CAPITOLO
34:
PARTE
OSCURA
“Un colpo preciso e
ben mirato di qualcuno che con la pistola
aveva molta esperienza.
Ed una sorta di nenia
cominciò a scorrere nell’aria, una nenia
immaginata, che indicava la drammaticità del momento perché a sparare
era stato
Alessandro e non Gianluca.”
/Emotionaless – Good
Charlotte/
Andare
a casa sembrava
solamente la cosa più stupida del mondo, da fare, eppure l’unica
rimasta. L’unica
possibile.
Subire
una perdita così
importante e dover comunque andare avanti, il modo non lo sai ma sai
solo che
devi farcela, che qualcosa da fare c’è e che non puoi semplicemente
rimanere lì
a vegetare. Che comunque lei non c’è ma tu si e non puoi che proseguire
i tuoi
minuti. Vivere, andare avanti, camminare ancora, respirare, pensare
senza
rendersene conto, sentire il cuore battere.
Rimanere
ancora nel mondo.
Toccò
a Max l’ingrato
compito di fare da colonna portante per quello che rimaneva della sua
famiglia.
Una famiglia un tempo felice. Un tempo.
Ora
solo singolari individui
a cui era crollato il mondo addosso.
A
Jack non rimase che
chiedere se avesse bisogno di qualcosa e prendersi quindi l’incarico di
cercare
anche lui Gianluca assicurandosi che non facesse sciocchezze.
‘Lo
farei io’, aveva detto
il giovane dai capelli neri scomposti al naturale intorno al bel visto
delicato, ‘ma devo occuparmi anche di loro. È peggio di quel che
pensassi’.
Così
l’allenatore aveva
annuito assicurandogli che ci avrebbe pensato lui e che comunque c’era
da
fidarsi di Trystin. Non di Daniel e Alessandro, ma di Trystin si.
Giunto
a casa dopo aver
guidato lui stesso la macchina familiare e aver lasciato alle cure
dell’ospedale
e della polizia il corpo della donna priva di vita per cercavano ancora
indizi
per trovare i colpevoli, aveva fatto scendere tutti lasciandoli andare
dentro
da soli. Erano tutti coscienti, chi cupo, chi arrabbiato, chi
piangente, chi
disperato, chi completamente chiuso ma vivo.
Tutti
tranne Samantah che
era totalmente in un altro mondo, un mondo in cui nessuno poteva
penetrarvi e
dal di fuori appariva come una bambola priva di vita ed emozioni. Come
un
guscio vuoto.
Il
ragazzo si girò verso il
vialetto della villa osservando l’auto di Marek entrare e parcheggiare
accanto
alla sua, quindi si accostò al posto del passeggero e aprendo la
portiera aveva
esitato a guardare dentro.
“Fa che si sia ripresa, ti
prego…”
Pensò
al volo stringendo gli
occhi in una preghiera a qualcuno che magari aveva più ‘poteri’ di lui.
Poi
si abbassò e guardò il
profilo delicato tanto simile al suo. La testa era dritta, gli occhi
sgranati
ma ancora assenti, guardavano avanti senza vedere nulla e quelle iridi
troppo
nere per distinguervi qualcosa erano prive di una luce che potesse
accendere in
lui qualunque speranza.
“Lei è il mio sole, senza
come faccio? Lei è sempre stata il sole di tutti… se lei si spegne è
finita. L’unica
in grado di riaccenderla non c’è più… con la mamma se ne è andata la
scintilla.”
Pensò
scoraggiato senza però
darlo a vedere.
Non
fece alcuna espressione
d’allarme ma si limitò con pazienza e delicatezza a farla scendere.
Quando fu
fuori in piedi la circondò con un braccio notando le sue abbandonate
lungo i
fianchi e la schiena leggermente ricurva. Camminava, il suo cervello
dava gli
stimoli al corpo per seguire i movimenti che qualcuno le suggeriva, ma
non
aveva volontà propria.
Marek
l’affiancò dopo aver
chiuso la macchina ed in silenzio completo entrò a sua volta in casa.
Era
molto grande e spaziosa.
E
silenziosa.
Così
silenziosa non lo era
mai stata.
Si
fermarono tutti e tre un
attimo e i due ragazzi cercarono con lo sguardo qualcuno nei paraggi,
per
capire dove fossero e cosa stessero facendo.
In
breve avrebbe trovato suo
padre chiuso nel proprio studio, seduto alla sedia in pelle a guardare
uno
schermo di computer spento e a sprofondare in una depressione sempre
più grave.
Poi nelle rispettive camere dei fratelli, li avrebbe trovati chi in
lacrime,
chi steso nel letto a guardare il vuoto con aria tragica e chi a
distruggere
tutto ciò che gli capitava.
Non
entrò nel mondo di
nessuno di loro raggiungendo la sorella che, condotta da Marek, era
stata
seduta nel divano del soggiorno.
Max
era consapevole che all’inizio
li avrebbe dovuti lasciar fare, che tutti avevano un modo proprio per
affrontare il dolore e che quello che poteva fare lui era sostenerli e
non
crollare, sbrigare le faccende burocratiche, le peggiori in quelle
situazioni,
e rispendere al telefono che squillava in continuazione sperando solo
di non
ricevere la notizia che più temeva a quel punto.
Quella
che gli comunicava
che suo fratello Gianluca aveva fatto qualcosa di irreparabile o che
gli fosse
successo qualcosa di grave.
Quello
non l’avrebbe retto,
probabilmente.
-
Faccio una tisana. –
Mormorò apparentemente calmo ma estremamente serio.
Marek
gli lanciò una breve
occhiata di assenso e si chiese, mentre lo guardò rifugiarsi in cucina,
quanto
avrebbe resistito a quel modo.
Lo
faceva per i suoi
familiari distrutti, per recuperare Sam, per occuparsi al meglio di sua
madre,
ma se non avrebbe pensato a sé stesso presto sarebbe crollato e da lì
chi l’avrebbe
tirato su?
Lui
ci era passato, aveva
assistito alla morte di suo padre, da piccolo, e aveva dovuto sostenere
una
sorellina piccola che ancora non capiva cosa succedeva ma vedeva la
madre disperarsi,
poi aveva dovuto spiegarle che il padre non sarebbe più tornato perché
nessun
medico era stato in grado di salvarlo.
Aveva
dovuto sentirsi in
colpa per non essere stato lui stesso d’aiuto.
Aveva
dovuto diventare la
colonna di quella piccola famiglia ormai sola e piena di problemi.
Avevo
dovuto rinunciare ai
suoi sogni, crescendo, tradendo ulteriormente la memoria del padre.
Anche
per lui era stata dura
e sapeva perfettamente cosa si provava in quei momenti.
Ma
sapeva anche che gli
altri non potevano fare molto.
Solo…
solo gli sarebbe
piaciuto aiutare almeno Samantah.
Samantah
che ancora non
reagiva chiusa nel suo mondo.
Con
un nodo allo stomaco che
gli bloccava ogni funzione che non fosse guardarla, accarezzarla e
parlarle
sotto voce con dolcezza cercando di risvegliarla, sperava di poter
sentire di
nuovo il calore sotto le dita che la toccavano e di rivedere il suo
sorriso,
seppure triste, oppure le sue lacrime, seppure dolorose.
I
medici avevano solo detto
che era normale.
Normale
e che si sarebbe
ripresa.
Ma
come?
Se
nessuno avrebbe saputo
fare nulla per lei, quanto ancora sarebbe rimasta così?
L’angoscia
cominciò a
percorrerlo e paralizzarlo al punto da non fargli più emettere pensieri
logici,
così decise di tacere il proprio pensiero e di stringerla solo a sé.
Semplicemente.
Appoggiato
con la schiena
nel divano l’aveva circondata col braccio adagiandola a sé,
abbracciandola e
facendole posare la testa sul suo petto, all’altezza del cuore.
Lei
lì rimase senza
muoversi. Respirava, batteva le palpebre, il suo cuore pulsava, i suoi
capelli
neri ricoprivano la sua schiena fredda avvolta da vestiti come al
solito
maschili, ma non accadeva altro.
Alcun
cambiamento.
- Ti
prego, Sam… svegliati.
Torna in te. Parlami, reagisci, piangi, urla, dì qualcosa. Non rimanere
così.
Torna da me. Torna da me. –
E
nonostante questa continua
supplica disperata del giovane spaventato e preoccupato, lei ancora non
fece
assolutamente nulla.
Nulla.
Quando
Max tornò di là con
il vassoio che reggeva la teiera di acqua calda fumante circondata da
alcune
tazze in ceramica insieme a delle bustine di tisana, capì che sua
sorella non l’avrebbe
mai bevuta così si fermò in mezzo alla casa, nel punto in cui era, e
girando lo
sguardo verso le scale che portavano alle camere degli altri fratelli e
poi
alla porta chiuso dello studio del padre, capì che nessuno l’avrebbe
bevuta.
Forse nemmeno Marek.
E
che lui per primo non ne
aveva proprio voglia.
Così
senza fare un
espressione specifica, semplicemente serio e con le labbra sigillate,
si girò
tornando in cucina, buttando poi via l'acqua nel lavandino e posando
tutto al
proprio posto.
Si
disse che era
semplicemente stupido fare la tisana in quella situazione, come lo era
tornare
a casa.
E
poi continuare
semplicemente come nulla fosse, o pretendere che gli altri lo
facessero, o
trattenere il proprio istinto di piangere e spaccare tutto, o
rispondere al
telefono per confermare la notizia o parlare con l’ospedale e la
polizia sulla
salma della madre, sul funerale, su un sacco di cose…
Organizzare
un funerale.
Seppellire
la loro madre.
Andare
avanti da soli.
Veder
crollare tutto ciò che
prima era solido.
Non
avere più un pavimento
sotto i piedi ma un ponte vecchio dove le assi continuavano a cadere e
si
spezzavano nel momento in cui mettevi piede sopra.
Ma
prima di tutto…
Prima
di tutto,
semplicemente, era davvero stupido affrontare la morte di colei che per
loro
aveva rappresentato tutto.
Stupido
pensare di farcela,
un giorno, a rialzare gli occhi al cielo e sentire ancora la risata
cristallina
di Samantah o di chiunque altro di loro.
Stupido.
Così
rimase un tempo
indefinito in cucina, appoggiato al lavandino, senza nessun muscolo
teso o aria
dispiaciuta.
Rimase
solo lì a pensare a
tutte queste cose e poi, unicamente sconsolato, aggiunse flebilmente e
mezza
voce:
- Da
ora sarà sempre così? –
Mai
come ora si trovò nell’incertezza
più nera e abissale.
Eppure
l’unica cosa che
sapeva, al momento, era che non avrebbe mollato.
Non
ancora.
Non
finché qualcun altro non
avrebbe mandato avanti tutto al posto suo.
Per
lei.
Per
sua madre che dall’alto
li osservava e pregava affinché ce la facessero anche senza di lei.
Pura
utopia, in fin dei
conti.
/Freestyler – Bomfunk
MC’s/
“- O siete con noi, o contro
di noi. Non voglio intralci. – Ha detto così guardandoli entrambi
diretto negli
occhi con quello sguardo da tenebra. Cosa c’è in quegli occhi verde
cupo?
Se lo sono chiesti anche
loro quando ci hanno raggiunto dicendo di aspettarli. E udendo quella
risposta,
guardandolo diretti da vicino, l’hanno capito così come l’ho capito io.
C’è l’oscurità più nera. Di
quelle che portano distruzione e nulla di buono. Ecco perché hanno
deciso di
seguirlo anche loro. Per evitare non che si ammazzi ma che ammazzi
qualcuno.
Non c’è più stato tempo per
i ragionamenti, dopo.
Mi ha obbligato a trovare in
fretta i miei vecchi amici e a farli collaborare. Anzi. Non è corretto.
Quel
che abbiamo fatto è stato obbligarli a collaborare.
Come primo sfogo non l’ho
trovato utile. Non l’ho visto rinascere mentre pestava di brutto quelle
fecce,
chiedendo freddo come la lama di un coltello chi era stato ad ammazzare
sua
madre.
Ci è andato giù pesante,
certo, però è stato molto sbrigativo, come se non fossero loro i pesci
che
voleva, come se sapesse che non erano davvero così idioti da pestare di
nuovo i
piedi a noi.
Gianluca già sapeva che ci
avrebbero solo portato dalle persone giuste.
Non mi sono dato molto da
fare, lasciandolo agire da solo speravo che si sfogasse abbastanza ma
lui si è
trattenuto. Nemmeno Trys e Dany hanno alzato un dito, rimanendo
indietro a
guardare seri. Guardavano la scena e poi me come a chiedermi come penso
di
fermarlo.
Già, come penso di fermarlo?
Sembro avere sempre tutto
sotto controllo, anche ora è così. Ho un aria sicura e seria, di chi sa
il
fatto suo. Eppure il punto è che non ho la più pallida idea di come lo
fermerò.
Ed è stato in quello scambio
di sguardi fra me e loro due che non ho notato che gesto ha fatto Gian.
Ha
fatto qualcosa, l’ho sentito chiaramente. Ha preso qualcosa. Ma non so
cosa,
quando l’ho guardato con attenzione per capirlo ho aperto la bocca per
chiederlo ma il suo sguardo mi ha raggelato e non era mai successo in
vita mia,
di sentirmi così. Nessuno mi aveva mai bloccato, la mia incoscienza mi
ha
sempre fatto andare avanti anche nelle situazioni più disperate. Lì
però il
sangue si è fermato nelle vene.
Non gli ho chiesto nulla, ho
solo sperato che non si trattasse di una pistola.
Perché quei dannati così
girano ancora armati?
Merito mio e della lezione
che gli ho dato con gli altri, immagino… ma che palle!
Ho poi lasciato perdere
questi pensieri inutili ed ho ascoltato la voce affettata di Gianluca
chiedermi
dove potevamo trovare la loro banda avversaria di quartiere.
È qua che il campanello ha
risuonato come un matto in me e quasi mi sono sentito male.
Sono quelli che, qualche
anno fa, mi hanno quasi ucciso. Se non era per Jack non sarei qua, ora.
Quelli
che mi volevano con loro, la banda più pericolosa del posto, quelli da
cui
tutti si guardavano terrorizzati. A cui io ho rubato una pistola per
imparare
ad usarla. Ed ho imparato bene, modestamente. Ma non hanno gradito il
mio gesto
impune e mi hanno dato quel che meritavo dopo avermi chiesto di unirmi
a loro
perché gli piacevo. Gli piaceva la mia voglia di morire.
Dopo che mi hanno quasi
ucciso e mi sono rimesso, non sono più andato da loro e forse se la
sono presa
ancora di più.
Quando mi vedranno sarà
peggio, ma onestamente non è questo a preoccuparmi bensì Gianluca. Se
fa loro
qualcosa di serio, e lo farà, facendoli finire in ospedale, quelli
sanno di me
cose che mi inchioderanno. Ancora più del mio vecchio gruppo.
E se Gian sa questo, come
che mi hanno quasi ammazzato, anni fa, non esiterà a piazzargli una
pallottola
in fronte rovinando sé stesso e facendo finire male anche me.
È un disastro.
Un disastro che siano
proprio loro.
Si saranno incattiviti
ancora di più.
Hanno ucciso a sangue freddo
una donna indifesa che sicuramente non aveva fatto loro nulla.
Dannazione.
Come posso fare?
Non può.
Non deve.
Li ammazza e loro ammazzano
lui e se non lo fanno ci rovinano comunque!
Però davanti all’oscurità
che alberga in questi occhi che avevo davanti e che mi chiedevano dove
trovare
quel gruppo di bastardi, mi sono sentito inchiodato ed impossibilitato
a
mentire.
Non so davvero come sia
possibile, come abbia questo potere, come riesca a farmi fare ciò che
non
voglio. Non so, è come se mi avesse cacciato in un mondo di tenebra.
Specchiandomi nelle sue pupille ho avuto paura e gliel’ho detto.
Gli ho detto dove e come
trovarli.
- Andiamo. – Quando me lo ha
detto precedendomi mi sono trovato gli sguardi interrogativi e severi
di Trys e
Dany. Sguardi che chiedono come penso di salvarlo e risolvere la
situazione che
degenera sempre più.
Non è servito chiedermelo,
io sapevo cosa pensavano. Ecco perché ho detto:
- Ora andiamo là e
spacchiamo loro il culo finchè Gian non sarà soddisfatto. Quando vedo
che li
sta per ammazzare lo fermo! – Semplice e logico. Sembra quasi una
barzelletta,
una sciocchezza. Chiunque sarebbe capace di farlo, no?
Loro mi hanno guardato come
se fossi un idiota, chiedendosi anche se fossi serio e se ne fossi in
grado.
- Come intendi riuscirci, in
quel caso? – Mi chiede Trystin parlando, finalmente. Normalmente il suo
tono mi
piace abbastanza ma ora no. È sempre freddo ma come cazzo fa?
Come intendo fermarlo, una
volta che passa il limite?
Bella domanda…
- Mi inventerò qualcosa. –
Improvviso. Io improvviso sempre e ci riesco bene. Ce la farò anche
adesso. L’importante
è non mollare il suo culo nemmeno un istante.
Ed ora eccoci qua.
Davanti a questi maledetti
assassini e ad uno che spero non lo diventi.
La vera battaglia, per
tutti, inizia proprio adesso. “
/Kurenai – X Japan/
Erano
sotto il cielo che
lentamente si ingrigiva annuvolandosi. In lontananza i tuoni
cominciavano ad
avvicinarsi sempre più, le saette attraversavano le nuvole che si
muovevano a
vista d’occhio grazie al vento che da un po’ soffiava. Presto si
sarebbe messo
a piovere.
I
capelli ed i vestiti dei
ragazzi si muovevano svolazzando come privi di gravità, ma non faceva
freddo o
almeno loro non lo sentivano. Ormai erano all’inizio dell’estate,
faceva caldo
ed erano tutti smanicati e vestiti leggeri, Alessandro addirittura in
canottiera
nera attillata e dei jeans più aperti che chiusi grazie agli strappi!
Il
gruppo di teppisti non
era composto da persone da quattro soldi bensì da gente che negli occhi
non
aveva la vita ma solo la morte. Una morte che acclamavano a gran voce
ma che
non avevano davvero il coraggio di prendersi da soli. Ecco perché
cercavano
sempre qualcuno in grado di dargliela.
Per
questo era gente
pericolosa.
Quando
videro Alessandro di
fianco a Gianluca lo riconobbero subito. Era cresciuto e cambiato,
certo, ma
nemmeno molto in fondo.
Ora
aveva un corpo più
maturo di un tempo e l’espressione seria, senza nemmeno l’ombra di un
ghigno o
della voglia di provocare; li colpì.
Era
tornato in vita.
Lo
capirono subito.
E
non gli piacque.
Quasi
lo invidiarono.
Cosa
gli era successo?
-
Ale?! – Chiesero increduli
smettendo di fare quel che stavano facendo e girandosi tutti verso loro
quattro. Puntarono tutti l’attenzione sulla conoscenza che, senza
sorridere in
alcun modo maligno, fece un cenno col capo in saluto poi tirò fuori una
sigaretta e con gesti semplici ma allo stesso tempo sicuri e spacconi,
di chi
non aveva la minima paura di nessuno, se l’accese tirando la prima
boccata di
fumo socchiudendo gli occhi azzurri nel farlo e gettando la testa di
lato e un
po' all'indietro. La prese poi fra le dita e quando buttò fuori la
nuvola
grigia che si disperse subito nel vento che lo portò via, decise di
dire con
voce bassa e penetrante, senza raddrizzare il capo:
-
Io. –
-
Dopo quella volta non sei
più venuto da noi. Ed io che speravo di poterti avere un po’ per me… -
“Razza di idiota, taci o
scateni il finimondo!”
Pensò
secco Alessandro
tirando tutti i muscoli del corpo. Si videro soprattutto nelle braccia
dove
erano maggiormente sviluppati grazie al genere di vita che aveva
condotto,
quindi senza avere il tempo di dire qualcosa che li deviasse, loro
proseguirono
spacconi e sorridenti come serpenti. Ignari di quel che sarebbe
scoppiato di lì
a poco.
-
Abbiamo pensato di averti
ucciso davvero… non ti sei più fatto vivo! – Fu solo una luce
impercettibile
quella che attraversò gli occhi sottili e cupi dell’apparentemente
freddo e
controllato Gianluca. Nonostante la mente totalmente rivolta alla
vendetta
della madre, aveva registrato quelle frasi capendole in modo
inequivocabile.
Ancora
fantasmi del passato
di Ale.
Del
SUO Ale.
Cosa
avevano fatto quelli?
Cosa
avevano OSATO fare al
suo ragazzo, quelle fecce?
Ucciderlo?
Avevano
tentato di
ucciderlo?
E
poi l’avevano anche voluto
per loro?
Quest’ira
si sommò all’altra
ed in un solo millesimo di secondo non ci fu davvero più tempo per
nessuna
preparazione a parole.
Non
ne volarono per nulla.
Non furono quelle a levarsi fra loro.
Solo
un lampo concomitante
con quello del cielo.
Gianluca
era già dal capo
banda a colpirlo veloce ed improvviso con un pugno dall’alta potenza.
Uno
tirato con tutta la
rincorsa e la forza dell’intero corpo sbilanciato per tirarlo. Rimase
in piedi
mentre l’altro quasi cadde dalla sorpresa e dal dolore, quindi tutti
gli altri
intorno increduli lo guardarono e chiedendosi che cazzo succedesse
capirono che
non c’era tempo per pensare ma solo per agire.
Agire
in fretta.
Quando
lo videro in viso lo
capirono.
Quel
ragazzo era una belva.
Ma
prima che potessero
reagire per atterrarlo a loro volta, Alessandro diede ordine anche agli
altri
due dietro di partire.
Scattarono
tutti e tre nello
stesso identico momento e modo, corsero come avessero il diavolo dietro
e senza
ragionare più, senza dar tempo alla propria mente di avere paura o
altro,
semplicemente si avventarono con tutto il loro istinto selvaggio su
quei
ragazzi che, inebetiti, rispondevano non capendo che diavolo succedesse.
- Ma
che cazzo succede?
Perché ce l’avete con noi? – Chiese il capo che se la stava vedendo
proprio con
Gianluca.
Alessandro,
Trystin e Daniel
erano tutt’intorno a picchiare con forza bruta o con classe, chiunque capitasse loro a tiro senza
prendersi per ognuno un unico avversario. Capivano che dovevano
smettere quella
folle rissa il prima possibile e che non era solo una missione
punitiva, era
qualcosa per la sopravvivenza.
Quei
tipi erano tutti
armati.
Se
solo avessero preso in
mano le pistole o i coltelli per loro non ci sarebbe stata storia,
quindi più
veloci che mai non dovevano dar loro tempo di reagire se non con dei
pugni. Gli
stessi con cui li colpivano secondo dopo secondo. Velocemente. Sempre
di più.
Forte, dando fondo ad ogni lato animalesco, scatenandosi per
sopravvivere, per
non cedere, per incassare i colpi in fretta senza farsi atterrare.
Ne
diedero tanti e tanti ne
ricevettero e mentre loro li affrontavano pregando solo che andasse
tutto bene,
che la loro brutta sensazione fosse infondata, Gianluca, ringhiando,
rispose al
ragazzo, il capo banda, con cui stava parlando e al contempo
rivaleggiando.
Erano
a fronteggiarsi e
veloci come dei lampi colpivano e schivavano, ma lo sguardo che aveva
Gianluca,
quel giovane, non l’avrebbe mai dimenticato.
Un
abisso senza ritorno. Lui
era lì per uccidere e quella sensazione di morte non gli sarebbe andata
via
finché avrebbe vissuto.
- Un
assassino non sa perché
viene punito? – Disse laconico fra i denti con un tono davvero
impressionante.
Fece accapponare la pelle a tutti quelli che ascoltarono.
Il
teppista abbassò la
guardia sgranando gli occhi mentre il gelo percorreva la sua spina
dorsale.
Lui
aveva ucciso.
Sapeva
bene come era uno che
stava per farlo ed essere lui la vittima lo fece star male bloccandolo
completamente.
Gianluca
ne approfittò per
atterrarlo con un diretto ancor più forte del precedente, pieno di
rabbia, una
rabbia sempre più ceca. Così ceca che non si avventò sul suo corpo
rendendolo
una poltiglia con le proprie mani.
Gianluca
non ci vedeva più
al punto da fermarsi, avvicinarsi ed estrarre la pistola che nello
scontro con
l’altra banda si era procurato di nascosto.
La
sua mente fu un mistero
in quel momento.
Irragionevole,
non un
pensiero coerente se non una litania continua.
“Tu portatore di morte, non
farai più del male a nessuno. Non avrai più nessuno come Alessandro o
mia
mamma. Per te è la fine. Questo è il tuo giorno. Non meriti di vivere.
Non lo
meriti. Non ci hai pensato a togliere la vita a mia madre. Non ci hai
pensato.
L’hai fatto e basta. Ed ora io non ci penserò nemmeno per te!”
Qualcosa
di così svelto da
essere illeggibile anche per sé stesso.
-
Come ci si sente a
guardare la morte? Hai idea di cosa hai fatto provare a lui e poi a mia
madre?
-
Fu
lì che il tempo si bloccò
per tutti, ognuno si fermò e il vento rese tutti delle statue di
ghiaccio,
nonostante il caldo di inizio estate.
Il
ragazzo si era tirato su
sulle ginocchia, davanti alla canna che tendeva Gianluca fermo e teso.
Non
riusciva a piangere, nemmeno ad implorare.
Lo
guardò solo capendo che l’avrebbe
fatto.
Avrebbe
premuto il
grilletto.
- Io
non sapevo che era tua
madre. È arrivata nel momento sbagliato nel luogo sbagliato. Non
l’avrei
uccisa. – Ma nemmeno se avesse avuto un cervello sarebbe servito a
qualcosa.
Certa
gente segnava la
propria fine da sola.
Questo
fu benzina per
Gianluca che coi capelli biondi che volevano completamente intorno al
viso
livido di rabbia e di colpi ricevuti, lo guardò dall'alto come se fosse
un
verme strisciante.
-
Sei morto, pezzo di merda!
– Nella mente solo la consapevolezza della madre morta. Solo il suo
viso che
non avrebbe più sorriso, la sua voce che non gli avrebbe più parlato
consigliandolo o mettendogli allegria, le sue braccia che non
l’avrebbero più
stretto nonostante si vergognasse di certe cose. Nessuna madre per lui
e la sua
famiglia. Tutto distrutto.
Tutto
finito e solo per un
idiota che non sapeva quale valore aveva la vita. A lui non gliene era
importato nulla di sua madre.
Lì,
ora, sarebbe successa la
stessa identica cosa.
“Ora come cazzo lo fermi?”
Si
chiesero Trys e Dany
impietriti incapaci di fare qualsiasi cosa coi pugni stretti a
mezz'aria e
pronti ad una lotta interrotta da entramb le parti. Improvvisamente la
prontezza di riflessi e d’azione si volatilizzò e solo le parole
fiduciose ed
incoscienti di Ale risuonavano in loro come una promessa di salvezza.
Quello
era un incubo.
- Gian, mettila via! – Gridò
quindi Alessandro senza pensarci
un momento, lasciando cadere a terra l’avversario che stringeva dopo
aver
demolito.
Mosse
dei passi
avvicinandosi al fidanzato, ma non lo toccò, rimase a mezzo metro
allargando le
braccia fissandolo stralunato come guardasse un pazzo.
-
No. – Disse a denti
stretti e freddo Gianluca senza nemmeno voltarsi. Continuava a tendere
la
pistola contro il viso del capo immobile e senza parole.
-
SI! BUTTALA DANNAZIONE!
NON SAI COSA STAI PER FARE! NON LO SAI! IO SI! BUTTA VIA QUELLA CAZZO
DI
PISTOLA! – Avrebbe potuto strappargliela e prenderlo a pugni ma sapeva
che
avrebbe sparato. L’avrebbe spinto davvero a sparare e sarebbe stato
peggio.
-
NO! NO E NO! NON LO FACCIO
ALE! NON LA BUTTO! NON SE NE PARLA! QUESTO BASTARDO HA UCCISO MIA
MADRE! MIA
MADRE! LO CAPISCI? HA TENTATO DI UCCIDERE ANCHE TE IN PASSATO E CHISSA'
QUANTE
ALTRE VITE HA TOLTO! È UNA FECCIA, UNA MERDA CHE NON MERITA DI VIVERE!
LUI E'
QUA E MIA MADRE NO! PERCHE'? DOVREBBE VIVERE? NON SE NE PARLA! DEVE
MORIRE! –
Gianluca finalmente aveva gridato e la sua voce parve come un tuono, lo
stesso
che si udì sopra le loro teste. Il viso deformato dalla rabbia,
irriconoscibile. Un pazzo.
-
INVECE NON LO FARAI
PERCHE' NON SAI COSA SUCCEDERA' DOPO, IO SI E SARA' TERRIBILE! –
-
STA ZITTO, MERITA DI
MORIRE! – Ci fu un momento di caos e panico in cui solo loro due erano
sbloccati ed urlavano inferociti e fuori di loro stessi, uno
gesticolava
sapendo di non poterlo toccare, l’altro sempre più proteso ad uccidere.
Sempre
più immerso nella sua parte oscura.
Allucinato,
fuori da ogni
grazia!
Ma a
nulla servì gridargli.
Solo quando sentì il rumore di un'altra pistola che si alzava contro
Gianluca
per fermarlo, capì cosa doveva fare.
Non
ci fu tempo per i
ragionamenti.
C’era
davvero solo una ed
unica scelta.
Così
ancora una volta non
pensò.
Agì
e basta.
E fu
veloce e letale. Con un
unico movimento afferrò l’arma che vicino a lui veniva tesa contro il
suo
compagno che, voltandosi brevemente a guardare che succedeva, tornava a
girarsi
verso il rivale a terra dando il tempo ad Ale di muoversi ancora,
impugnare l’arma,
alzarla a sua volta, vedere i muscoli di Gianluca tendersi di nuovo ed
il dito
muoversi schiacciando il grilletto.
O
tentando.
/Hide and seek –
Imogen Heap/
Il
botto si levò nel
quartiere che era diventato silenzioso come un film senza sonoro,
quindi il
tempo che prima era andato accelerando e poi si era fermato di colpo,
sembrò
ripartire a stento.
Un
fotogramma al minuto.
Qualcosa
di insostenibile.
Tutti
gli occhi lì presenti
furono puntati contro il viso del ragazzo della banda caduto a terra,
sicuri di
vederlo grondante di sangue. Ma così non fu. Non era il viso che
sanguinava ma
l’addome, verso il fianco.
Un
colpo preciso e ben
mirato di qualcuno che con la pistola aveva molta esperienza.
Ed
una sorta di nenia
cominciò a scorrere nell’aria, una nenia immaginata, che indicava la
drammaticità del momento perché a sparare era stato Alessandro e non
Gianluca.
Shock.
Shock
di tutti.
Le
urla del ferito non si
udirono anche se c'erano. Non era morto ma ferito gravemente. Forse
sarebbe
morto, forse se la sarebbe cavata, ma in ogni caso per colui che aveva
premuto
il grilletto, da ora in poi, sarebbero cominciati di nuovo i guai. E
questa
volta quelli più seri e gravi.
Arrivò
tutto ovattato alla
mente e agli orecchi di Gianluca il cui sudore colava lungo la pelle
impallidita. Vedere un fantasma sarebbe stato meno sconvolgente.
Lentamente
come appesantito
da una gravità forte il doppio della normale, si girò verso il compagno
accanto
che aveva abbassato l’arma fumante, quindi senza più coscienza del suo
corpo e
di sé stesso, chiese col cuore che andava a mille e un nodo che stava
risalendo
la sua gola paurosamente:
-
Perché l’hai fatto? – Davvero
non ci sarebbe arrivato, non in quel momento in cui il vero Gianluca e
quello
oscuro stavano lottando per avere il sopravvento di quel ragazzo ora
smarrito e
confuso.
A
quel punto Ale tornò a
vedere in lui la persona che amava per cui avrebbe dato la vita e
facendo
cadere la pistola annullò in fretta la distanza fra loro prendendogli
il viso
fra le mani, premendo la fronte contro la sua. Erano entrambi sudati
coi
capelli scompigliati e qualche livido sul viso, nonché sporchi e
scarmigliati.
Avevano
il fiatone e i cuori
andavano all’impazzata ma lì, fra lo shock e la paura per quanto appena
successo, fra la rabbia e la cecità, entrambi tornarono l’uno
dall’altro.
-
Perché avresti avuto degli
incubi ogni notte fino alla tua morte. Io ci sono abituato e non
importa se
finisco nei guai, ormai è normale per me. Ma tu non dovevi. Non dovevi
rovinarti e distruggere te e quel che rimane della tua famiglia. Io me
la caverò
come ho sempre fatto. – Però il momento di ringraziare o proseguire
quel
momento stralunato di ritorno dalla follia, non potè continuare e col
rumore
delle sirene della polizia che si avvicinavano in lontananza e la voce
di
Daniel che diceva che dovevano andarsene di corsa, si sciolsero, Ale
prese la
mano di Gian che a sua volta mollò la sua pistola senza nemmeno
rendersene
conto e preceduti dai due amici che avevano assistito esterrefatti a
tutto,
corsero via imitati dagli altri che lasciarono il capo solo, ferito, a
combattere per la vita.
Cosa
sarebbe successo, ora,
nessuno avrebbe osato dirlo o pensarlo ma purtroppo era ovvio ed
evidente.