CAPITOLO II:
LASCIA FARE A ME
Gli occhi severi ed estremamente attenti scorrevano uno ad
uno i suoi nuovi giocatori al loro primo giorno di allenamento.
Il ritiro era finalmente iniziato e lui era arrivato nel
luogo molto prima degli altri per farsi il programma e studiarsi i dati
che gli avevano fornito. Era stato molto curioso ed impaziente di
iniziare, aveva di proposito preteso di accelerare tutti i tempi. Una
squadra diversa di quel calibro non solo era una di quelle sfide che
tutti sognavano, ma anche un fenomeno interessante su cui mettere le
mani, modellarli a suo piacimento, far di loro i campioni che l’avrebbero
celebrato…
Però non era solo una questione di fama e carriera, la sua,
bensì anche un vero e proprio piacere nel fare ciò che lo realizzava
maggiormente. Lui adorava il suo lavoro e lo dimostrava in ogni modo,
senza nessuna riserva.
Penetrando i ragazzi con accuratezza ed uno sguardo che
pareva imbronciato e che in realtà era solo molto concentrato, si fece
subito un’idea
precisa di tutti e di ciò che avrebbe dovuto fare per ognuno di loro.
Specie uno in particolare che stentò a riconoscere.
Senza mai staccare gli occhi da Ricardo cercò il giovane
che aveva lasciato l’anno
prima senza riconoscerlo. Di quel campione che spesso era stato l’unico
capace di risollevare una squadra intera, che riusciva a segnare quasi
ad ogni incontro, che mai deludeva al contrario dei suoi compagni, non c’era
nemmeno l’ombra.
Al suo posto ora vedeva un giovane depresso che cercava di
far finta di fare del suo meglio e che invece risultava pietoso.
Quel brillante calciatore prodigio che agli inizi della sua
carriera era stato chiamato Bambino d’Oro
e che aveva vinto molti riconoscimenti, ora era semplicemente spento.
Spento dopo addirittura un anno dalla sua separazione con
il precedente club dove era stato nel meglio della sua carriera.
Era lampante che il motivo fosse quello, ma come poteva non
essersi ancora ripreso?
Fra gli altri c’erano
molti sottotono che avevano solo bisogno di una strigliata e di un paio
di calci in culo, ma lui era diverso…
il suo livello attuale era quello di uno comune come tanti, mediamente
bravo. Ma Ricardo non era così, lo conosceva bene visto che per anni
era stato la punta di diamante della sua squadra avversaria.
Il vero Kakà era quello che spiccava e che era fuori dal
comune.
Certo, aveva un gioco pulito, semplice, elegante, classico,
giusto… ma non era
mai stato solo quello.
Sembrava quasi che, per i suoi canoni, fosse infortunato.
Si trovò quasi a sperare che lo fosse davvero, ma
infastidito profondamente da ciò che vedeva, si disse che doveva subito
fare qualcosa.
O si toglieva dalla testa quel dannato Milan, o lo cacciava
dal Real a fucilate, e non gliene importava un fico secco se non aveva l’autorità
per farlo!
Profondamente seccato dal suo atteggiamento spento e a sua
detta fuori luogo, a fine allenamento mandando tutti gli altri a
lavarsi e riposarsi, trattenne il giovane trequartista brasiliano e
decidendo istantaneamente il modo migliore per parlargli, lo guardò
malissimo pur essendo più basso di un paio di centimetri, quindi come
se lo volesse sbranare, disse diretto ed incisivo, puntandolo col dito
contro il petto sudato:
- Vuoi tornare al Milan? -
Ricardo lì per lì credette di aver capito male e spaesato
chiese un: - Eh? - vago.
L’altro
allora ripeté seccato nella loro lingua, sempre più incattivito:
- Se fossi uno qualunque penserei che non sei male anche se
non eccezionale. Ma non sei uno qualunque. Io so chi sei, ti conosco
meglio degli altri! Ti ho studiato a lungo per i derby a Milano e so di
cosa sei capace. Allora se non fossi idiota penserei che sei
infortunato! Ebbene sai una cosa? - Chiese con quella che per lui forse
era ironia ed invece al giovane parve più una minaccia: - Non lo sono!
Non ti sei ripreso dal tuo trasferimento! - Non glielo chiedeva, dunque
l’altro rimase in
silenzio, contrito e soggiogato dal modo in cui gli parlava, ma
soprattutto mortificato. - Ragazzino, se vuoi tornare a Milano me lo
devi dire ora, qua e subito! Io non ho tempo da perdere, posso fare la
mia squadra anche senza di te, ma non voglio essere preso in giro. -
Questa volta la cattiveria era davvero marcata, anche se non gli
gridava contro come normalmente amava fare.
Ricardo lo guardava con i suoi grandi occhi espressivi che
dicevano quanto gli dispiacesse tutto quello e quanto lui avesse
ragione. Per lui era tremendo il pensiero di essere così di peso, non
lo era mai stato, non era giusto. Far addirittura perdere tempo…
Gli occhi gli divennero lucidi ed il nodo crebbe. Non
poteva piangere per una sfuriata simile, tanto più che il mister aveva
ragione… ma non era
per quello quanto per ciò che aveva brutalmente detto.
La verità.
Lui voleva solo tornare in quella che per lui sarebbe
sempre stata la sua casa. Semplicemente la sua casa, il suo luogo d’appartenenza,
la sua fonte di energia.
Ma anche a dirlo una volta per tutte ad alta voce, anche a
piangere, anche sfogarsi, non sarebbe cambiato niente. Non sarebbe
servito.
Si morse il labbro in un gesto infantile e stringendo i
pugni lungo i fianchi, rispose con un filo di voce, capendo come quell’uomo
facesse ammutolire chiunque.
- Ed anche se così fosse, che cosa può fare, lei? - Non era
una frase da lui, impertinente e provocatoria. Lui non era così, era
rispettoso e gentile, sempre a modo. Ma lo stato d’animo
in cui attualmente verteva era tale da spingerlo a fregarsene del
proprio linguaggio e probabilmente José lo comprese e gli piacque
quella spontaneità. Capì che doveva essere messo più male di quel che
ad una sola occhiata aveva dedotto.
La luce nel suo sguardo divenne quasi malefica nella sua
totale sicurezza e senza l’ombra
di un rimprovero, disse accattivante:
- Io ho potere di fare qualunque cosa! - Razionalmente
Ricardo sapeva che non era così, che c’erano
cose per cui nessuno poteva fare niente e che un allenatore non era un
presidente.
Sapeva anche che per lui avevano speso milioni e che non
avrebbero certo rinunciato dopo un solo misero anno sottotono.
Però lì per lì, per il modo in cui lo disse ed in cui lo
guardò facendogli sentire un qualcosa di tremendamente nuovo e
sconvolgente, gli credette ciecamente. Che lui potesse davvero fare di
tutto.
José gli mise una mano sulla spalla, lo strinse con vigore
trasmettendogli la sua sicurezza, quindi con occhi affilati e diretti,
disse con quel suo tipico sorriso enigmatico:
- Allora, vuoi tornare al Milan? -
Ricardo rimase spaesato per un po’
a fissarlo quasi inebetito, quindi dopo un attimo che si trovò perso
nel suo sguardo e nei suoi atteggiamenti, disse spontaneo senza
pensarci, piano piano.
- Magari…
- In condizioni normali non l’avrebbe
mai detto perché era stato cresciuto con la filosofia del non sputare
mai sul piatto in cui si mangiava, non era mai stato ingrato ed anche
nelle situazioni peggiori era sempre educato, rispettoso e soprattutto
sapeva stare a posto. Non era uno impertinente come Cristiano…
Però lì si trovò ad esserlo e se da un lato si sentì male,
dall’altro ne fu
sollevato e quasi contento. Specie in virtù del sorriso accentuato del
portoghese.
- Lascia fare a me e fidati. -
Non seppe proprio perché ma in quel momento sentì di
potersi fidare ciecamente.
E si sentì meglio, per la prima volta da quando aveva messo
piede a Madrid.