CAPITOLO I:
COME INIZIO'
TUTTO
Ciò che ero lo
dovevo a lui.
Lui era colui
che volevo diventare.
Lui era tutto
quello che avevo sempre voluto e che, e di questo ne ero certo come
la morte, avrei sempre voluto.
Non mi
immaginavo un domani a volere qualcosa di diverso, qualcun altro,
altri obiettivi.
In qualche modo
la mia vita iniziò con questo.
Con lui.
Ero nella mia
beata adolescenza alle prese con un tennis iniziato perchè era la
passione della mia famiglia, e con il calcio, il mio vero amore.
Ero grande
tifoso del Real Madrid, il mio idolo era Ronaldo Nazairo, sognavo di
giocare al Real, un giorno.
Nella mia
testa, nel mio sangue, nella mia anima c'era spazio solo per quello
ed in effetti ero piuttosto bravo, non lo potrebbe negare nessuno.
Sapevo che
potevo avere possibilità, però giocando a tennis mi resi conto che
ero maledettamente portato anche per quello sport.
Lo ero a
livelli spaventosi, tanto che presto tutta la famiglia, special modo
mio zio che ci giocava, si rese conto di QUANTO effettivamente lo
fossi.
Avere successo
in uno sport individuale ti dà subito alla testa, perchè vedi che
vinci tu, con le tue forze, con la tua bravura. Vinci titoli,
partite, tornei e sei tu, solo tu. Il talento è unicamente tuo, il
nome che viene pronunciato è il tuo, non quello dell'intera squadra.
I
riconoscimenti sono tutti personali e questo pesò moltissimo nella
mia scelta.
Quando mi
fecero scegliere fra tennis e calcio andai in crisi, perchè ero
portato per entrambi. Amavo il calcio, mi divertivo tantissimo, era
qualcosa che mi piaceva davvero fare.
Però col
tennis sapevo di avere più possibilità o meglio... di avere una
strada diversa.
Col tennis
avevo talento ed avere talento col tennis significava avere una
gloria che era unicamente tua.
Diciamo che da
un lato c'era il divertimento e dall'altro l'essere portato.
Il calcio mi
piaceva, mi divertiva, il tennis era nel mio sangue, potevo essere
davvero bravo, lo sapevo.
Non avevo idea
di cosa scegliere e arrivato alla soglia del professionismo, dove le
gare si facevano serie, quel momento in cui ti devi tesserare per una
squadra o per un altra categoria, dovevo fare la mia scelta.
Non potevo
continuare con entrambi.
A farmi
scegliere fu l'idea che se avessi avuto successo nel tennis, sul
serio cioè, sarei potuto diventare il numero uno nella classifica
ATP, quando ci sarei approdato.
Perchè essere
il numero uno a tennis significa che tutto il mondo lo riconosce, che
non è una questione di punti di vista o di apprezzamenti soggettivi.
Per cui potevo
essere il migliore per tutti e con le mie sole forze. A calcio la
vittoria ed il successo dipendeva da troppi fattori e da troppe
persone e comunque era tutto condiviso con altre venti individui
facenti parte della tua squadra. E poi magari vincevi riconoscimenti,
ma solitamente erano discussi e assegnati da persone votanti.
A tennis quando
sei il numero uno, lo sei perchè vincendo ottieni dei punti e quei
punti riconoscono indiscutibilmente a tutto il mondo che tu sei il
migliore, non ci votazioni o scelte. Lo sei e basta.
Questo mi fece
scegliere per il tennis.
Parlare di me e
del mio rapporto col tennis significa parlare del perchè sono
mancino solo in questo sport mentre nella vita normale sono destro.
A otto anni
giocavo a tennis e nelle prime lezioni mi misi a tirare il dritto sia
con la destra che con la sinistra, l'allenatore mi chiese come mai lo
facevo ed io dissi che mi veniva meglio colpire la pallina sempre col
dritto.
Lui rise
dicendo che era normale preferire il dritto per rispondere ai colpi,
ma di solito lo si faceva con una mano sola.
Non capii bene
la questione dello scegliere una mano, io riuscivo a tirare con la
destra e la sinistra, perchè dovevo sceglierne una?
Ero più forte
così!
Sostanzialmente,
mi ero messo a tirare i dritti con entrambe le mani per essere più
bravo nelle risposte.
Quando mio zio,
che divenne il mio allenatore personale, mi obbligò a sceglierne
una, io cercai di capire quale braccio era più forte.
A quell'età
non ce n'era propriamente uno più forte, per cui chiesi come erano i
tennisti più forti e lui mi disse che generalmente gli avversari più
difficili da battere erano i mancini perchè riuscivano a dare
effetti diversi e particolari alle palle e a farle più insidiose.
Così decisi
che sarei stato mancino a tennis!
Ogni scelta che
feci a tennis, sempre, fu solo per essere il più forte.
Tutte le
tecniche, tutti i dettagli imparati, qualunque cosa io ho dovuto
scegliere è stato in base a questo.
Anche lo
scegliere il tennis è stato per questo. Perchè essere il più forte
a tennis significava esserlo davvero senza se e senza ma.
Potevo contare
solo su di me, ma una volta che ci arrivavo era merito mio, solo mio.
Sono sempre
stato ambizioso, mi sono sempre posto obiettivi alti e questo perchè
di solito se uno si pone obiettivi alti, anche se magari non ci
arriva, raggiunge ugualmente dei buoni traguardi ed alla fine di
tutto può ritenersi soddisfatto.
Per cui il mio
obiettivo è sempre stato primeggiare, arrivare nel massimo posto
possibile.
Il tennis è
considerato uno degli sport più difficili e faticosi individuali,
per questo volevo farcela.
Non so se mi
piacesse, non so se mi sia mai piaciuto sul serio.
Credo più che
altro che giocando mi sia piaciuto. Ma inizialmente no, lo facevo
perchè mi veniva.
Quando
cominciai a vincere i tornei giovanili e a farmi un nome in quella
categoria, capii quanto bello era essere un vincente.
Io ero fatto
per vincere, io volevo solo vincere, vincere era bello, appagante,
soddisfacente, stupendo.
Dovevo vincere
sempre, il più possibile.
Ben presto
esistette solo il vincere.
Vincere era il
mio pane e per vincere dovevo eccellere, migliorare, fare ancora di
più.
Mi buttai anime
a corpo al tennis, come un pazzo, pretendevo di essere forte sotto
ogni aspetto, ero disposto a tutto, qualsiasi sacrificio e mio zio,
capendo quanto ambizioso e competitivo fossi, vedendo che ero
mortalmente serio quando dicevo di voler fare sacrifici, cominciò a
chiedermene. Mano a mano che io eseguivo tutto quel che mi chiedeva,
me ne aggiungeva sempre più per vedere che limite avessi. Mi metteva
alla prova per capire quanto serio fossi.
Appurato che
ero estremamente serio, l'avventura iniziò presto, molto presto.
Venni definito
bambino prodigio, in poco riuscii a vincere ovunque partecipassi e
approdai nel 2002 nel torneo ATP.
A 16 anni ero
200esimo.
L'ATP era il
mio primo step, ora che c'ero dovevo scalare posizioni e per farlo
potevo solo vincere. Non importava cosa e come, dovevo vincere
sempre. Chiunque avessi davanti.
Mi nutrivo
vincendo e mi fustigavo perdendo.
Stavo proprio
male, soffrivo nelle sconfitte, gridavo, piangevo, rompevo tutto.
10 mesi dopo
arrivai fra i primi cento.
I primi cento
nell'ATP a sedici anni.
Quando successe
realizzai quanto valeva la pena fare tutti i sacrifici che facevo,
chiesi a mio zio di intensificare gli allenamenti e insegnarmi nuovi
sistemi e tecniche per migliorare dove ero carente e rafforzarmi dove
ero forte. Non importava cosa mi chiedeva, io lo facevo.
Lui è sempre
stato il mio allenatore ideale perchè non è uno sentimentale, a
volte penso non abbia un cuore, per questo era perfetto.
Per qualcuno
esagerava, per altri mi torturava, ma lui si limitava ad
accontentarmi e per me era la sola cosa che contava.
Vincere era
essenziale, vincere era tutto, potevo sopportare qualunque cosa.
Non ho avuto
una vera e propria infanzia come l'hanno tutti gli altri adolescenti,
perchè a 16 anni, a due mesi dai 17, ero sotto i 100 e non ne avevo
abbastanza, avevo sete di posizioni.
Solo che
all'epoca giocavo per vincere, per essere un giorno il migliore,
avevo fame in generale.
La vera svolta,
il vero passo in avanti, arrivò quel giorno.
Non lo posso
dimenticare.
Seguivo molto
il tennis, guardavo le partite dei miei avversari e quelle dei più
forti dell'epoca. Nel 2003, proprio poco dopo il mio arrivo nell'ATP,
Roger scalò la classifica dimostrando di avere tutte le carte in
regola per essere il numero uno. Nel 2003 lui arrivò secondo, a
Gennaio 2004 arrivò finalmente primo.
Il 2003 fu
caratterizzato dal mio studiare il gioco dei migliori, per cui fu
inevitabile ritrovarmi, piano piano, a studiarmi lui.
Poche volte, mi
bastarono poche volte.
Mi innamorai
perdutamente del suo gioco.
Dio mio, lui
danzava sul campo, non giocava semplicemente a tennis.
Vidi la sua
metamorfosi che si trattava nel perfezionamento della sua tecnica,
quando finì l'anno secondo mi dissi che lui sarebbe stato primo per
un sacco di tempo, che la storia del tennis sarebbe stata scritta da
lui.
E nel 2003 lui
vinse appena il suo primo titolo slam, fu Wimbledon, credo che il
destino volle indicare a tutti quale sarebbe stata la sua strada.
Non ci sono
giocatori che sull'erba hanno vinto più di lui.
Ma quella volta
era il suo primo Wimbledon ed il suo primo Slam.
Lo vedevo
giocare e non credevo quanto un giocatore di torneo in torneo potesse
migliorare una tecnica che mi pareva già così perfetta, eppure era
così.
Lui aveva
qualcosa, qualcosa di diverso da tutti gli altri che avevo guardato
giocare.
Lui quando
giocava esprimeva qualcosa in più, lui mostrava la sua anima.
Ed il suo gioco
era sempre più perfetto, come potevo non innamorarmi di lui?
Come potevo non
vedere la perfezione della sua anima?
Come non potevo
perdere la testa per lui?
Algido,
elegante, perfetto e gentile, aperto, allegro, sorridente,
concentrato, mentalmente forte, stabile, equilibrato, sicuro.
Aveva tutto
quello che una persona doveva avere e fu inevitabile per me mettermi
a tifare per lui.
Quando arrivò
finalmente primo a gennaio 2004, dopo aver vinto il suo secondo slam
in carriera, in Australia, feci i salti di gioia per lui.
Come potevi non
adorarlo?
Se lo meritava,
se c'era qualcuno che se lo meritava, era lui.
Per questo
quando finalmente lo incontrai in campo per la prima volta, ero
carico, carico da morire, al settimo cielo.
Chiunque in
quel periodo era terrorizzato da lui, era il numero uno, il più
forte e non aveva punti deboli.
Io ero felice
ed invece di essere nervoso e teso ero carico e concentrato.
Vederlo dal
vivo, di persona, stringergli la mano fu deleterio, la cosa più
bella della mia vita. Non mi ero mai sentito meglio.
Non ne ero
intimidito sebbene fossi timido nella vita normale, quella reale.
Credo che il tennis mi abbia sempre aiutato a tirare fuori quel lato
nascosto di me, quello in cui ero sicuro, battagliero e focoso.
Solo a tennis,
solo in quell'ambito. Per il resto risultavo silenzioso, chiuso,
misterioso e musone.
Inarrivabile. O
forse solo nel mio mondo.
Ma lì ero un
altro e Roger fu il primo a conoscermi sul serio, perchè io volevo
conoscerlo, mi posi a lui con una gioia diversa negli occhi rispetto
a quello che usavo contro gli altri.
Con gli altri
ero serio e concentrato e quando vincevo gridavo come un pazzo, con
lui ero proprio luminoso e speravo di poterci parlare, di conoscerlo.
Lo battei. E
battendolo capii quale sarebbe stato il mio obiettivo.
Il mio
obiettivo sarebbe stato lui.
Arrivare a lui,
al suo posto, al suo livello.
Lui.
Roger,
incontrarlo, fu la mia svolta.
Credo che per
lui fu più stupore che altro, ritrovarsi questo ragazzino
diciassettenne che lo batteva mostrando numeri interessanti, fu
strano, sorprendente.
Una volta
battuto, negli spogliatoi parlammo.
Ci stavamo
cambiando per lavarci e poi andarcene, non sapevo se osare. Uscito
dal campo ero tornato quel ragazzino timido e quando lui vide la
grande differenza, mi chiese se per caso fossi lo stesso di prima.
- In che senso
'sei sempre tu? ' - Chiesi spaesato, mentre mi toglievo la maglia.
- Beh, sul
campo eri un albero di natale, tutto luminoso e agguerrito, ed ora
sei timido e silenzioso. Non sembri proprio tu! - Io ci rimasi, lui
scherzava con me che l'avevo battuto.
Lui era il
numero uno battuto da un signor nessuno e scherzava con me
amabilmente.
Arrossii, credo
proprio che arrossii.
E lui rise.
Balbettai cose
non di senso compiuto e lui rise ancora di più, poi mettendomi una
mano sul braccio disse calmo:
- Non volevo
intimidirti, se è colpa mia scusami. - Con questo si tolse la maglia
anche lui ed io trattenni il fiato dimenticando di respirare.
Si tolse anche
il resto e si infilò sotto le docce che erano in comune, separate da
dei piccoli muretti bassi che dividevano una dall'altra. Non
nascondevano proprio per nulla.
E seguendolo
sotto la doccia, vidi fin troppo bene, ebete come un idiota, quanto
era ben fatto.
Non era il mio
primo nudo maschile, ma era il primo nudo di uno che consideravo
quasi un idolo, il mio obiettivo, la mia vita futura.
E fu lì che
capii che ero gay o quanto meno avevo certe tendenze.
Mi venne
l'erezione, un'erezione da paura e mi girai di scatto senza saper
cosa fare, spaventato dall'idea che la notasse. Quando lui uscii non
ebbi scelta che sfogarmi, non potevo uscire così.
Non mi ci volle
molto, ripensare al suo corpo nudo sotto la doccia fu sufficiente.
Ebbi il mio
primo orgasmo pensando ad un uomo e mi sentii morire, ero gay o
qualcosa del genere, ero impazzito e non avevo scelta che tornare di
là e guardarlo ancora in viso e magari parlarci.
Parlarci?
Dio mio, ma ero
matto?
Avevo
realizzato tutto troppo in fretta, tutto in un attimo. Non sarebbe
certo stato facile affrontarlo e non lo fu, in effetti.
Un conto era
considerare qualcuno un obiettivo tennistico, un altro era esserne
attratto. Un altro ancora era innamorarsene.
Non so se mi
innamorai per via del tennis, del suo gioco che gli invidiavo, per le
caratteristiche caratteriali che invidiavo a sua volta o per cosa di
preciso.
Non ero in
grado di dirlo e non lo sono tutt'ora.
Una sola cosa
era chiara a quel punto.
Ero perso per
lui e volevo raggiungerlo.
In tutti i
modi.
Il modo in cui
mi misi ad adorarlo fu eccezionale, non penso che io abbia mai
adorato qualcuno alla stessa maniera, onestamente.
Uscito dalla
doccia avvolto nel mio asciugamano, lo vidi fortunatamente vestito e
sospirai senza rendermene conto. Si stava pettinando i capelli lunghi
che tendevano a stare mossi, per questo li legava sempre in una coda
bassa.
Anche io li
tenevo lunghi e li avevo mossi, ma non li legavo, mi piaceva averli
selvaggi. Non avevo una gran cura di me, cioè non contava quello.
- Sai, hai
molto talento, devi continuare a lavorare così con questa
intensità... - Mi disse poi appena uscito. Ero sorpreso onestamente,
non mi aspettavo un complimento e mi sentii al settimo cielo.
- Grazie... -
Dissi imbarazzato. - Intendo farlo. L'obiettivo è essere te. - Poi
mi resi conto di cosa avevo detto e rossissimo sventolai la mano. -
Cioè volevo dire il numero uno. Un giorno voglio esserlo. Cioè io
gioco per arrivare in cima, poi quel che sarà sarà! - Roger si mise
a ridere gettando la testa all'indietro ed io rimasi fulminato di
nuovo, senza parole, senza respiro, il cuore in gola. Speravo che
quel momento fosse eterno.
- Hai le idee
chiare! È bello! Mi piacciono quelli ambiziosi! Bisogna puntare in
alto da subito e lavorare a testa bassa a qualsiasi costo. - Cercai
di rilassarmi, ma era difficile se non smetteva di farmi complimenti.
Provai ad asciugarmi, ma risultavo impacciato e così lui commentò
osservandomi incuriosito.
Era più grande
di me di 5 anni quindi penso che si sentisse di un altro mondo, non
lo so bene.
- Comunque
sembri proprio un'altra persona. - Constatò ancora sicuro,
allacciandosi le scarpe senza staccare gli occhi da me. Io mi ero
ormai infilato gli slip e lo guardavo rosso senza riserve.
- Perchè? -
Chiesi.
- Perchè in
campo e nell'ambito del tennis sei tutt'altro. Sicuro, combattivo,
ambizioso, non hai paura di dire quello che pensi e che vuoi e di
dimostrarlo. Ma per il resto sei timido, quasi non osi respirare! -
Dire ad una persona che si era timidi era davvero crudele, quella
persona voleva solo sotterrarsi ed infatti io volevo nascondermi, ma
rimasi sorpreso. Era il primo a capirmi al primo incontro.
Tutti mi hanno
sempre frainteso giudicandomi male in qualche modo. Magari arrogante,
sulle mie, chiuso o diffidente... e poi agguerrito in campo. Però
lui aveva capito bene com'ero invece.
Timido e basta.
Forse fu anche
questo a conquistarmi. Quella capacità di capirmi che non ha mai
avuto nessuno a quel livello.
Eravamo
destinati e non ne avevamo idea di quanto, Roger mi diede qualche
consiglio tennistico in base a quello che aveva visto di me quel
giorno ed io registrai a fuoco nella mente.
Penso che non
credesse in quello che avevo detto. Ovvero che volevo diventare il
migliore.
Erano cose che
tutti volevano, pochi dicevano, rari realizzavano.
Normale che non
ci credesse.
Mi parlò come
se fossi solo uno dei tanti ambiziosi.
Non sapeva, non
sapeva proprio che stava dando dei consigli preziosi al suo più
grande rivale.
Io e lui e poi
Nole siamo la generazione della grande rivalità, una rivalità che
ha dell'incredibile vista da un certo punto di vista.
Fino a quel
momento i grandi tennisti, che comunque nessuno ha mai vinto quanto,
ora come ora, Roger, avevano avuto diversi rivali per un certo
periodo, ma la mia e la sua è quella più lunga in assoluto e la più
accesa.
È incredibile
anche nell'ottica che prima lui è stato rivale con me, poi è
arrivato Nole che a sua volta è stato rivale con me e, quando non lo
era con me, lo è stato con Roger. Noi tre abbiamo dato vita a
qualcosa di unico nel suo genere e farne parte, farne comunque
tutt'ora parte, è semplicemente straordinario.
Se potessi
riscrivere la mia storia, non la riscriverei diversamente da come è
stata.
Nonostante le
delusioni e gli errori, sono contento di tutto, anche delle cadute e
dei no dolorosi.
Perchè ora
sono felice e lo sono alla luce dei momenti positivi e negativi.
Adesso la mia vita non è perfetta, ma sono felice e so che tornerò
a conquistare quello che ho perso e lo so perchè comunque ciò che
ho, ciò che sono riuscito finalmente ad avere, non lo perderò in
alcun modo. Non esiste un modo in cui io possa perdere quello che ho
avuto.