CAPITOLO
XIV:
MOLTO
DI PIU’
Il
cellulare suonò Wake up dei Rage Against The Machine fino quasi alla
seconda strofa, quindi finalmente Jacoby tornò nella vita reale
interrompendosi dallo scrivere per rispondere.
La
sua voce suonò estremamente roca e lontana nonché visibilmente turbata.
Chiuse
infatti gli occhi e si stese meglio nel divano allungando le gambe che
aveva tenuto piegate per fare da sostegno al quaderno, questi invece
scivolò a terra e lì vi rimase.
La
penna se la mise in bocca, di lato, in modo sia da riuscire a parlare
che da succhiarla.
La
testa abbandonata all’indietro sul bracciolo, quasi a penzoloni in
realtà e la mano libera che si massaggiava liberamente il torace e
l’addome per riprendere la consistenza del proprio corpo.
-
Sì? -
Dall’altra
parte Jerry si preoccupò immediatamente e per una volta non riuscì a
mascherarlo come cercava di fare per non agitarlo.
-
Che è successo? - Chiese infatti prima ancora di salutarlo e fargli
capire chi era.
-
Perché? - Ma Jacoby l’aveva già capito nonostante con la mente fosse
ancora a ciò che aveva scritto. Parole in libertà e nient’altro,
comunque tutte molto significative così come il fatto che a riportarlo
nell’al di qua fosse una telefonata di Jerry.
Ci
pensò ma fu un flash troppo breve per essere catturato, anche perché la
sua voce tornò pacifica e controllata.
-
Niente, mi sembravi strano… cosa stavi facendo? -
Jacoby
ci mise un attimo a fare mente locale e continuando a succhiare la
penna in modo sempre più equivoco, senza assolutamente accorgersene,
rispose:
-
Scrivevo… - Ma sentire Jerry ora lo stava facendo sentire più strano di
prima e il non riuscire a capire se fosse un sentimento prevalentemente
positivo o negativo, lo innervosiva non poco.
Jerry,
invece, come se sapesse cosa gli succedeva quando scriveva, disse calmo
e fermo:
-
Avete tirato fuori una canzone che vi soddisfa? - Jacoby che non si era
impegnato molto in quei giorni per quel progetto poiché si era trovato
eccessivamente bene coi suoi due nuovi amici, rispose con un filo di
voce di chi si sentiva evidentemente in colpa:
-
No, in realtà no… - Jerry che invece ci aveva sperato, continuò a
fargli domande per distrarlo dal torpore ipnotico in cui cadeva quando
scriveva.
-
Come mai? - Non era accusatorio, quindi Jacoby si riprese pian piano ma
non era ancora ai suoi massimi. Dava ancora l’idea di un bambino
smarrito che si stava piano piano ritrovando.
-
Mah… non so… è che… - Ma non seppe trovare una risposta, quindi non
disse nulla.
Jerry
dispiaciuto dal sentire che non avevano ancora una canzone, chiese:
-
Ti trovi bene lì? - Come se fosse un’intuizione.
-
Sì, alla grande! Chez e Mike sono davvero incredibili, mi ci trovo
benissimo! Ho legato subito! Sai, sono diversissimi fra loro però è
come se si integrassero a vicenda perfettamente. Hanno trovato un
fottuto equilibrio invidiabile! Non ho ancora capito come cazzo hanno
fatto, ma hanno superato un sacco di casini ed ora sono… -
Jerry
rimase ad ascoltarlo parlare di loro con un entusiasmo coinvolgente e
allegro che lo fece sentire sia geloso che sollevato al contempo. Era
una cosa bella in realtà, che legasse con loro ed aveva capito subito
che l’avrebbero potuto aiutare. Quando aveva parlato con Mike era stato
lampante. Ora voleva solo capire se di mutamenti effettivi c’erano
stati e se erano stati davvero in bene od in male. A parte che parlava
con entusiasmo di due persone che fossero esterne al gruppo, che altro
era migliorato?
Non
lo interruppe, lo lasciò sproloquiare a ruota libera e quando lo sentì
completamente tornato, capì che comunque per scoprire quelle cose
avrebbe dovuto vederlo di persona. Al telefono certo non lo si poteva
capire.
Alla
fine, seppure riluttante, si accinse a lasciarlo andare. Era strano,
era come se qualcosa che gli apparteneva crescesse per andare in giro
da solo, ma non proprio come un figlio. Diversamente.
Sì,
ma come?
-
Coby, devo andare. - Jacoby si fermò istantaneamente e si raddrizzò sul
divano, tirandosi su a sedere. Sputò la penna e si oscurò
repentinamente in un modo davvero impressionante.
-
Per forza? - chiese spontaneo e ansioso.
Jerry
sorrise dall’altra parte, lieto che l’altro non lo vedesse.
-
Bè, è da mezzora che siamo al telefono. Sono contento che ti trovi bene
con loro, te lo avevo detto. - Disse piano con pacatezza per non
agitarlo ulteriormente. Gli piaceva sentirlo così per lui ma sapeva che
non gli faceva bene.
-
Quando vieni? - chiese con un filo di voce che aveva dell’infantile.
Associato a lui che esternamente appariva tutt’altro che bambinesco,
anzi, sembrava sempre piuttosto aggressivo, era davvero strano.
-
Quando avete la canzone. Dipende da voi. - Jacoby mise il broncio e
corrugò la fronte, nel complesso estremamente cupo, contrariato ed
infantile.
Delizioso,
visto il contrasto con il suo aspetto poco leggiadro e delicato.
-
Non puoi venire prima? - Fece supplichevole.
Jerry
si intenerì come solo parlando con lui gli capitava di sentirsi, anche
se era strano ugualmente che Jacoby fosse capace di scaturirgli quei
sentimenti così contrastanti e particolari. Certamente non era capace
di passare inosservato.
Sorridendo
in un misto fra il compiaciuto, l’intenerito e il sorpreso, disse
sospirando:
-
Tu fai la canzone ed io vengo. -
Jacoby
sospirò sconfitto. Non gli piaceva sentirsi scaricato e nella
fattispecie da Jerry. Non poterlo vedere quando invece voleva era
davvero pesante, per lui, e turbato profondamente da questo e da quanto
gli mancasse, mormorò solo un ‘ciao’ estremamente sottile, quasi
inudibile.
Jerry
non potendo lasciarlo in questo modo, alla fine aggiunse quasi di
slancio, senza sapere minimamente cosa stesse dicendo.
-
Coby? - Jacoby miagolò un ‘mm?’ amareggiato e questo lo spinse
ulteriormente a dire quello che non avrebbe mai immaginato di poter
esprimere tanto facilmente: - Anche tu mi manchi. Sbrigati a fare la
canzone. - La forza che sentì Jacoby da quella frase, gli avrebbe
permesso di scrivere quel famoso testo entro il mattino successivo.
-
Il fatto è che non è facile scrivere intenzionalmente canzoni, di
solito escono da sole quando meno te lo aspetti, quando non ci pensi.
Così di proposito non è proprio facile… -
Stava
dicendo Mike appena finito di apparecchiare la tavola.
-
Proprio per un cazzo, mi sa che stavolta la collaborazione è stata una
puttanata! - Sbottò Chester chiudendo i fornelli e cominciando a
versare nei tre piatti sistemati.
-
No, non dico questo, secondo me è una buona idea, poi lui è bravo e
coinvolgente, solo che è… -
-
psicopatico? - Concluse Chester imitando le espressioni da schizzato di
Jacoby.
-
Intendevo dire instabile e inconcludente. -
- A
proposito, dove cazzo è? Di solito basta che senta l’odore del cibo ed
è subito qua! -
Fece
l’altro mettendo i piatti pieni a tavola.
-
Hai ragione… - Replicò Mike girandosi dietro di sé con la stessa
intenzione, ovvero quella di vedere che fine avesse fatto Jacoby. -
Coby? - Chiamò pronto a sentire i passi in corsa e qualche conseguente
rumore di mobile urtato per non dire anche rotto!
Silenzio.
-
Ma dove… - Fu così che alzandosi Mike andò a cercarlo seguito a ruota
da un curioso Chester, il quale non poteva credere che non si
precipitasse subito ad ora di cena, specie se chiamato da Mike per il
quale, secondo lui, aveva una predilezione.
Controllato
in bagno ed in camera che trovarono vuote come il soggiorno ed altre
stanze, andarono nella sala musica, la quale era chiusa fortunatamente
non a chiave.
Appena
aprirono la porta sentirono il pianoforte suonare.
Appurato
che non esistevano i fantasmi, accesero la luce e dal buio emerse
proprio Jacoby seduto davanti lo strumento a coda che, ad occhi chiusi
ed aria tormentata, suonava liberamente senza seguire alcuno spartito.
Calò
quasi istantaneamente l’atmosfera tenue e delicata.
Un’atmosfera
davvero particolare che non poterono ignorare, tanto meno combatterla e
farla scivolare via.
I
due si guardarono complici e rimanendo seri si avvicinarono. Chester si
sedette alla sedia girevole davanti alla scrivania dove carta e penna
non mancava mai, mentre Mike con lui al piano.
Lo
scrutò.
Il
suo profilo era alto, gli occhi chiusi e le mani correvano sui tasti
libere e veloci, creavano melodie sconnesse dove si sentiva tutta la
sua confusione interiore e di nuovo la stessa sensazione di prima lo
raggiunse ma questa volta la catturò.
-
Coby… - Mormorò piano cingendogli la schiena delicato per farsi
sentire.
Era
arrivato il momento di parlare della canzone.
Al
contatto lieve, Jacoby non si riscossa ma aprì lentamente gli occhi e
girò altrettanto placidamente la testa fino a guardarlo.
Non
smise di suonare ed esternare ciò che lo prendeva e andando da passaggi
impetuosi ad altri lenti, tristi e strazianti, risultava quasi
inascoltabile per la totale disarmonia delle note.
Mike
rabbrividì al suo sguardo, i suoi occhi lo fissavano da vicino eppure
non era lì. Era talmente distante che per un istante credette di nuovo
di averlo perso. Esitò non sapendo cosa fare.
Eppure
lo stava guardando…
Mike
si girò verso Chester e con calma rispose alla domanda su cosa
provocava in Jacoby il suonare.
-
Non compone insieme agli altri anche se sa suonare perché è sconnesso,
disarmonico, privo di senso e troppo interiore e personale. Quanto ci
scommetti che non saprebbe riprodurre la stessa melodia due volte?
Suonare lo perde completamente! Più dello scrivere e delle stelle! -
Chester senza rispondere, si alzò dalla sedia e gli andò dietro, quindi
gli prese le mani e gliele fermò con decisione ma senza risultare
brusco.
Mike
si stupì di vederlo così ma soprattutto si stupì che sapesse quello che
doveva fare.
L’osservò
mentre lo alzava e lo tirava via con calma dal pianoforte e lo sedeva
sulla sedia dove era messo lui prima, quindi sedendosi sulla scrivania,
prese carta e penna pronto per scrivere. Poi attese.
Sapeva
che ora avrebbe preso in mano la situazione Mike e che qualcosa ne
sarebbe uscito.
Qualcosa
di incredibile.
-
Coby… - lo chiamò ma non rispose. Guardava ancora dritto davanti a sé
come se fosse in trance, quel grigio delle iridi ora era più chiaro del
solito e ci si poteva perdere in esso. Ma Mike proseguì ben saldo in sé
stesso, cominciando a sua volta a suonare e questa volta note calme ed
equilibrate, armoniche, sensate, dolci. - Ti va di dirci qualcosa su di
te? - Questo non glielo avevano mai chiesto. C’erano state volte in cui
lui di sua iniziativa aveva detto qualcosa che lo riguardava, sfoghi
spontanei per lo più. Ma mai a chiedergli direttamente una cosa del
genere.
Chester
non si stupì della sua audacia e guardò attento Jacoby a pochi
centimetri da lui. Era ancora assorto nel proprio mondo ma notò un
piccolo cambiamento nel suo sguardo, aveva sentito e probabilmente
stava cercando in sé una risposta.
Alla
fine con un sussurro roco cominciò. La sua voce parve sperduta in mezzo
ad una prateria vuota, era talmente sottile e quasi infantile che li
fece rabbrividire e Chester stesso provò il fortissimo istinto di
abbracciarlo e stringerlo.
-
Mi confondo facilmente. Anche adesso sono confuso. Mi perdo. Mi metto a
pensare e mi ritrovo chissà dove a fare chissà cosa. Oppure scrivo o
suono e vago liberamente, non ho catene, posso fare come voglio, però
non sono in grado di controllare quello che faccio. Sono sconnesso,
incomprensibile. Non so. E poi il mondo è distinto in buoni o cattivi,
in giusto e sbagliato. Ci sono confini e limiti ovunque. Dove sono io?
Arrivavo a ferirmi per rimanere presente e distinguere la fantasia
dalla realtà. Per capire dove fossi e quali voci fossero vere o no. Ma
alla fine la verità è che non so bene chi sono e sono confuso. Dove mi
trovo? -
Chester
stava scrivendo e Mike non se ne preoccupò, era certo si riferisse alle
parole che uscivano da Jacoby. Provò di nuovo la tentazione di
stringerlo ma non si mosse, continuò a suonare con quella calma e la
positività di cui era padrone.
Dopo
di che, vedendo Chester smettere di scrivere, gli disse:
-
Tu Chez? -
Il
ragazzo capì cosa stava facendo Mike, per questo si era messo a
scrivere parafrasando le parole di Jacoby, consapevole che poi
avrebbero continuato a lavorarci a lungo, quella notte.
Lasciò
carta e penna e guardando fisso davanti a sé senza perdersi in niente e
nessuno se non in sé stesso, cominciò a sua volta. Piano, senza
agitazione o confusione. Presente e tranquillo.
-
Ho dei segni sotto la pelle e sotto i tatuaggi che non andranno mai
via. Ho passato un periodo di merda in cui mi sentivo solo e
abbandonato e facevo cazzate, sono affondato. Oh cazzo se sono
affondato. Ma sono risalito, e questa volta definitivamente, ma non da
solo. Da solo non ce l’avrei fatta. Cioè può sembrare che mi sia
rimesso da solo ma in realtà ho avuto un’ancora di salvezza che mi ha
spinto dal fondo della fogna in cui ero per farmi risalire le pareti
nere che mi circondavano. Sono salito ed oltre a Dio ad aspettarmi
c’era questa persona che era scesa dove mi trovavo per riprendermi e
riportarmi su da lui. Non ce l’ho fatta da solo, ma ce l’ho fatta.
Quindi a fanculo il passato. C’è stato, i segni rimangono, ma la pelle
che indosso ora è diversa ed anche se sono stato una merda, ora è
un’altra storia. -
Quando
concluse, si rese conto che Jacoby aveva preso il suo foglio e si era
messo a scrivere dalle sue parole qualcosa che probabilmente sarebbe
stato da sistemare non poco. Fu strano il modo in cui nacque quella
canzone ma ancora di più come fu scritta.
Le
parti di Jacoby da Chester e quelle di Chester da Jacoby.
Mike,
sempre rigorosamente suonando con quella calma e serenità che ormai
rischiarava gli animi di tutti ma soprattutto del loro amico, cominciò
a parlare a sua volta, fissando il vuoto davanti a sé, dritto, senza
osservare nessuno degli altri due.
-
E’ diverso il vostro vissuto, è diverso il modo in cui l’avete vissuto,
è diverso anche l’affondo che avete subito, siete voi stessi diversi.
Ma entrambi siete caduti, non importa come, quando e perché, è
successo. E sapete? Non importa nemmeno cosa avete provato, ciò che
eravate e tutto quello che è stato. Il passato conta, è importante, non
si cancella, ma conta di più uscirne. Non come, ma il fatto stesso di
superarlo. Io non credo in quello che facciamo e che diciamo, siamo
pieni di difetti, possiamo sbagliare e fare cazzate, non conta quello.
Io credo nel fatto che non siamo soli a fare quelle cazzate. Che siamo
in tanti a farne, diverse e svariate, ma che comunque siamo in tanti. È
in questo che siamo uguali, è lì che non siamo soli. Negli affondi e
nelle risalite. Perché tutti sbagliamo, a tutti succedono cose brutte,
tutti cadono. C’è chi poi riesce a risalire e riprendersi e rimediare e
chi invece non ci riesce. Ma esattamente nel fatto che cadiamo e
sbagliamo, è lì che siamo tutti uguali. È lì che non siamo soli. -
Fu
naturalmente Chester a riportare quei concetti in versi, la base, una
sorta di appunti per non far scemare quelle parole espresse con intenso
trasporto, quando poi Mike sembrò tornare presente, soddisfatto di ciò
che aveva espresso poiché corrispondeva al tema per la canzone che
voleva proporre, lanciò uno sguardo eloquente al suo compagno che
capendo ciò che voleva dire, si alzò e si sedette al suo posto dietro
al pianoforte.
Chester
era capace di suonare, gli aveva insegnato Mike. Originariamente il
cantante infatti sapeva suonare solo la chitarra, tecnica perfezionata
nel corso del tempo, poi con Mike aveva imparato il pianoforte, che
comunque suonava solo a casa e mai in concerto essendo che ci pensava
sempre l’altro.
Sedutosi
lo sostituì riprendendo le stesse semplicissime note tenui e tranquille
che si udivano da ormai un tempo indefinito.
Fuori
era buio da un pezzo. Doveva essere passato molto più tempo di quanto
pensasse.
Mike
allora si sedette sulle ginocchia di Jacoby che lo tenne per la vita,
quindi chino sul foglio cominciò a trasformare le rispettive
testimonianze e parole in versi e poi canzone vera e propria,
ritoccando e perfezionando.
Nel
corso chiese a Chester se potesse vocalizzare in libertà su quelle note
ed egli lo fece venendo successivamente accompagnato da Jacoby allo
stesso modo tenue e delicato, quasi dolce, triste a tratti ma comunque
positivo in prevalenza.
Sentendo
le loro voci intrecciarsi in quel modo quasi sublime, come se non
avessero fatto altro in tutta la vita, proprio come era successo a lui
e a Chester quando si erano messi a cantare insieme la prima volta,
Mike fluì con la penna sul foglio come se tutto quello premesse per
uscire da moltissimo tempo.
Non
sarebbe stata quella la melodia della canzone, l’avrebbero decisa tutti
insieme. Quella sarebbe rimasta la loro melodia, il loro suono, il loro
pezzo e nessuno l’avrebbe mai sentito.
Innamorato
delle voci di Chester e Jacoby fuse insieme, rabbrividì immaginando
quanto grandiosa sarebbe stata quella loro nuova opera.
Quando
finì, si girò verso di loro, rimanendo seduto su Jacoby, quindi gli
circondò le spalle con un braccio e sorridendo sereno e radioso,
incrociò lo sguardo con Chester che ricambiò sorridendo allo stesso
modo, soddisfatto perché non avevano fatto solo una bella canzone e
creato un momento intimo vocale rasserenante.
Quando
videro Jacoby sorridere cosciente e sereno allo stesso modo, lì
presente e consapevole con un che di perenne infantilità tenera, ne
ebbero conferma.
Avevano
fatto molto di più di una canzone e di qualche vocalizzo insieme.
Molto
di più.