*cliccate sul titolo della canzone In the arms of the angels, aspettate un po' e leggete ascoltandola...*

CAPITOLO 33:

L'OMBRA DEL GIORNO

samgian

E se ne andò nel modo migliore in cui una persona potrebbe andarsene.
Amando chi mai l’avrebbe dimenticata.”


/Funeral Song – Rasmus/
Le giornate di sole sono sempre le peggiori.
Sembra che le cose più drammatiche debbano accadere in quelle di pioggia e magari di notte, invece alla fin fine, quelle veramente che si ricordano, accadono proprio di giorno sotto un bel sole cocente.
Ormai l’estate era alle porte e l’anno scolastico stava praticamente finendo, così come il campionato di basket per la categoria giovanile.
Il tempo, dall’inizio di tutta la loro storia, era passato a vista d’occhio e fra una serie di avventure che li aveva legati e cambiati nonché certamente segnati molto, i ragazzi protagonisti di questa serie erano sicuramente cresciuti sia fisicamente che interiormente: i loro aspetti cominciavano a modellarsi e maturare e segno dei mesi passati non erano solo i capelli più lunghi ma anche certi sguardi più adulti.
Tuttavia quella che aveva subito più cambiamenti in assoluto era certamente Samantah. La ragazza ora fidanzata si era inevitabilmente curata di più e senza accorgersene si era resa molto più femminile di quanto non lo fosse mai stata. I capelli neri che ormai le arrivavano fin quasi al fondoschiena erano spesso e volentieri abbelliti con morbide onde che le donavano un altro spessore, ma anche quando erano naturali e lisci erano finalmente ordinati e a posto e non spettinati e aggrovigliati. Si era curata anche dettagli come le sopracciglia che ora erano più sottili e definite. Un filo leggerissimo di trucco lo si poteva notare nelle uscite col suo ragazzo e nei vestiti non c’erano sempre i soliti colori spenti; soprattutto, però, non indossava solo pantaloni larghi e maglie sformate ma anche cose di un certo tipo. Bè, non esageratamente femminili, rimaneva pur sempre lei, ma il suo cambiamento era decisamente sorprendente.
Ovviamente il carattere rimaneva lo stesso ed anzi sarebbe stato un guaio se fosse stato proprio quello a mutare.
Merito di tutti quegli accorgimenti era stata, a onor del vero, la madre. Marek le aveva acceso il desiderio di rendersi più carina, ma la madre era stata sua complice principale in questa opera grandiosa. Aveva passato giornate intere con lei in giro per negozi e saloni a farle capire su cosa dovesse puntare per non apparire l’eterno maschiaccio. Lei non era stata cosciente di averle dato realmente retta, tuttavia alla fin fine era successo e a giovarne era stato Marek!
Del resto la madre di Samantah, Giada, era la persona che più di tutte, dopo Max naturalmente, aveva influenza positiva su di lei. Le due donne erano un tutt’uno da sempre e più che altro erano considerate due amiche. L’aggiornava sempre su tutte le sue novità in ogni settore, specie quello sentimentale, e le chiedeva i suoi pareri. La sua crescita era sì stata influenzata da tutti gli uomini di casa sua, ma se in lei era rimasto un barlume di femminilità da tirare in seguito fuori, quello era dovuto solo alla madre.
Quel giorno, infatti, proprio per la sua adorata unica figlia, era andata in una zona poco raccomandabile della città a prenderle degli accessori che non avrebbe mai trovato in nessun altro posto. Quel negozio era l’unico che aveva esattamente quello che cercava e siccome Samantah aveva dei gusti particolari, se non sceglieva la cosa giusta era inutile.
Ci era andata da sola di proposito scegliendo il giorno in cui sia lei che Gianluca erano impegnati con una delle ultime partite di campionato. Al suo ritorno a casa avrebbe trovato una bella sorpresa.
Sorridendo contenta stringendo il suo sacchetto con le nuove compere, percorreva il tragitto che portava dal negozio al parcheggio dell’auto. Si era stupita di come la gente a quell’ora approfittasse per fare compere, infatti aveva dovuto parcheggiare in un vicolo a qualche metro da lì. Svoltando con la testa da tutt’altra parte rispetto al mondo reale, da qualcuno la figlia aveva preso, cercò subito la propria auto senza dar retta a tutto il resto che la circondava e che le stava davanti.
Veramente se fossero stati abbastanza furbi l’avrebbero capito da soli che lei non li aveva affatto notati. Sarebbe anche andata via senza nemmeno vederli e tutto sarebbe andato a posto.
Ma la gente, si sa, quando ha la coscienza sporca fa gli errori più grandi nonché le cose più stupide.
E forse a metterci lo zampino era anche stato il caso.
Il caso che quella non fosse una banda qualunque e che la somiglianza fra madre e figlia fosse impressionante.
Giada canticchiava una canzone allegra che le ricordava la vitalità della figlia, una canzone comunque vecchia di cui non avrebbe saputo dire il titolo né identificarla. Sicuramente una canzone dei suoi tempi.
Raggiunse quasi ballando il proprio mezzo e solo allora delle voci la distrassero facendole spostare gli occhi scuri nella direzione delle persone ferme proprio in quel vicolo.
Del resto quel quartiere era proprio un brutto posto, lo sapeva perché Alessandro gli aveva raccomandato di non andarci da sola poiché lì c’erano le sue vecchie compagnie sempre pronte a tirare brutti scherzi a chiunque. Però non le era sembrato così sconsiderato andarci in pieno giorno e con quel splendido sole estivo.
Forse però, tutto sommato, avrebbe dovuto dar retta a quel ragazzo.
Le bastò un occhiata e la sua ingenua felicità svanì dal suo viso.
Un viso maturo con poche rughe che non dimostrava affatto l’età che aveva.
In quel momento l’aria era talmente immobile da essere addirittura irrespirabile, un’onM8ta di calore la invase dall’interno facendola improvvisamente accaldare più del dovuto. Strinse convulsamente il sacchetto attaccandosi alla propria macchina, sperando di poter semplicemente andarsene e basta.
Era un gruppo considerevole di ragazzi e quel che con una sola occhiata notò, fu un uomo circondato in fondo all’angolo, poco distante da loro. Quell’uomo era terrorizzato e con gli occhi pareva proprio chiederle aiuto.
Sulle prime non capì cosa le stessero dicendo quei ragazzi, le ci volle un secondo appello più iroso per riscuoterla e riattivare l’uso dell’udito e della comprensione.
- Hai sentito, bella? – Inghiottì a vuoto.
- C-cosa? – Chiese cercando di apprendere la cose migliore da compiere. Non era facile ma del resto che avrebbero potuto farle?
Sicuramente l’avrebbero derubata e magari le avrebbero preso anche l’auto visto che ci stava vicino… ma non sarebbe potuto essere più disastroso. Non lo era se si considerava che tutto ciò che contava per lei non erano certo i soldi e gli oggetti costosi. Era ricca ma per lei il denaro non era mai contato, ecco perché solo guardandola non si capiva che fosse qualcuno con un certo rango.
Se l’avessero capito, forse, avrebbero sfruttato ulteriormente la cosa.
- Scappi, signora! – Urlò improvvisamente l’uomo che era aggredito da quella banda di ragazzi.
Non le sembrarono nessuno, in quel momento.
Tutti uguali e fatti in serie, dei cloni identici fra loro.
Però vedere un arma dal vivo era tutta un'altra cosa.
Oh, se lo era.
Quel che le fece davvero impressione non fu tanto l’urlo dello sconosciuto né quei teppisti, ma solo le loro armi.
E fu quindi istintivo, alla fin fine, seguire quel consiglio; provarci e basta.
Perché poi avviene tutto velocemente e nei film è così: uno urla e ti grida di andartene, loro reagiscono in fretta pensando che te ne vada davvero e quindi cerchi di sfuggire a quella reazione che sicuramente è esagerata. Però alla fine fai peggio.
Ci si rende conto di ciò sempre e solo troppo tardi.
Sul momento segui il tuo istinto.
Tutto lì.
Dopo l’avvertimento quasi disperato, Giada vide quelli che le stavano davanti scattare improvvisamente e fu lì che per reazione istintiva mollò il sacchetto girandosi a sua volta per scappare. Non si ragiona in quei casi e lei non lo fece.
C’è chi rimane impietrito dalla paura e chi prova a far qualcosa.
Lei probabilmente aveva troppo carattere per farsi inglobare dal terrore e rimanere immobile.
Chissà… alla fin fine non si sarebbe comunque mai saputo quale sarebbe stata la cosa migliore da fare. Nemmeno col senno di poi.
Fatto fu che mentre lei provò a fuggire, loro l’afferrarono svelti con un insulto pesante che comunque non le arrivò mai al cervello, stava registrando solo la presa ai polsi e il blocco contro cui nemmeno strattonando con tutte le sue forze potè sovvertire.
E lì maledì il suo essere donna, nonostante avesse sempre detto a Samantah che esserlo era una bella cosa.
Di colpo si sentì sbattere proprio contro la sua auto e cercando con gli occhi l’uscita del vicolo che distava un po’ da dove era, si chiese se mai qualcuno sarebbe venuto.
Se lo chiese ma poi il fiato le si spezzò letteralmente a metà.
Prima di capire come mai non respirava più, come mai non ci riusciva proprio, vide gli occhi del ragazzo che le era addosso e che la bloccava. Li guardò e dentro vi vide l’inferno più nero.
Due occhi castani comuni a tanti scavati in due profonde occhiaie nere. Non erano due occhi umani.
Ne fu colpita ed a quel punto capì quanto fosse stato inutile sin dall’inizio anche solo credere di potercela fare.
Fu allora che sentì il dolore acuminato al ventre irrigidirle il corpo, le parve come se tutto d’un tratto l’estate fosse diventata inverno ed un vento gelido le soffiasse contro raffreddandola. Divenne così fredda da cominciare a tremare, poi capì che il dolore era talmente forte da impedirle addirittura di inghiottire la saliva, peccato che oltre ad essa c’era un sapore diverso che non aveva mai assaggiato.
Quando l’aggressore, sicuramente coetaneo di suo figlio Gianluca, la mollò, lei potè accasciarsi a terra di botto sbattendo con le ginocchia e con le mani.
Non sentì nulla se non quella micidiale fitta alla pancia che si spandeva lentamente a macchia d’olio.
Bagnata.
Oltre al freddo e al tremore le parve anche di bagnarsi i vestiti.
Come era possibile?
Quando ebbe davanti agli occhi l’asfalto della strada, notò che ciò che aveva sentito in bocca era solo il proprio sangue. Finalmente libera di muoversi, si toccò l’addome con una mano mentre con l’altra ancora si reggeva a gattoni, ebbe sulla pelle qualcosa di strano e anomalo al tatto. Era davvero bagnata laddove sentiva quel dolore allucinante. Si portò con fatica la mano davanti al viso e vedendola sporca completamente di sangue capì.
Capì senza voler guardarsi il buco che quel coltello le aveva fatto.
Il proprio corpo avrebbe voluto ricordarselo senza nessuna ferita.
Intatto e femminile proprio come quello della figlia, il suo ritratto.
Si lasciò stancamente cadere di fianco girandosi poi di schiena. Qualche ciocca nera rimase sul viso mentre il resto si spargeva intorno a terra. Non riusciva ad emettere un suono. Rimise la mano sulla propria ferita che le impediva ancora di respirare regolarmente senza avere l’impressione di perforarsi ulteriormente il corpo, infine guardando il cielo sereno ed azzurro illuminato dal sole che stranamente non le dava fastidio agli occhi, sentì qualcosa sotto la sua testa.
Spostò a fatica l’altra mano toccando il sacchetto che poco prima aveva mollato a terra e si ricordò della figlia e del fatto che forse non avrebbe mai ricevuto il suo regalo speciale.
Avrebbe tanto voluto vedere la sua espressione vedendo quel completino sexy. Quando l’aveva visto da sola per caso andando di fretta, aveva pensato che era perfetto per Sam, ma non aveva mai avuto tempo di tornare e altrove non l’aveva trovato.
Si avvicinava il compleanno della sua adorata peste troppo cresciuta, una peste che finalmente si era messa con il ragazzo dei suoi sogni e che per la felicità si era decisa a diventare ‘donna’.
Non avrebbe voluto farle altro che il regalo più adatto, un regalo poco da madre in fin dei conti.
Pensò a lei e a questi insoliti e probabilmente insensati particolari mentre non si chiedeva nemmeno più se qualcuno l’avrebbe soccorsa.
Tanto sapeva come era fatta la gente, la differenza fra lei e sua figlia era quella. Che lei non era così ingenua nei confronti delle persone. Sapeva fin troppo bene fin dove arrivava l’indifferenza degli altri.
Ecco perché preferì avere un pensiero per ognuno dei suoi cari, partendo dalla figlia, proseguendo per il suo adorato Max, la colonna della famiglia, passando per il piccolo Andrea che non avrebbe mai capito la crudeltà della vita, dal più grandino Michele che sarebbe stato arrabbiato col mondo per il resto della sua vita, giungendo a Gianluca alla ricerca disperata di qualcosa che non capiva ancora bene, forse di qualcosa che fermasse la sua parte più inquieta ed oscura, e concludendo con il suo amore. Suo marito Nicola, il grande avvocato che ogni causa vinceva. La persona paradossalmente più fragile di tutti, il ritratto fisico di Gianluca, l’unico che aveva preso da lui. Il più distrutto sarebbe stato sicuramente Nicola mentre quelli che la preoccupavano maggiormente erano proprio Samantah dal cuore grande e Gianluca l’imprevedibile. Ma sicuramente le mani di Max erano buone, sapeva comunque di lasciarli con l’unico capace di rimetterli in piedi.
Pensando a loro Giada si rese conto di non sentir lentamente nemmeno più dolore, non capì più nemmeno se provava freddo o caldo… o se era ancora stesa e se il silenzio intorno era perché non c’era nessuno oppure per quale altra ragione.
Eppure quel che non riuscì a capire facilmente fu se quella luce che vedeva e che la sentiva avvolgere, era illusione oppure unicamente ciò che c’era dopo la vita.
Se lo chiese e dopo aver trovato la risposta giusta un sorriso aleggiò sulle sue labbra sporche di sangue. Stranamente.
Un sorriso sereno quasi di sollievo.
Labbra che negli ultimi sospiri mimarono un ultimo ‘vi amo’ diretto alla sua dolce, adorabile e caotica famiglia.
Giada non passò i suoi ultimi momenti di vita a chiedersi perché stesse morendo, né se fosse davvero la sua fine e dove andasse dopo, non si fece domande esistenziali né recriminò su nulla, non si riempì di odio e di rabbia bloccandosi nel nulla senza riuscire a procedere in nessuna direzione.
Si lasciò andare all’unica cosa che nel suo essere le provocasse piacere. Coloro che amava.
E se ne andò nel modo migliore in cui una persona potrebbe andarsene.
Amando chi mai l’avrebbe dimenticata.

/In the arms of the angels – Sarah McLachlan/
Era la penultima partita di campionato, vincendo quella avrebbero avuto diritto a disputare la finale e così l'agognata vittoria finale sarebbe stata della squadra di Jack.
Erano tutti molto concentrati e carichi e avendo vinto gli altri incontri che avevano già disputato, quel giorno per loro rappresentava un ulteriore passo da aggiungersi a quelli già fatti. Un passo per arrivare più in alto di quanto non lo fossero stati fino ad allora.
Il tempo era passato anche per quei ragazzi che in campo giocavano come probabilmente ad inizio anno accademico non avrebbero mai detto. In gruppo, insieme.
Consolidati i nuovi ruoli per alcuni di loro e rafforzati laddove andavano rafforzati, ormai erano diventati una squadra a dir poco imbattibile e la loro fama era proprio quella dei candidati alla vittoria finale.
Giocavano con consapevolezza, voglia di vincere ma soprattutto di giocare per prendersi ciò che spettava loro di diritto.
Avevano fame di successo.
Alessandro era stato fra quelli che non aveva cambiato ruolo e rimanendo in quello d'ala grande dimostrava quanto in forma quel giorno fosse. Nulla l'avrebbe fermato.
Da solo aveva segnato la metà dei punti che avevano accumulato in tutta la partita e considerando che non era finita, sicuramente avrebbe potuto fare il suo nuovo personale record di canestri. Ad ogni intervallo chiedeva a Samantah i suoi punti ghignando e pavoneggiandosi con Daniel che ribatteva che ne aveva fatti molti anche lui. Anche Gianluca ne aveva fatti un numero considerevole mentre Trystin, nel ruolo di playmaker, aveva dovuto sacrificarsi un po' per costruire il gioco. Sorprendentemente era davvero il ruolo migliore per lui anche se ogni tanto scattava come ai vecchi tempi dimostrando la sua straordinaria versatilità.
Erano davvero tutti in forma.
Tutti a parte Samantah, a bordo campo, che ne sbagliava più di sempre segnando ogni volta qualcosa di errato.
Non se lo spiegava affatto eppure le sembrava proprio di avere la testa da un altra parte.
Marek, accanto a lei, la riportava in continuazione alla realtà notando anche lui il suo strano stato d'animo.
Ad ogni modo sembrava comunque procedere tutto nel verso giusto. Gli avversari erano presi male ed in netto svantaggio e senza saper più che pesci prendere; Alessandro ovviamente infieriva su di loro.
Dopo l'ennesimo canestro del tornado biondo che tornava in fretta in posizione per non risparmiare nemmeno la minima forza, guardò con piacere la furbizia di Jude nell'intercettare la palla che gli avversari non avevano saputo tenersi al primo passaggio. Jude era il re delle finte ma anche quello che capiva al volo il modo per sopraffare chi aveva davanti, confondeva e andava dritto sui punti deboli sfruttandoli a suo vantaggio.
Era sempre stato un ottimo giocatore e quando si era trovato senza Francesco si era dato ulteriormente da fare tirando fuori le capacità che per pigrizia erano rimaste latenti in lui.
Quando Jude prese la sfera di cuoio lasciando senza parole i due rivali che aveva intorno, la lanciò forte in avanti notando lo scatto da tigre di Alessandro. Come faceva ad avere ancora tutte quelle energie dopo quanto aveva già fatto?
Era davvero inesauribile!
Il giovane arrivato subito sotto area, saltò per fare canestro e roteando il busto preparò le mani davanti alla testa per ricevere la palla che arrivò potente e diretta fra le sue dita, una volta lì completò il giro su sé stesso che avveniva in aria per poi schiacciare sul cerchio in ferro con una potenza non da poco, tutta la struttura che lo sosteneva tremò a lungo.
Un ovazione più esuberante delle altre arrivò a festeggiarlo. L’intero pubblico era per lui, in quel momento, e per le sue fantastiche acrobazie spericolate che non faceva mai mancare a nessun incontro.
Balsamo per il suo ego!
La sua attenzione, che mentre era ancora appeso cercava il suo compagno con occhi vivaci, fu però attirata da una scena che al momento avveniva discretamente a bordo campo.
Mollò la presa atterrando accanto alla palla che non calcolò, quindi corrucciò la fronte capendo che la presenza di Max lì dentro non era normale.
Non sarebbe dovuto essere lì, aveva detto che non si sarebbe mosso da casa per studiare su un esame difficile.
Si asciugò i rivoletti di sudore dal mento con l’avambraccio altrettanto sudato, non si mosse infatti il gioco riprese con un richiamo da parte di Jude che stava per tirare la palla a Trystin, siccome non rispose Gianluca si girò per vedere cosa avesse tanto da guardare.
E capì come mai quell'espressione stranita si era dipinta sul suo bel volto selvatico e sempre ghignante per qualche motivo.
Anche lui si incupì ma più repentinamente.
Max, suo fratello, stava abbracciando Samantah davanti alle panchine.
Gianluca si raggelò smettendo probabilmente di mandare avanti ogni funzione vitale.
Perché Max stava facendo una cosa simile?
E lei che espressione aveva? La nascondeva ma anche se non la videro bene, quella degli altri lì presenti parlava chiaro. Jack e Marek in piedi anche loro si stavano passando le mani sul viso contratto e... preoccupato... quasi angosciato... no, veramente qualcosa non andava.
Quando Gabriel si alzò su ordine dell’allenatore e si preparò ad entrare, Alessandro, il quale al contrario dell’altro stava avendo una serie di accelerazioni corporee non facili da sopportare, non capì ulteriormente e facendosi colpire dall'ansia per questo fatto perse completamente l'azione che fu messa a segno da Daniel; però quando sentirono la chiamata per il cambio di giocatore, anche gli altri si voltarono non capendo come mai togliesse qualcuno di loro.
Il gioco si fermò un istante e sempre per quell'istante tutti i dieci giocatori in campo guardarono nella stessa direzione vedendo che ad essere sostituito era Gianluca e che Samantah era in piedi stretta da un ragazzo che prima non c'era.
Tutta la scena intera si cristallizzò grazie alla concentrazione di ognuno in quel qualcosa di anormale.
I battiti iniziarono ad andare irregolari nel petto di Alessandro.
Il sudore cessò di uscirgli copioso imperlandogli la pelle chiara.
Lo stomaco gli si contrasse.
Avrebbe vomitato se non fosse stato così deciso a capire cosa diavolo succedeva.
Con Gabriel dentro che ordinò a Daniel di tornare a fare l'ala e lasciargli a lui il centro, la partita dovette riprendere ma il biondo dai capelli mossi tutti scomposti e trattenuti dalla sua fedele fascia, ancora non si mosse.
Rimasero solo gli altri quattro a riprendersi nonostante si chiedessero che fosse accaduto a fratello e sorella. Se lo chiedevano ma non con l'intensità impaziente e angosciosa della loro ala che col suo istinto capì subito che era qualcosa di serio.
Di grave.
Lo capì perchè assottigliando gli occhi felini vide che Max tenendo ancora stretta a sé la mora, parlava a Gianluca.
Non vide mai l'espressione del suo ragazzo poiché era di schiena rispetto a lui, ma lo vide irrigidire tutti i muscoli del corpo, stringere i pugni fino quasi a farsi uscire sangue e dopo un interminabile istante fermo senza nemmeno respirare, lo guardò tirare un calcio violento alla panchina dove nessuno era più seduto.
L'oggetto metallico si ribaltò a terra creando un trambusto che distrasse tutti nel palazzetto dello sport e di nuovo il gioco si sospese per qualche secondo, il necessario per vedere il ragazzo uscire con passo spedito e portamento infuriato.
Ora i battiti erano impazziti e la nausea sempre più incombente. Se l'avessero preso a pugni, in quel momento, gli avrebbero fatto un favore.
I suoi occhi azzurri cercarono disperatamente di capire dal suo profilo cosa gli fosse successo ma non ci riuscì vista la velocità con cui se ne andò.
Fu istintivo per lui andare a sua volta a bordo campo per seguire il proprio compagno, ma fu fermato da Jack che con fare fermo, si chi non ammette repliche, gli ordinò di rimanere.
Non sentì davvero le sue mani sulle braccia, né il lamento dell'arbitro o il brusio incuriosito e polemico degli spettatori, solo lontanamente la voce dell'allenatore che a pochi centimetri dal suo orecchio gli aveva ordinato di rimanere in campo e continuare la partita fino alla fine, che non poteva uscire e di non fare storie.
- Ma cosa è successo? – Chiese impaziente ed ansioso come non avesse sentito nulla, continuando a guardare nella direzione dell'uscita presa anche da Max, Samantah e Marek.
- Non ora, Ale. Guardami! - Alessandro stava ovviamente opponendosi cercando di sfuggire alla sua presa ed andarsene per i fatti propri, la forza che ci mise obbligò Jack ad aumentare la propria tirando fuori tutta la decisione che mai aveva dimostrato.
Del resto non aveva a che fare con un ragazzo comune.
- ALE! - Non poteva farlo andare, non era il momento.
Il giovane finalmente portò su di lui lo sguardo affilato come quello di una tigre pronta a scatenarsi. Jack rabbrividì ma cercò di non darlo a vedere. Di quella persona a volte bisognava davvero avere paura e lui lo conosceva, ecco perchè non esitò senza dimostrare il minimo timore.
- Dopo li raggiungiamo. Finisci quella maledetta partita! -
Non gli spiegò il motivo ma dopo quello scambio di sguardi che sembrò dovesse terminare con la morte di uno di loro due, il biondo si divincolò rabbioso e dopo un ultimo confronto silenzioso, ringhiò:
- Ok. - Che gli costò davvero più di quanto molte cose non gli fossero costate fino ad allora.
Gli parve di andare sempre più a fuoco e di impazzire. Si tratteneva a stento e con tutti i muscoli tesi in evidenza specie sulle braccia e sulle spalle, si voltò tornando bruciante sui suoi passi.
Una volta dentro ricevette da Daniel la pacca sulla schiena che a modo suo servì da conforto per fargli capire che lo capiva e che l'avrebbe sostenuto.
- Sbrighiamoci a vincere! -
Aveva quindi detto il moro stesso ad alta voce consapevole che da quel momento in poi avrebbe segnato solo lui.
I minuti rimanenti dell'ultimo quarto furono i più lunghi della vita di Alessandro che, rodendosi e tendendosi dalla preoccupazione e dal non sapere, non combinò davvero nulla.

/We made it – Linkin Park feat. Busta Ryhmes/
Follia. Follia follia follia follia follia.
Come può accadere a noi una cosa simile?
Come può davvero… oh, merda. A fanculo! Non sono uno di quegli idioti che rifiuta la realtà.
Mia sorella è là che si è trasformata in una bambola e non reagisce a nulla, i miei fratelli più piccoli piangono come isterici, Max cerca di farli smettere e consolarli, Marek cerca di far reagire Sam mentre papà… dannazione!
Papà è chiuso in quella stanza in cui nessuno osa entrare e non si separerà dal copro di sua moglie finché probabilmente non marcirà con lei.
Ecco il grande uomo schiacciato dal dolore della perdita.
Ed io che cazzo sto facendo? Guardo questa gente che si somiglia tutta che cerca di superare la cosa.
La cosa.
Che cosa è?
Di cosa cazzo sto parlando?
Sto parlando della morte di mia madre, porca puttana, come si può anche solo pensare di poter superare e sopravvivere A una cosa simile?
Ha ragione Sam a chiudersi nel suo mondo d’automa. Magari non tornerà mai più con noi ma almeno esprime chiaramente che una perdita simile comporta la follia.
La follia più nera.
Perché è qui che io mi sento avvolgere, dal buio più incontrastato.
Tutte queste persone che mi circondano erano la mia luce, mi rischiaravano l’inquietudine che mi porto dentro, mi impedivano di affossarmi in un mare di merda ed ora.. ora che si stanno tutti spegnendo io ci annegherò.
Annegherò in quello schifo che mi porto dentro, quel lato oscuro che ho sempre ignorato ma che a volte è uscito fuori sconvolgendomi.
Il lato che mi fa venir voglia di uccidere qualcuno perché in quei momenti impazzisco.
Da ora sarà sempre così per me?
Sempre follia nera ed incontrollabile?
Dov’è la mia luce?
Samantah è catatonica, Michele ed Andrea piangono, Max e Marek non sanno dove sbattere la testa e mio padre probabilmente sparirà dalla faccia della terra.
Fanculo, oggi non ho perso solo mia madre, oggi ho perso anche mio padre.
Rimango qua in disparte rispetto agli altri, stringo i pugni da cui mi ferisco i palmi con le unghie, tendo tutto il mio corpo, sono ancora in tenuta da basket, tutto scompigliato e sudato. E sono immobile, in piedi, come una statua di ghiaccio che guardo verso di loro, raggruppati nel corridoio, non calcolati da nessuno. Come delle pecore sperdute che non sanno più che fare e dove andare.
No, non doveva andare così.
Non doveva, dannazione.
È morta per dei colpi di coltello, porca puttana.
L’hanno accoltellata. ACCOLTELLATA!
Significa che qualcuno l’ha uccisa e non è stato un incidente, non è stata una disgrazia, un caso, il destino infame.
L’unica cosa infame in questa storia sono quei bastardi che l’hanno colpita.
Cosa hanno detto i dottori?
Che era in un vicolo del vecchio quartiere di Ale.
Vacca troia.
Del sangue è stato versato e del sangue avrò.
Nessuno mi può portare via la mia luce, rivoluzionarmi l’esistenza lasciandoci nel buio senza pagare.
Perché a questo mondo non sempre le cose possono rimanere impunite.
Sangue per sangue.
Lo farò e come è vero che quella di là è mia madre ed è morta, lo farò.
Troverò il bastardo che l’ha uccisa e lo spedirò all’inferno con un biglietto di sola andata.
Questa volta non mi ferma nessuno.
Ci sono confini che non si possono passare.
È stata uccisa. UCCISA! UCCISA!
COME HANNO POTUTO? COME HANNO POTUTO?
ED IO DOV’ERO, DANNAZIONE. DOVE?
A giocarmi una cazzo di partita, ECCO DOV’ERO!
Invece che stare con lei mi sono perso dietro a boiate. Non ero con lei, nessuno di noi era con lei, è morta da sola.
DA SOLA!
DA SOLA!
È anche colpa mia, è colpa di tutti che non le siamo stati dietro, è morta mentre io giocavo a basket.
IO GIOCAVO, SEGNAVO ED ERO FELICE E LEI MORIVA DA SOLA AMMAZZATA DA DEI BASTARDI!
Devono pagare, tutti devono pagare.
ANCHE IO!”
Così pensando veloce come un treno che correva inarrestabile, correva come fosse in una missione suicida andando incontro ad un precipizio, Gianluca perse per un attimo la ragione impazzendo dal dolore, facendosi inglobare dalla sofferenza e dal buio che albergava in lui.
Il buio che alberga in ognuno ma che diversamente viene vissuto, controllato o combattuto.
Senza più farcela, senza più farsi bastare i soli pensieri urlati, senza più resistere a quel peso esplosivo cominciò a prendere a pugni la parete dietro di sé con colpi sempre più forti, sempre più forti e di più, fino a farsi sanguinare la mano e quindi accompagnarla con la testa sempre contro il muro, come se nemmeno quello bastasse, come se nulla fosse sufficiente.
Fu fermato da Marek e Max insieme che lo allontanarono immobilizzandolo, impedendogli di farsi ancora del male a quel modo, capendo che fra tutti il più preoccupante era proprio lui.
- Gian, Gian, smettila! Fermati! – Dissero cercando di placarlo, senza sapere in realtà come fare.
Per un attimo sembrò quietarsi, quindi allentarono la presa per guardarlo in viso. Oltre alla mano sanguinante aveva anche la fronte contusa, presto gli sarebbe venuto fuori un ematoma non da poco.
Però a far veramente impressione non fu quello bensì la sua espressione, i suoi occhi bui che parvero non riconoscerli, occhi pieni di odio e di rabbia. Rabbia che avrebbe sfogato in qualche modo e allora sarebbe stato davvero da aver paura.
Chi avrebbe potuto fermarlo dal compiere una follia?
In realtà Max aprì la bocca per dire qualcosa ma non uscì nulla, consapevole che dicendogli qualcosa tipo ‘non devi fare così’, lui avrebbe chiesto perché ed allora nessuna risposta l’avrebbe soddisfatto.
Lo conosceva.
Ed ora che faccio per lui?”
Si chiese il moro i cui capelli erano lasciati al naturale sulla testa e sul viso, abbastanza lunghi e tutti mossi. Il fascino delicato e femmineo avrebbe colpito chiunque ma certamente non in quel momento.
La richiuse ed in quello sentì arrivare qualcuno dal fondo del corridoio, spostò lo sguardo lasciando andare il fratello nella speranza di non doverlo legare ed imbottire di tranquillanti, quindi riconobbe Jack e Alessandro. Gli altri due non seppe dire chi fossero ma sicuramente loro amici e compagni di squadra. Un biondo ed un moro. Gli altri erano andati a casa.
Fece loro un cenno facendo accorgere della loro presenza anche Gianluca e Marek.
Gianluca, solo vedendo Alessandro, reagì di nuovo correndo verso di lui e afferrandolo per la maglietta a maniche corte, tutta attillata, lo sbatté con forza contro la parete. Trattandolo come se fosse il suo nemico peggiore, avvicinò il viso minaccioso al suo fino a toccarsi coi nasi. Alessandro non respirava e non aveva nemmeno notato il livido che spuntava sulla sua fronte o la mano tutta rovinata. Da come lo stringeva e lo premeva sembrava in perfetta forma, ma in realtà era solo l’adrenalina per l’ira che lo invadeva.
Pensò che non l’aveva mai visto così e che ora, davvero, solo un miracolo l’avrebbe aiutato.
- Portami da loro! – Sibilò a denti stretti senza farsi sentire dagli altri che, preoccupati per quella reazione, cercavano di capire se dovessero intervenire. Proseguì imperterrito ed allo stesso modo: - L’hanno accoltellata in quel quartiere, dove stavi tu. Dove sta la tua vecchia banda. Sono stati loro, Ale, e se non sono stati loro mi aiuteranno a scoprire chi è stato. Perché come è vero che quella di là è mia madre e che è morta, io li mando all’inferno. –
Nella frazione di secondo che intercorse successivamente, Alessandro che aveva ancora i capelli bagnati tutti scompigliati attorno al viso, si trovò a dover decidere su qualcosa che sapeva era di vitale importanza. Dalla sua decisione sarebbe dipesa la reazione di Gianluca. Non poteva sbagliare, non poteva fare la cosa sbagliata, quello non era il momento.
Dopo di lì non si poteva più rimediare.
Ma un occhiata agli occhi verde scuro del suo ragazzo che lo fissava con una furia omicida da far paura, gli fece capire che con o senza di lui l’avrebbe fatto e che l’unica cosa saggia per lui, era seguirlo in tutto e per tutto per proteggerlo.
Quindi scelse.
- Andiamo. – E lo disse con quanta più convinzione riuscì a tirare fuori, sperando, in cuor suo, di trovare la chiave giusta per domarlo e spegnerlo.
Già, perché ormai, Gianluca, era pericolosamente esploso.
A quel punto lo mollò ed insieme si diressero a passo spedito verso l’uscita, superando Jack, Daniel e Trystin che non si mossero non avendo capito cosa stessero per fare.
- Dove vanno? – Chiese Max preoccupandosi e raggiungendoli.
- Non ne ho idea… - Rispose allibito l’allenatore guardandoli scendere dalle scale.
A quel punto Max sul punto di crollare non trovò altro modo che chiedere un muto aiuto ai due amici di suo fratello lì presenti.
Non servirono parole, loro dissero subito seri e determinati:
- Ci pensiamo noi. – Andandosene immediatamente a loro volta sulla scia degli altri.
Però chi poteva dire quanto buona fosse stata quell’idea?
In fondo si trattava di Daniel e Trystin… avrebbero davvero cercato di fermarli o si sarebbero solo uniti a loro, scegliendo il proprio metodo contorto di soccorrere qualcuno?

/Here with me - Dido/
Per me.
Era là per me.
In quel sacchetto c’era un regalo per me.
Ero io che dovevo essere in quel vicolo a prendermi quel completino.
Non era lei che doveva andarci, specie da sola.
Ero io.
Ero io che dovevo morire.
Ero io che dovevo prendermi quell’accoltellata.
Non doveva morire pensando che per colpa mia non potrà più veder crescere i suoi figli e sostenere suo marito e… vivere… e… andare avanti come ha sempre fatto, con la sua gioia, la sua femminilità, le sue decisioni e le sue fantasiose scelte di vita.
È colpa mia.
Davvero.
Lei non c’è più.
Lei, la mia complice, colei che ha investito più di tutti su di me perché ero l’unica femmina, la persona con cui ho passato gran parte del mio tempo, quella che mi ha trasmesso la sua gioia di vivere, la sua vitalità, la sua luminosità, il suo modo di essere felice.
Lei.
Il mio mondo da quando sono nata.
Anzi, il mio primo mondo.
Mia madre.
Colei che mi ha dato le fattezze del suo stesso viso, i suoi capelli, il suo carattere ed ora anche i suoi modi di fare più femminili.
Non potrò nemmeno ringraziarla.
Era andata a prendermi il regalo di compleanno, voleva farmi una sorpresa.
Non può essersene andata, non può essere che non le parlerò più, che non la vedrò più, che non la toccherò più. Non può essere che non mi sgriderà più quando ne combino una delle mie o che non mi prenderà più in giro… o che non ascolterà più i miei discorsi. Non farà nulla di ciò che faceva.
Non può essere.
Ma allora dovrei provare del dolore, piangere, impazzire dalla sofferenza, disperarmi, urlare, stringerla, sentire il suo corpo freddo… ma non mi succede nulla di tutto questo.
Non sto facendo nulla, io non sento niente.
Allora forse non è vero.
Nulla di tutto ciò è vero.
Non è morta.
È solo un illusione, una finta, un brutto sogno da cui mi sveglierò rendendomi conto che non è realmente accaduto.
Non è morta, vero?
No… o io starei male ma non piango, non faccio niente, non so nemmeno dove sono, in questo momento.
Io… io non capisco… dove sono?
Cosa sto facendo veramente?
Chi c’è con me?
Non sento niente, non capisco… forse sono io che sono morta e lei in realtà mi sta piangendo.
Ma quando è successo?
Dopo l’arrivo di Max al campo sportivo non mi ricordo nulla.
Ho pensato che era strano che fosse lì e poi il buio.
Fuori e dentro di me.
Ma in realtà mi pare d’aver camminato, fatto qualcosa… però non sto piangendo, o lo sentirei.
Non sento nulla.
Non so… oddio… non so davvero… dove sono?
Cosa sto facendo?
C’è qualcuno là fuori?
Qualcuno che può raggiungermi e tirarmi via da qui o spiegarmi che sto facendo?
Cosa mi è successo?
Io non sento nulla… però se non sento nulla non sto male. Non sto nemmeno bene ma nemmeno male.
Non soffro.
Non piango.
Non mi dispero.
Non vivo senza lei.
Che devo fare?
Io non voglio stare male…
C’è qualcuno che possa stare qui con me?”