Note: Mi sono appassionata alla storia di Ipazia quando Natale scorso mia sorella mi ha regalato il libro. La sua vicenda tragica, che fa comprendere a fondo quanti errori l’uomo abbia fatto nel corso del tempo, quanto abbiamo perso. E quando è uscito il film, sono stata strafelice. La storia è la stessa, l’unica differenza è il ruolo del ragazzo. Nel libro è uno dei suoi studenti, innamoratissimo di lei, che resterà al suo fianco fino alla morte. Ma anche il personaggio dello schiavo mi ha attratta particolarmente, con la sua anima lacerata a metà tra il suo amore per Ipazia e il suo desiderio di stare lontano da lei.
L’altra sera stavo guardando “Agora” in dvd e mi è venuta l’idea per questa fic. Volevo raccontare i pensieri di Davo quando mentre indossa per la prima volta gli abiti da parabolato. È una shot senza alcuna pretesa, nata per caso, che si è scritta da sola e di getto. Spero quindi di aver fatto un lavoro decente.
Ringraziamenti: Ringrazio tutti coloro che leggeranno e commenteranno questa fic.
Adesso vi lascio alla lettura, alla prossima gente \^O^/


Il velo nero dell’inganno


Indossi la casacca sopra le corte brache, con gesti lenti e misurati, come se volessi prenderti tutto il tempo di cui hai bisogno, per quello che credevi essere un rito sacro che ti avrebbe aiutato a capire davvero chi sei, a trovare un posto nel mondo tutto tuo, quando tutto è andato irrimediabilmente perduto. La lana è grezza e ruvida, punge in modo fastidioso sulla tua pelle, così diversa dalle tuniche di lino che indossavi quand’eri ancora uno schiavo. Guardi i poveri abiti che indossi e ti sembra che il loro colore nero possa inghiottire e cancellare l’abbacinante candore che l’avvolgeva sempre.

Lei ti ha sempre fatto pensare alla luce del sole, con la sua pelle lattea e gli abiti chiari che ama tanto indossare. Si muove tra gli scaffali della biblioteca o per le strade di Alessandria leggera e aggraziata, come se non avesse peso, come una nuvola di luce che illumina tutto ciò che la circonda. A volte, mentre la osservavi di nascosto meditare sulle sue teorie al chiarore delle lucerne, che coloravano la sua pelle di pennellate d’oro, ti sembrava quasi un essere non di questo mondo. Nessuna donna può essere paragonata a lei.
Usciva dalla vasca da bagno, mostrando senza alcuna vergogna il corpo nudo e perfetto, rigato da rivoli traslucidi d’acqua, in cui la luce delle torce si scioglie in mille scintille. E ti sembrava così simile a una dea.
E tu non potevi fare a meno di guardarla, di riempirti la mente e il cuore della sua bellezza irreale, mentre l’altra serva accorreva con i teli per asciugarla. Tamponavi la sua pelle piano, come se Ipazia fosse fatta di un materiale fragile che potrebbe rompersi se solo la toccassi con più forza. Lei restava ferma sotto le tue mani come una gigantesca bambola, persa nelle sue riflessione, come se tu non esistessi, come se non fossi diverso da uno dei soprammobili che adornavano la stanza.
E tu invece avresti fatto qualsiasi cosa per lei, avresti dato qualsiasi cosa per poterla amare come desideri e immagini tutte le notti, steso sul tuo misero pagliericcio, negli alloggi degli schiavi. Ipazia che era calda e profumata accanto a te. Ipazia per cui vivi, respiri e pensi. Ipazia che ami alla follia e senza cui non potresti esistere.
Ma i tuoi sono solo gli sciocchi sogni di uno schiavo. Avresti continuato instancabilmente a starle accanto mentre tiene le sue lezioni, a raccogliere il fazzoletto che lascia cadere per dimostrare le sue teorie, ad ascoltare la melodia della sua voce immaginando che parli solo per te, invisibile come un oggetto inutile gettato in fondo a una stanza, a cui non si presta attenzione.


Prendi i crocefissi di legno per la corda a cui sono legati e li osservi. Hai abbracciato la fede cristiana e sei diventato un parabolato, hai creduto alle parole di Ammonio, a quella promessa di perdono e pace su cui si fonda la nuova religione. Padroni e schiavi non esistono per i cristiani. Tu sei un uomo libero ora, con un proprio posto e un proprio scopo nel mondo. E poco importa se i tuoi confratelli sono rozzi ignoranti che usano la Parola di Cristo come pretesto per attacchi e rappresaglie, non solo verbali. Almeno ti permettono di continuare a vivere nel Sarapeion, nel luogo dove hai vissuto tanto tempo con lei, l’unico in cui sei stato davvero felice.
Chiudi gli occhi e infili al collo i crocefissi, ti sembrano che pesino come blocchi di pietre.

E ti sembra di tradire Ipazia.
Ti sembra di tradire la donna che tanto devotamente hai servito. Ti sembra di tradire la donna che insegnava agli studenti della scuola di Teone l’arte di pensare, del riflettere.
Ipazia è nata per lo studio, è il fulcro della sua esistenza, la ragione stessa per la quale è venuta al mondo. Lei non si limita a ripetere teorie formulate da altri, ma ne elabora di sue, avvicinandosi ogni volta di un passo alla verità.
Ipazia non avrebbe mai accettato di convertirsi al cristianesimo, di abbracciare questo nuovo dio che sembra più imporre la sua presenza che cercare gruppi di fedele a cui parlare. Lei è ragione, non cieca subordinazione. Non potrebbe mai piegarsi a una religione che le vieta di mettere in discussione ciò che le viene presentato come verità assodata e indiscutibile, di cercare altre vie oltre quella così rigidamente tracciata.
Ipazia avrebbe indagato con lucida logica, scavando fino a raggiungere le fondamenta della religione, strappando un velo dietro l’altro fino a quando non sarebbe rimasto sola solo la verità, nuda e pura sotto tutte le menzogne di cui l’ammanta l’uomo per piegarla ai propri bisogni.
Tu invece hai accettato volontariamente di renderti cieco e sordo, rinunciando a quella logica che qualche volta hai cercato di dimostrare di possedere.


Prendi la cappa anch’essa di lana grezza e nera, la avvolgi attorno alle spalle e ti copri il capo. Più che a un cavaliere di Dio, in questo momento ti senti più un emissario della morte. Hai accettato quella vita perché ti ha dato uno scopo per cui vivere lontano da lei. Ancora non sai se ci credi davvero nella vostra missione, ma quel giorno in cui hai distribuito il pane agli affamati e hai visto le loro mani tese e le loro espressioni riconoscenti, ti sei sentito bene. Hai fatto qualcosa non perché era un ordine del tuo padrone, ma perché lo volevi tu, era un tuo desiderio. Per la prima volta non ti sei sentito un’entità astratta, ma un essere vivo e reale.
E quando l’incanto si è spezzato, quando Ipazia ti ha liberato è da loro che sei venuto. Hai ricordato quella emozione totalizzante e sei diventato un parabolato. Anche se questo ti ha allontanato definitivamente da lei.

Quando hai avvolto il capo con quel velo nero, ti è sembrato di aver scavato un fossato invalicabile tra te e lei, di aver tranciato definitivamente quel legame che ti univa a lei. Eppure non siete mai stati vicini, se non nella tua fantasia. Ipazia è simile al vento d’inverno, imprevedibile e inafferrabile. Quando credevi di esserle arrivato vicino, di averla finalmente raggiunta, lei scivolava via dalle tue dita e volava lontano.
Tuttavia ci sono stati dei momenti in cui l’hai sentita vicina come mai avresti creduto. Quando ha pulito i segni delle frustate di suoi padre, che più che un illustre matematico a volte sembrava un vecchio sciocco e ottuso. Puoi ancora sentire i suoi tocchi delicati sulla tua pelle, come se fossero incisi sulla tua pelle più a fondo delle cicatrici delle frustate.
E quando ti guardava con i suoi occhi neri e dolci, soddisfatta perché avevi fatto una domanda, un commento arguto che nessuno dei suoi studenti avrebbe mai posto, riusciva a farti sentire speciale, importante. Quando seduta al tuo fianco sui gradini della biblioteca osservava le stelle, sperando di capire il moto e la struttura dell’universo, ti sei sentito come se ti avesse visto, come se avesse visto te come uomo e non come il suo schiavo. E hai creduto finalmente che avesse iniziato ad apprezzarti, a prenderti in considerazione, a ritenerti un uomo dotato di intelletto e non un oggetto muto e stupido.
Per questo, quando si è rifiutata di ascoltarti e ti ha dato dell’idiota, qualcosa dentro di te si è spezzata, come un vetro rotto che non può più essere rimesso insieme. Ti sei unito ai cristiani che stavano assaltando la biblioteca e hai fatto crollare la statua del dio Serapide. Mentre mostravi il suo arto amputato alla folla urlante e inferocita, ti sei sentito vendicato del torto subito da Ipazia, anche se qualcosa dentro di te aveva continuato a sanguinare.


E sanguina tutt’ora. Un’emorragia di sentimenti che non si può arrestare, che strappa un po’ di te stesso ogni giorno di più. Ma tu fai finta di niente, la ignori e continui ad andare avanti.
E speri che quel nero di cui ti sei ammantato cancelli il ricordo della donna che ami e ti liberi davvero, perché finché lei abiterà nei tuoi pensieri, tu sarai sempre lo schiavo che la serviva alla biblioteca. E nessuna prigione ti sembra più dura e dolce di questa.
Ti fermi un attimo, chiudi gli occhi e trai un respiro profondo. Quando risollevi le palpebre sei pronto a ingannare te stesso e gli altri. Esci da quella che una volta era stata la biblioteca del tempio di Serapide e raggiungi i tuoi confratelli, voltando le spalle a te stesso e ai tuoi ricordi.
Ipazia è come un’ombra che segue i tuoi passi.