quello di una tigre pronta a scatenarsi. Jack
rabbrividì ma cercò di non darlo a vedere. Di quella persona a volte
bisognava davvero avere paura e lui lo conosceva, ecco perchè non esitò
senza dimostrare il minimo timore.
- Dopo li raggiungiamo. Finisci quella
maledetta partita! -
Non gli spiegò il motivo ma dopo quello
scambio di sguardi che sembrò dovesse terminare con la morte di uno di
loro due, il biondo si divincolò rabbioso e dopo un ultimo confronto
silenzioso, ringhiò:
- Ok. - Che gli costò davvero più di quanto
molte cose non gli fossero costate fino ad allora.
Gli parve di andare sempre più a fuoco e di
impazzire. Si tratteneva a stento e con tutti i muscoli tesi in
evidenza specie sulle braccia e sulle spalle, si voltò tornando
bruciante sui suoi passi.
Una volta dentro ricevette da Daniel la
pacca sulla schiena che a modo suo servì da conforto per fargli capire
che lo capiva e che l'avrebbe sostenuto.
- Sbrighiamoci a vincere! -
Aveva quindi detto il moro stesso ad alta
voce consapevole che da quel momento in poi avrebbe segnato solo lui.
I minuti rimanenti dell'ultimo quarto furono
i più lunghi della vita di Alessandro che, rodendosi e tendendosi dalla
preoccupazione e dal non sapere, non combinò davvero nulla.
/We made it – Linkin Park
feat. Busta Ryhmes/
“Follia. Follia
follia follia follia follia.
Come può accadere a noi una cosa
simile?
Come può davvero… oh, merda. A
fanculo! Non sono uno di quegli idioti che rifiuta
la realtà.
Mia sorella è là che si è
trasformata in una bambola e non reagisce a nulla, i miei fratelli più
piccoli piangono come isterici, Max cerca di farli smettere e
consolarli, Marek cerca di far reagire Sam mentre papà… dannazione!
Papà è chiuso in quella stanza in
cui nessuno osa entrare e non si separerà dal copro di sua moglie
finché probabilmente non marcirà con lei.
Ecco il grande uomo schiacciato dal
dolore della perdita.
Ed io che cazzo sto facendo? Guardo
questa gente che si somiglia tutta che cerca di superare la cosa.
La cosa.
Che cosa è?
Di cosa cazzo sto parlando?
Sto parlando della morte di mia
madre, porca puttana, come si può anche solo pensare di poter superare
e sopravvivere A una cosa simile?
Ha ragione Sam a chiudersi nel suo
mondo d’automa. Magari non tornerà mai più con noi ma almeno esprime
chiaramente che una perdita simile comporta la follia.
La follia più nera.
Perché è qui che io mi sento
avvolgere, dal buio più incontrastato.
Tutte queste persone che mi
circondano erano la mia luce, mi rischiaravano l’inquietudine che mi
porto dentro, mi impedivano di affossarmi in un mare di merda ed ora..
ora che si stanno tutti spegnendo io ci annegherò.
Annegherò in quello schifo che mi
porto dentro, quel lato oscuro che ho sempre ignorato ma che a volte è
uscito fuori sconvolgendomi.
Il lato che mi fa venir voglia di
uccidere qualcuno perché in quei momenti impazzisco.
Da ora sarà sempre così per me?
Sempre follia nera ed
incontrollabile?
Dov’è la mia luce?
Samantah è catatonica, Michele ed
Andrea piangono, Max e Marek non sanno dove sbattere la testa e mio
padre probabilmente sparirà dalla faccia della terra.
Fanculo, oggi non ho perso solo mia
madre, oggi ho perso anche mio padre.
Rimango qua in disparte rispetto
agli altri, stringo i pugni da cui mi ferisco i palmi con le unghie,
tendo tutto il mio corpo, sono ancora in tenuta da basket, tutto
scompigliato e sudato. E sono immobile, in piedi, come una statua di
ghiaccio che guardo verso di loro, raggruppati nel corridoio, non
calcolati da nessuno. Come delle pecore sperdute che non sanno più che
fare e dove andare.
No, non doveva andare così.
Non doveva, dannazione.
È morta per dei colpi di coltello,
porca puttana.
L’hanno accoltellata. ACCOLTELLATA!
Significa che qualcuno l’ha uccisa
e non è stato un incidente, non è stata una disgrazia, un caso, il
destino infame.
L’unica cosa infame in questa
storia sono quei bastardi che l’hanno colpita.
Cosa hanno detto i dottori?
Che era in un vicolo del vecchio
quartiere di Ale.
Vacca troia.
Del sangue è stato versato e del
sangue avrò.
Nessuno mi può portare via la mia
luce, rivoluzionarmi l’esistenza lasciandoci nel buio senza pagare.
Perché a questo mondo non sempre le
cose possono rimanere impunite.
Sangue per sangue.
Lo farò e come è vero che quella di
là è mia madre ed è morta, lo farò.
Troverò il bastardo che l’ha uccisa
e lo spedirò all’inferno con un biglietto di sola andata.
Questa volta non mi ferma nessuno.
Ci sono confini che non si possono
passare.
È stata uccisa. UCCISA! UCCISA!
COME HANNO POTUTO? COME HANNO
POTUTO?
ED IO DOV’ERO, DANNAZIONE. DOVE?
A giocarmi una cazzo di partita,
ECCO DOV’ERO!
Invece che stare con lei mi sono
perso dietro a boiate. Non ero con lei, nessuno di noi era con lei, è
morta da sola.
DA SOLA!
DA SOLA!
È anche colpa mia, è colpa di tutti
che non le siamo stati dietro, è morta mentre io giocavo a basket.
IO GIOCAVO, SEGNAVO ED ERO FELICE E
LEI MORIVA DA SOLA AMMAZZATA DA DEI BASTARDI!
Devono pagare, tutti devono pagare.
ANCHE IO!”
Così pensando veloce come un treno che
correva inarrestabile, correva come fosse in una missione suicida
andando incontro ad un precipizio, Gianluca perse per un attimo la
ragione impazzendo dal dolore, facendosi inglobare dalla sofferenza e
dal buio che albergava in lui.
Il buio che alberga in ognuno ma che
diversamente viene vissuto, controllato o combattuto.
Senza più farcela, senza più farsi bastare i
soli pensieri urlati, senza più resistere a quel peso esplosivo
cominciò a prendere a pugni la parete dietro di sé con colpi sempre più
forti, sempre più forti e di più, fino a farsi sanguinare la mano e
quindi accompagnarla con la testa sempre contro il muro, come se
nemmeno quello bastasse, come se nulla fosse sufficiente.
Fu fermato da Marek e Max insieme che lo
allontanarono immobilizzandolo, impedendogli di farsi ancora del male a
quel modo, capendo che fra tutti il più preoccupante era proprio lui.
- Gian, Gian, smettila! Fermati! – Dissero
cercando di placarlo, senza sapere in realtà come fare.
Per un attimo sembrò quietarsi, quindi
allentarono la presa per guardarlo in viso. Oltre alla mano sanguinante
aveva anche la fronte contusa, presto gli sarebbe venuto fuori un
ematoma non da poco.
Però a far veramente impressione non fu
quello bensì la sua espressione, i suoi occhi bui che parvero non
riconoscerli, occhi pieni di odio e di rabbia. Rabbia che avrebbe
sfogato in qualche modo e allora sarebbe stato davvero da aver paura.
Chi avrebbe potuto fermarlo dal compiere una
follia?
In realtà Max aprì la bocca per dire
qualcosa ma non uscì nulla, consapevole che dicendogli qualcosa tipo
‘non devi fare così’, lui avrebbe chiesto perché ed allora nessuna
risposta l’avrebbe soddisfatto.
Lo conosceva.
“Ed ora che faccio per lui?”
Si chiese il moro i cui capelli erano
lasciati al naturale sulla testa e sul viso, abbastanza lunghi e tutti
mossi. Il fascino delicato e femmineo avrebbe colpito chiunque ma
certamente non in quel momento.
La richiuse ed in quello sentì arrivare
qualcuno dal fondo del corridoio, spostò lo sguardo lasciando andare il
fratello nella speranza di non doverlo legare ed imbottire di
tranquillanti, quindi riconobbe Jack e Alessandro. Gli altri due non
seppe dire chi fossero ma sicuramente loro amici e compagni di squadra.
Un biondo ed un moro. Gli altri erano andati a casa.
Fece loro un cenno facendo accorgere della
loro presenza anche Gianluca e Marek.
Gianluca, solo vedendo Alessandro, reagì di
nuovo correndo verso di lui e afferrandolo per la maglietta a maniche
corte, tutta attillata, lo sbatté con forza contro la parete.
Trattandolo come se fosse il suo nemico peggiore, avvicinò il viso
minaccioso al suo fino a toccarsi coi nasi. Alessandro non respirava e
non aveva nemmeno notato il livido che spuntava sulla sua fronte o la
mano tutta rovinata. Da come lo stringeva e lo premeva sembrava in
perfetta forma, ma in realtà era solo l’adrenalina per l’ira che lo
invadeva.
Pensò che non l’aveva mai visto così e che
ora, davvero, solo un miracolo l’avrebbe aiutato.
- Portami da loro! – Sibilò a denti stretti
senza farsi sentire dagli altri che, preoccupati per quella reazione,
cercavano di capire se dovessero intervenire. Proseguì imperterrito ed
allo stesso modo: - L’hanno accoltellata in quel quartiere, dove stavi
tu. Dove sta la tua vecchia banda. Sono stati loro, Ale, e se non sono
stati loro mi aiuteranno a scoprire chi è stato. Perché come è vero che
quella di là è mia madre e che è morta, io li mando all’inferno. –
Nella frazione di secondo che intercorse
successivamente, Alessandro che aveva ancora i capelli bagnati tutti
scompigliati attorno al viso, si trovò a dover decidere su qualcosa che
sapeva era di vitale importanza. Dalla sua decisione sarebbe dipesa la
reazione di Gianluca. Non poteva sbagliare, non poteva fare la cosa
sbagliata, quello non era il momento.
Dopo di lì non si poteva più rimediare.
Ma un occhiata agli occhi verde scuro del
suo ragazzo che lo fissava con una furia omicida da far paura, gli fece
capire che con o senza di lui l’avrebbe fatto e che l’unica cosa saggia
per lui, era seguirlo in tutto e per tutto per proteggerlo.
Quindi scelse.
- Andiamo. – E lo disse con quanta più
convinzione riuscì a tirare fuori, sperando, in cuor suo, di trovare la
chiave giusta per domarlo e spegnerlo.
Già, perché ormai, Gianluca, era
pericolosamente esploso.
A quel punto lo mollò ed insieme si
diressero a passo spedito verso l’uscita, superando Jack, Daniel e
Trystin che non si mossero non avendo capito cosa stessero per fare.
- Dove vanno? – Chiese Max preoccupandosi e
raggiungendoli.
- Non ne ho idea… - Rispose allibito
l’allenatore guardandoli scendere dalle scale.
A quel punto Max sul punto di crollare non
trovò altro modo che chiedere un muto aiuto ai due amici di suo
fratello lì presenti.
Non servirono parole, loro dissero subito
seri e determinati:
- Ci pensiamo noi. – Andandosene
immediatamente a loro volta sulla scia degli altri.
Però chi poteva dire quanto buona fosse
stata quell’idea?
In fondo si trattava di Daniel e Trystin…
avrebbero davvero cercato di fermarli o si sarebbero solo uniti a loro,
scegliendo il proprio metodo contorto di soccorrere qualcuno?
/Here
with me - Dido/
“Per me.
Era là per me.
In quel sacchetto c’era un regalo
per me.
Ero io che dovevo essere in quel
vicolo a prendermi quel completino.
Non era lei che doveva andarci,
specie da sola.
Ero io.
Ero io che dovevo morire.
Ero io che dovevo prendermi
quell’accoltellata.
Non doveva morire pensando che per
colpa mia non potrà più veder crescere i suoi figli e sostenere suo
marito e… vivere… e… andare avanti come ha sempre fatto, con la sua
gioia, la sua femminilità, le sue decisioni e le sue fantasiose scelte
di vita.
È colpa mia.
Davvero.
Lei non c’è più.
Lei, la mia complice, colei che ha
investito più di tutti su di me perché ero l’unica femmina, la persona
con cui ho passato gran parte del mio tempo, quella che mi ha trasmesso
la sua gioia di vivere, la sua vitalità, la sua luminosità, il suo modo
di essere felice.
Lei.
Il mio mondo da quando sono nata.
Anzi, il mio primo mondo.
Mia madre.
Colei che mi ha dato le fattezze
del suo stesso viso, i suoi capelli, il suo carattere ed ora anche i
suoi modi di fare più femminili.
Non potrò nemmeno ringraziarla.
Era andata a prendermi il regalo di
compleanno, voleva farmi una sorpresa.
Non può essersene andata, non può
essere che non le parlerò più, che non la vedrò più, che non la
toccherò più. Non può essere che non mi sgriderà più quando ne combino
una delle mie o che non mi prenderà più in giro… o che non ascolterà
più i miei discorsi. Non farà nulla di ciò che faceva.
Non può essere.
Ma allora dovrei provare del
dolore, piangere, impazzire dalla sofferenza, disperarmi, urlare,
stringerla, sentire il suo corpo freddo… ma non mi succede nulla di
tutto questo.
Non sto facendo nulla, io non sento
niente.
Allora forse non è vero.
Nulla di tutto ciò è vero.
Non è morta.
È solo un illusione, una finta, un
brutto sogno da cui mi sveglierò rendendomi conto che non è realmente
accaduto.
Non è morta, vero?
No… o io starei male ma non piango,
non faccio niente, non so nemmeno dove sono, in questo momento.
Io… io non capisco… dove sono?
Cosa sto facendo veramente?
Chi c’è con me?
Non sento niente, non capisco…
forse sono io che sono morta e lei in realtà mi sta piangendo.
Ma quando è successo?
Dopo l’arrivo di Max al campo
sportivo non mi ricordo nulla.
Ho pensato che era strano che fosse
lì e poi il buio.
Fuori e dentro di me.
Ma in realtà mi pare d’aver
camminato, fatto qualcosa… però non sto piangendo, o lo sentirei.
Non sento nulla.
Non so… oddio… non so davvero… dove
sono?
Cosa sto facendo?
C’è qualcuno là fuori?
Qualcuno che può raggiungermi e
tirarmi via da qui o spiegarmi che sto facendo?
Cosa mi è successo?
Io non sento nulla… però se non
sento nulla non sto male. Non sto nemmeno bene ma nemmeno male.
Non soffro.
Non piango.
Non mi dispero.
Non vivo senza lei.
Che devo fare?
Io non voglio stare male…
C’è qualcuno che possa stare qui
con me?”