Capitolo
7: Paura e ferite
I nemici sciamavano nella piana
urlando a squarciagola, i cavalli lanciati ad un galoppo sfrenato, i
mantelli di pelliccia ondeggiavano gonfi alle loro spalle simili ad
ali, roteando minacciosamente le sciabole, le cui lame scintillavano
argentee nella pallida luce di quell’alba nebulosa.
Sembravano demoni appena vomitati dall’inferno.
I cavalli dei Teutonici, rigidamente schierati nella pianura in
formazione compatta, iniziarono a scartare innervositi, raspando la
neve con gli zoccoli. I Cavalieri serravano spasmodicamente la presa
sulle else delle spade che stringevano in pugno, le mani ben chiuse
sulla presa dello scudo. Sudore gelido scorreva lungo i volti tirati
dalla tensione e la schiena rigidamente eretta.
Ormai combattevano da mesi contro quei barbari violenti e sanguinari,
ma l’effetto che scatenavano era sempre terrificante. Non
sarebbero mai riusciti ad abituarsi a quelle apparizioni. Il generale
Böll si volse indietro, il suo alto cimiero bianco
ondeggiò contro il vento che spazzava la piana. Percorse con
il suo sguardo d’acciaio i cavalieri schierati dietro di lui,
sondando i loro stati d’animo e cercando di infondere in loro
quella calma glaciale che li distingueva tra i cavalieri di Dio.
I Mongoli erano a pochi passi da loro, sempre più
minacciosamente reali.
Il cavallo di Hans scartò di lato scuotendo la criniera
irrequieto. Il Cavaliere si chinò appena
sull’animale battendo delicatamente il palmo della mano sul
lato del collo, cercando di calmarlo.
Se i cavalli si fossero lasciati prendere dal panico, sarebbe stata la
loro fine. Nella loro fuga impazzita, i cavalli avrebbero scompaginato
gli schieramenti, gettando i cavalieri nel caos. Nella confusione che
sarebbe seguita sarebbe stato difficile riorganizzare e serrare i
ranghi per fronteggiare l’urto nemico, sarebbero stati facili
bersagli alla loro mercé.
Il cavallo sembrò calmarsi, continuando solo ad agitare la
testa ed a sbuffare per le narici di tanto in tanto. Quindi Hans si
concesse di lanciare uno sguardo al suo allievo, in groppa al destriero
accanto al suo.
Peter se ne stava seduto in sella, rigidamente eretto, i tratti del
volto sotto l’elmo tesi ed angosciati, la presa
sull’impugnatura della spada disperata, lo scudo schiacciato
contro il proprio corpo. Non riusciva a capire perché ma
quella volta il moccioso era ancora più nervoso del solito.
Una ciocca bionda, sfuggita all’elmo, baluginò
nella luce opaca ed il Cavaliere sorrise appena. Il loro rapporto era
cambiato dopo quel bacio: si erano scoperti a cercarsi costantemente,
si erano ritrovati stranamente più uniti, come se il
legaccio che li aveva legati l’uno all’altro fin
dal primo incontro si fosse stretto improvvisamente, rendendoli
repentinamente dipendenti l’uno dall’altro.
Accadeva sempre naturalmente, istintivamente. Nella penombra della loro
tenda ognuno cercava di dedicarsi alle proprie faccende, cercando di
resistere all’attrazione reciproca, lanciandosi qualche
sguardo di sottecchi, che l’altro sentiva scorrere bollente
su di sé; ancora irrigiditi nelle convinzioni che aveva
inculcato loro la società in cui vivevano, cercavano ancora
di resistere, di negarsi, di fuggire all’altro, di salvare
quel poco di anima che ancora restava loro. Ma quando quel bisogno
dell’altro cresceva fino a diventare assoluta
necessità, quasi sofferenza fisica, si scambiavano una sola
occhiata ed ognuno abbandonava quanto stava facendo avvicinandosi
all’altro, lentamente, come per darsi un’ultima
possibilità di riflettere su quanto stavano facendo e
scappare prima che fosse troppo tardi; poi Hans si perdeva in quegli
occhi blu, animati dalle mille scintille dorate della lucerna, che lo
fissavano desiderosi ed angosciati, sicuri e persi, esatto riflesso dei
suoi. A quel punto non c’era più spazio per altro.
Con un soffio spegneva la fiammella della lucerna, la cui luce
delineava le loro sagome scure contro la tela della tenda, rivelando
all’esterno le loro mosse, e stringeva il corpo fragile di
Peter contro il suo. Abbandonandosi completamente a quelle labbra. In
quei momenti dimenticavano ogni prudenza, l’unica cosa reale
era il corpo caldo dell’altro premuto contro il proprio, che
percorrevano febbrilmente con le mani, come se volessero imprimerne
ogni forma nella memoria tattile della pelle, e le labbra
dell’altro che divoravano le proprie. Non erano mai andati
oltre quei baci e qualche carezza un po’ più
audace, ma tanto sarebbe bastato a condannarli al rogo senza
possibilità di salvezza. Quel pensiero aveva sempre il
potere di far ritornare Hans in sé, di fargli domandare cosa
stessero facendo, se tutto quello valeva il rischio; la sua anima non
avrebbe mai sopportato l’immagine di quel corpo dolce
divorato dalle fiamme, dopo aver sopportato indicibile torture ed
ingiurie dai carcerieri. La sua coscienza riusciva a trascinarlo fino
al bordo del precipizio, quasi a portarlo a prendere la decisione di
chiudere tutta quella storia assurda e scappare via da quel moccioso.
Ma poi bastava che si svegliasse con il corpo morbido e caldo di Peter
rannicchiato contro il suo fianco, con il suo volto premuto contro il
suo collo, le labbra che gli sfioravano la pelle ad ogni respiro, e
quei capelli d’oro che gli solleticavano le guance, un suo
braccio che gli stringeva possessivo la vita e quel suo profumo di neve
e pino che sembrava impregnargli tutto il corpo fino a fargli perdere
la ragione, per ricordargli che ormai non poteva più tornare
indietro, che non sarebbe mai riuscito a sopravvivere lontano da lui:
quel moccioso gli era diventato semplicemente indispensabile.
Come se avesse sentito lo sguardo del proprio maestro su di
sé, Peter volse i suoi occhi tormentati verso di lui. Aveva
paura, una paura folle, la sentiva scorrere come acido dentro le sue
vene insieme al sangue. Non di morire, quella paura l’aveva
superata da tempo, come anche il terrore per i supplizi che la sua
anima avrebbe dovuto subite per tutta l’eternità,
quello che temeva davvero era di essere d’intralcio al suo
maestro. Aveva affrontato molte battaglie da quando era giunto in
quella terra bardato della croce nera dei Teutonici, ma era ancora un
novizio, indubbiamente abile con la spada, ma, altrettanto
indubbiamente, inesperto negli scontri. Non sapeva ancora destreggiarsi
bene fra nemici che lo attaccavano da ogni lato e spesso Hans aveva
dovuto intervenire rischiando la vita uscendone gravemente ferito. Quel
legame che si era creato quasi istantaneamente tra loro, con quello che
avevano iniziato a condividere nelle ultime settimane, si era
rinsaldato. Non sapeva se fosse una sensazione solamente sua, ma dopo
la sua decisione di accettare e condividere con Hans i propri
sentimenti, sentiva come se l’altro fosse diventato la
metà mancante della propria anima, quel qualcosa
a cui era stato destinato fin dalla nascita, il fine ultimo della sua
esistenza. Non sarebbe mai più riuscito a sopravvivere senza
quell’uomo forte che nascondeva la propria indole generosa
dietro un atteggiamento scostante; quell’uomo dalla
corporatura imponente, che lo stringeva tra le proprie braccia come se
fosse fatto di sottile vetro, che gli faceva sciogliere
l’anima ed il corpo, la ragione ed il cuore, con un semplice
bacio. Quell’uomo che per primo non gli aveva fatto percepire
come una colpa il proprio aspetto, che non lo faceva sentire un demone
venuto dall’Inferno per dannare gli uomini: quelle mani forti
e grandi, calde e ruvide, scivolavano su di lui come se fosse un
oggetto prezioso, la cosa più importante sulla faccia della
terra.
Scrutò a lungo quegli occhi seri ed impavidi, lasciando che
il color noce si fondesse con quello del mare, e per la prima volta
qualcosa dentro di sé si contorse, provocandogli una fitta
strana ma non dolorosa al basso ventre, facendogli battere il cuore
allo stesso ritmo di quel desiderio sconosciuto e violento che si stava
formando nella sua anima. In modo confuso sapeva di volere quel corpo
nudo sul proprio, quelle mani e quelle labbra sulla propria pelle. Di
volere Hans. Per la prima volta Peter sperimentò cosa
volesse dire desiderare davvero una persona.
Ed Hans, vedendolo così smarrito, fece qualcosa che prima
non avrebbe mai fatto, per nessun altro: in qualche modo profondo ed
ancora sfuggente Peter era riuscito a cambiarlo, almeno un
po’. Le sue labbra lentamente si schiusero in un timido
sorriso d’incoraggiamento, che sorprese piacevolmente il suo
allievo, facendogli battere più forte il cuore. Peter
ricambiò ed il sorriso che gli schiuse le labbra gli
illumino il volto e gli occhi, rendendolo una visione di una bellezza
irreale e dolorosa.
Quello scambio di sguardi e sorrisi non sfuggì ad un paio di
attenti occhi acquamarina, un paio di file dietro di loro, che si
illuminarono di lampi di compiacimento e malizia. Gustav Lammer sentiva
la vittoria sempre più vicina. Intanto i Mongoli erano
arrivati quasi addosso ai Teutonici. Il generale sollevò la
mano, intimando loro di restare ancora immobili, di lanciarsi contro il
nemico solo al suo ordine.
Hans distolse lo sguardo dal suo allievo riportandolo davanti a
sé, sollevò la mano che stringeva
l’elsa della spada e con due dita abbassò
l’ampia visiera protettiva. Peter lo fissò ancora
per qualche secondo, riempiendosi l’anima e la mente della
sicurezza e calma che gli trasmetteva quella figura imponente e salda.
Con il volto coperto dalla spessa visiera tornò a guardare
davanti a sé, pronto finalmente allo scontro.
Poco prima di impattare contro gli scudi dei Cavalieri, i guerrieri
Mongoli si aprirono a ventaglio, aggirandogli e passandogli accanto,
accerchiandoli. Arrivati alle loro spalle volsero di scatto le proprie
cavalcature ed iniziarono a colpire, in contemporanea con gli altri che
li stavano attaccando sui fianchi, i Teutonici che, presi alla
sprovvista da quella manovra, non erano ancora riusciti a reagire.
Uomini e cavalli smembrati, morti ancora prima di aver capito cosa
stesse accadendo realmente, iniziarono a ricoprire la neve,
già venata dal rosso cupo del sangue fumante. Il generale
Böll urlò a squarciagola gli ordini, cercando di
riscuotere i suoi Cavalieri paralizzati dal panico, che muovevano
disordinatamente spada e scudo, mancando i nemici e lasciando scoperti
i corpi alle lame nemiche. Quando il primo Mongolo cadde a terra
ucciso, più per l’istinto di sopravvivenza del
Cavaliere che per vero e proprio spirito bellico, gli altri sembrarono
scuotersi dal torpore che li aveva avvinti: rinsaldarono la presa sulle
else, sollevarono gli scudi contro il petto ed iniziarono a menare
fendenti letali e precisi. Il sangue scorreva in rivoli fumanti sul
candore della neve, i cavalli calpestavano con i propri zoccoli i
caduti, vivi o morti che fossero, urla disumane vibravano
nell’aria cristallizzata dal freddo, infrangendola. Anche
quel giorno il Sole aveva preferito nascondere alla propria vista quel
massacro dietro spessi strati di nubi, che davano alla luce un colorito
opaco e nebuloso.
Lo scontro si trascinò per buona parte della giornata,
sempre più cruento man mano che la corsa del Sole nel cielo
declinava. I Cavalieri Teutonici che cadevano non potevano essere
sostituiti, quindi il loro numero si assottigliava ad ogni assalto; i
Mongoli, di contro, erano sempre più numerosi, per ognuno
che moriva ne erano pronti altri tre. I Cavalieri erano stanti ed
affamati, gli scudi pesavano come macigni contro le braccia, ed il
sangue che sprizzava dalle ferite inferte li ricopriva dalla testa ai
piedi, scivolava sulla pelle accaldata dalla fatica, mischiandosi con
il sudore in grumi densi e viscosi.
Dalla quarta linea Hans e Peter erano passati a combattere alla prima,
sempre fianco a fianco. Il Cavaliere, seppur concentrato sui nemici che
stava affrontando, cercava sempre di mantenere Peter al margine del suo
campo visivo, era l’unico modo per controllarlo e cercare di
sentirsi sicuro.
Poi accadde tutto in lampo.
I guerrieri Mongoli attaccavano Peter solo di fronte, lasciando
scoperti i lati e le spalle. L’ultimo guerriero cadde sotto
un fendete del ragazzo, che si fermò un istante per
riprendere fiato e far riposare le braccia intorpidite. E
quell’attimo di distrazione gli era stato fatale. Uno dei
nemici lo aveva notato ed aveva immediatamente spronato il cavallo, la
sciabola già sollevata per colpire e prenderlo di sorpresa.
Con la coda dell’occhio Hans aveva visto il Mongolo caricare
contro il suo allievo che, di spalle, non si era reso conto del
pericolo che stava correndo. Con alcuni veloci fendenti il Cavaliere si
era liberato dei nemici che lo stavano assediando e si era lanciato
verso Peter: la furia gli aveva gonfiato le vene del collo ed
annebbiato il cervello, tutto quello che riusciva a pensare era che
doveva difendere quel moccioso che nel mezzo di un combattimento si era
permesso il lusso di fermarsi e distrarsi. Non avrebbe mai permesso che
quel demone orientale gli torcesse un solo capello. Peter era solo suo.
Hans arrivò quasi in contemporanea con l’altro
guerriero, diede una spallata al ragazzo per spingerlo via e questo gli
costò istanti preziosi, che avrebbe potuto usare per
mettersi in guardia: la lama nemica gli trapassò la spalla
da parte a parte, il sangue eruppe dalla ferita in caldi schizzi
spumosi che fluttuarono un istante nell’aria, come decine di
perle rosse, prima di ricadere verso il basso. Il cavaliere represse un
urlo tra i denti serrati. In un ultimo sforzo disperato
sollevò la mano che reggeva la spada, sentendo i muscoli
della spalla gridare di dolore, e colpì il guerriero alla
gola, aggiungendo altro sangue a quello già versato.
La vista di Hans cominciò ad oscurarsi, indebolito
dall’emorragia, barcollò pericolosamente e cadde a
terra, la neve gli solleticò gelida e piacevole la pelle
arroventata e sudata del collo. L’ultima cosa che vide prima
di sprofondare nel buio dell’incoscienza fu il volto
scarmigliato e spaventato, in lacrime, di Peter sul suo. Avrebbe voluto
dirgli qualcosa, rassicurarlo che sarebbe andato tutto bene, ma non
riuscì a trovare le labbra. Poi il mondo scivolò
via dai suoi sensi e rimase solo il nulla.
Intorno a lui la battaglia continuò ad infuriare
indifferente.
Non sapeva quanto tempo fosse passato quando la sua coscienza riemerse
aggranchita dal limbo buio e viscoso in cui era sprofondato. Hans
sentiva la testa pesante ed impastata, una fastidiosa sensazione di
denso torpore ad invadergli le membra, un sapore amaro nella bocca che
sembrava foderata di pelo. I suoi occhi confusi incrociarono la trama
di tela del tetto di una tenda, ma il suo cervello ancora poco
recettivo non riuscì a fornirgli alcuna indicazione di dove
fosse e cosa fosse accaduto. Fece per alzarsi, ma due mani sottili lo
spinsero con gentile fermezza indietro. Sollevò uno sguardo
contrariato ed incrociò il volto di Peter. Notò
subito che era scavato, di un pallore malato, le occhiaie deturpavano i
suoi stupendi occhi cobalto, arrossati per il pianto; sembrava che non
avesse dormito da giorni.
- Cos’è successo?- chiese quindi con voce roca ed
impastata.
Il ragazzo sorrise felice nel vederlo di nuovo sveglio, sentendo il
senso di colpa dissolversi un po’.
- Mi hai salvato la vita e sei rimasto ferito. Sei rimasto quattro
giorni tra la vita e la morte, divorato dalla febbre. Il medico
militare disperava che ti potessi salvare.- rispose con un timido
sorriso.
Il cavaliere annuì mentre il suo cervello ritornava
lentamente a collaborare: ricordava quel maledetto caricare contro
Peter, rivedeva se stesso liberarsi dei suoi nemici e correre a
salvarlo, riassaporava il sapore dell’impazienza e
dell’angoscia. Poteva sentire ancora quella corrente
turbinare dentro di lui, squassarlo, ordinargli di non farlo morire.
- Perdonami!- la voce bassa ed incerta di Peter attrasse la sua
attenzione.
Hans volse lentamente la testa verso di lui, trovandolo a testa china,
tremante e rattrappito su se stesso come se fosse schiacciato da un
grosso peso. I capelli stopposi ed arruffati gli ricadevano
disordinatamente sul viso, velandolo alla sua vista. Sicuramente stava
nuovamente piangendo.
Non sentendo il suo maestro rispondere, Peter si rannicchiò
ancora di più su se stesso, soffocando i singhiozzi che gli
stavano scuotendo il petto. La paura di averlo perso per sempre, di
essersi guadagnato il suo rancore con la sua inesperienza e
sconsideratezza, gli strinse il cuore in una morsa gelida e soffocante.
Prese un profondo respiro e si impose di continuare, di spiegarsi per
non permettergli di allontanarlo: in quelle interminabili ore in cui lo
aveva vegliato, in cui lo aveva visto immobile e rigido come se fosse
morto, aveva compreso che senza di Hans non era nulla, non sarebbe mai
riuscito a sopravvivere se lui l’avesse abbandonato li, da
solo, che il suo maestro era diventato troppo importante per lui. La
sua colpa ed il biasimo del suo maestro gli pesavano sul petto come
massi arroventati.
- Perdonami! – ripeté con sforzo maggiore
– E’ tutta colpa mia! Se io non mi fossi fermato,
se io fossi stato attento… non…
abbandonarmi… non a… ti prego… - la
voce gli sfumò in un disperato tremolio –
Perdonami!- lo implorò sempre più disperato.
Hans lo osservò: non l’aveva mai visto
così fragile, sembrava sul punto di infrangersi. Con le
poche forze che gli restavano, il Cavaliere
l’afferrò per un braccio e lo trascinò
verso di sé, stringendoselo contro. Ignorando le fitte che
gli provocava la ferita, sollevò la testa fino ad incontrare
le labbra di Peter con le sue. Hans non era bravo con le parole, non
aveva mai avuto bisogno di usarle, non ne aveva mai sentito il bisogno.
Non si era mai trovato nella situazione di dover consolare una persona,
non sapeva come potesse fare. Tutto quello che riusciva a comprendere
era che i suoi soliti gesti bruschi e goffi non sarebbero bastati. Per
questo lo aveva baciato, un bacio calmo, denso e dolce, pieno di tutti
i sentimenti che provava per lui; quello era il solo modo che aveva
trovato per potergli dire che andava tutto bene, che non aveva nulla di
cui preoccuparsi, che contava troppo per lui per poterlo abbandonare
per una simile sciocchezza.
Era al suo fianco e ci sarebbe rimasto finché lo avesse
voluto!
Tra tutte le reazioni che Peter aveva ponderato, quella era sicuro
quella che aveva la minor possibilità di realizzarsi.
Già si vedeva quello sguardo gelido addosso che gli ordinava
di non farsi mai più vedere perché era stufo di
badare ad un simile impiastro. Invece Hans lo stava stringendo forte
contro di sé, come se non volesse lasciarlo mai andare via.
La sua bocca scivolava sulla propria nel bacio più dolce che
avesse mai assaporato. Le lacrime iniziarono a pungergli
l’angolo degli occhi. Guidato dalla disperazione e dal
sollievo che gli stavano impregnando il corpo in
quell’istante, Peter sollevò le mani portandole al
volto del suo maestro, premendogli i palmi sulle guance, artigliandogli
i capelli con le dita, stringendoselo sempre di più contro.
Non aveva alcuna importanza il luogo in cui erano, che chiunque potesse
entrare e sorprenderli, la minaccia delle fiamme che li avrebbe uccisi;
esistevano solo loro, tutto il resto del mondo con i suoi orrori ed
abitanti era scivolato via, sfumato e scomparso. In quel momento Peter
comprese che quello che lo legava al Cavaliere non era un semplice legame,
un bisogno profondo della presenza dell’altro, ma era amore,
nel senso più vero e profondo del termine. Era innamorato di
Hans, pensò soffocando una risata isterica. E lo aveva
capito solo nel momento in cui si era ritrovato sul punto di perderlo.
Si allontanò dalle labbra del proprio maestro e gli
carezzò il volto con il proprio, gioendo del calore di
quella pelle, prova inconfutabile che fosse ancora vivo;
inspirò a lungo l’odore forte di Hans,
quell’odore di terra e vento che aveva il potere di
rilassarlo e scacciare tutta la tensione. Si allontanò quel
tanto che gli consentisse di guardarlo negli occhi: si scrutarono a
lungo, in un muto discorso fatto di sguardi che sapevano comunicare
più delle parole.
Il rumore pesante di passi cadenzati sull’impiantito di terra
battuta dell’accampamento li scosse, facendo ricordare loro
che non erano soli, che erano circondati da un esercito di Cavalieri.
Peter si allontanò da lui, riguadagnando la sua posizione
eretta sullo sgabello, un istante prima che il medico militare entrasse
nella tenda. L’uomo fu piacevolmente sorpreso di trovare Hans
sveglio e cosciente.
- Avresti dovuto chiamarmi subito!- rimproverò Peter con
tono aspro.
- Chiedo venia!- rispose l’interpellato chinando in capo.
Il medico brontolò ancora qualcosa d’
incomprensibile all’indirizzo dell’apprendista, poi
finalmente si dedicò al Cavaliere. Lo visitò
accuratamente, esaminando con scrupolo la ferita, tastandogli il corpo,
trovando la sua pelle stranamente calda.
- Sei stato molto fortunato, pochi sarebbero sopravvissuti ad una
simile ferita. – spiegò mentre si sciacquava le
mani in un catino – Con quella ferita non puoi più
continuare a combattere, quindi, appena sarai in grado di viaggiare,
tornerai al castello. – si fermò un attimo come se
dovesse ricordare qualcosa che aveva dimenticato – Il
generale ha dato ordine che partisse anche lui – ed
indicò Peter con un gesto sprezzante del capo – Si
è comportato discretamente, ma è solo un
apprendista, e visto quello che ha combinato… beh, in
sostanza non lo vuole tra i piedi!- .
Hans sospirò di sollievo a quelle parole: non sarebbe mai
stato tranquillo a lasciare quel moccioso da solo su un campo di
battaglia, non dopo l’inesperienza che aveva
dimostrato…
… Mentre spronava il suo cavallo disperatamente per
raggiungerlo, si era ritrovato a riflettere su quanto sarebbe stato
brutto e spoglio il mondo senza di lui, su quale gelido vuoto avrebbe
lasciato dietro di sé, dentro di lui.
Voleva Peter sempre accanto a sé, dove avrebbe potuto
proteggerlo.