Secondo
passo
Il cuore di Charlie iniziò a battergli
furiosamente nel petto, appena suo fratello gli ebbe spiegato
perché lo avesse fatto chiamare. Quella mattina il furgone
che stava trasportando Colby, Carter ed altri detenuti in un nuovo
carcere era stato assaltato e, chissà come, l’ex
poliziotto era riuscito a liberarsi dalle manette ed a fuggire insieme
al suo amico. Don stesso, al comando di una piccola squadra, era
riuscito a raggiungerli ed ad inseguirli per un tratto, ma li aveva
persi nella stazione della metropolitana. Ed ora suo fratello voleva il
suo aiuto per ritrovare i due fuggitivi.
Speranza e preoccupazione montarono violentemente dentro Charlie,
perché se Colby fisicamente era libero dalle catene con cui
lo avevano ammanettato, non lo era dai capi d’accusa che
continuavano ad accumularsi sulla sua testa. Tutti i poliziotti della
città li stavano inseguendo e non si sarebbero fermati fino
a quando non li avessero riacciuffati.
Strinse forte la presa sulla cinghia del suo tascapane, mentre un nodo
gli serrava lo stomaco al pensiero di dover far parte della squadra che
avrebbe dato la caccia a Colby. Una parte di lui era consapevole che doveva
aiutare suo fratello, che non aveva alternative, ma l’altra,
quella disperatamente innamorata, voleva lasciare
Colby libero. Guardò il monitor alle spalle di Don, dove
campeggiava un fotogramma dei due evasi tratto dal video di
sorveglianza della metropolitana. Ignorando Carter si
concentrò completamente su Colby. I tratti puliti del suo
volto evidenziati ed esaltati da un filo di barba incolta, occhiali da
sole a nascondere l’azzurro brillante dei suoi occhi ed un
berretto di lana in testa. Al posto dei soliti completi classici ora
indossava una canotta bianca e dei jeans sdruciti. La sua naturale,
virile bellezza veniva risaltata da quell’aspetto trasandato
e ruvido.
Quello è il mio uomo!
Realizzò all’improvviso il professore, come
colpito da una folgorazione, ed una strana calma prese a dilagare nel
suo corpo, calmando i battiti del suo cuore e facendo riprendere al
cervello il suo normale funzionamento. Ora sapeva cosa doveva fare.
Avrebbe aiutato suo fratello a ritrovare Colby, ma non
perché potesse rinchiuderlo nuovamente in un carcere, ma per
quel ti amo che gli aveva sillabato nel loro ultimo
incontro, per quello che quell’uomo rappresentava per lui e
per poterlo riavere di nuovo per sé.
Riportò lo sguardo su suo fratello e prese a spiegare quale
teoria matematica lui, Larry ed Amita avrebbero potuto utilizzare per
ritrovare Colby e Carter.
- Perfetto! Mettetevi al lavoro allora!- gli ordinò prima di
dedicarsi ad altri compiti.
Charlie serrò i denti, si liberò del tascapane e,
dopo aver preso il pennarello, iniziò a scrivere
freneticamente sulla lavagna trasparente, immergendosi completamente
nell’analisi che stava costruendo.
Non sapeva quanto tempo fosse passato dal momento in cui avevano
iniziato a lavorare, quando sentì il proprio cellulare
squillare.
- Pronto?- chiese il matematico.
- Charlie, sono io, Colby.- gli rispose dopo qualche secondo una voce
dolorosamente familiare.
- Perché hai chiamato me?- domandò ancora,
spiegando a gesti ai suoi amici con chi stesse parlando.
- Devo parlare con Don, ma il suo cellulare è certamente
sotto controllo, il tuo invece è sicuro.- spiegò
rapidamente, sembrava avere fretta.
- Te lo passo!- replicò il matematico piuttosto deluso ed
irritato da quella risposta.
Per un istante aveva sperato che avesse chiamato per lui, per dirgli
che stava bene e spiegargli cosa stesse accadendo.
- Charlie? – lo richiamò l’altro appena
prima che allontanasse il cellulare dal proprio orecchio – Ti
amo!- sussurrò l’ex poliziotto.
Charlie socchiuse gli occhi permettendo a quel tono di voce dolce e
profondo di penetrare sotto la sua pelle, squassandolo fin dentro le
viscere. Per un istante fu come se fosse ritornato ad una di quelle
mattina in cui si svegliava al suo fianco, con Colby che gli
accarezzava il volto con la punta delle dita e lo guardava con una
bella espressione soddisfatta, per poi chinarsi su di lui e
bisbigliargli che lo amava sulle labbra appena prima di baciarlo.
- Anch’io!- cercò di rispondere il professore
incespicando nelle parole per il nodo che l’emozione aveva
stretto alla sua gola.
In quel momento non poteva dire altro, ma il desiderio di poterlo
guardare nuovamente negli occhi senza nessuna recinzione a dividerli e
dirgli ancora una volta che lo amava, si tramutò in fuoco
liquido e gli incendiò il sangue. Osservò suo
fratello parlare al cellulare con Colby, cercare di trattenerlo per
dare tempo ai tecnici di rintracciarlo. Lo avrebbe trovato. A qualsiasi
costo avrebbe trovato l’uomo che amava ed avrebbe chiarito
quella situazione.
Colby poggiò la nuca contro la sbarra metallica a cui era
appoggiato. In quel momento poteva solo sperare che Don gli credesse ed
agisse di conseguenza. Mai come in quel momento si era ritrovato a
maledire il giorno in cui aveva deciso di accettare quella missione
sottocopertura. Cosa aveva creduto di fare quel giorno? Si era lasciato
persuadere da tutti quei bei discorsi sul difendere la patria e
sull’onore di essere un soldato degli Stati Uniti, ed ora
stava scoprendo sulla sua pelle quale fosse il risvolto della medaglia.
Aveva lasciato che lo scoprissero per poter entrare nuovamente in
contatto con Carter e fuggire insieme, per arrivare a Mason Lancer,
l’obiettivo della sua missione, l’agente che si era
venduto ai cinesi e per il quale aveva dovuto fingere di essere un
traditore, per raccogliere le prove per incastrarlo. Peccato che in
quel momento era solo un pericoloso evaso che aveva tutta la polizia di
Los Angeles alle costole e se Don non avesse trovato il suo agente di
riferimento non avrebbe mai potuto provare la propria storia, sarebbe
esistita solo la sua parola.
Serrò le palpebre e diede un piccolo colpo con la nuca al
metallo. Aveva paura in quel momento. Aveva la dannatissima paura di
non poter venire fuori pulito da quella storia, di restare per sempre
un criminale evaso. Aveva paura di non poter più ritornare
da Charlie.
Un piccolo sorriso gli stirò le labbra a quel nome. Poter
parlare nuovamente con lui era stato come balsamo per Colby. Lo aveva
fatto sentire immediatamente bene. Eppure non doveva dimenticare che
fra tutti, aveva tradito soprattutto Charlie. Anche se fosse riuscito a
dimostrare la propria innocenza non era detto che l’altro lo
avrebbe perdonato. Ne avrebbe avuto tutte le ragioni, ad essere
sinceri, ma quelle cinque settimane lontano da lui erano state un
inferno ed onestamente non sarebbe mai riuscito ad andare avanti senza
Charlie, non riusciva nemmeno ad immaginare come sarebbe potuta essere
una vita senza il suo professore. Però quando, prima, al
telefono gli aveva detto che lo amava, Charlie gli aveva risposto anch’io…
Qualcosa avrebbe dovuto pur significare!
Una voce metallica annunciò l’arrivo alla stazione
successiva. Carter si alzò dal suo sedile e si
avvicinò a Colby, facendogli segno di scendere. Mescolandosi
alla folla dei pendolari i due fuggiaschi ritornarono in superficie.
- Dobbiamo andare al porto, lì troveremo un cargo cinese che
ci porterà fuori dagli Stati Uniti. Ci pensi? Avremo tutto
il denaro che vogliamo, diventeremo ricchi amico mio!-
esclamò Carter fissando l’amico con un enorme
sorriso soddisfatto.
Colby annuì facendogli segno di continuare a camminare.
Cominciava ad avere la nausea di quell’esaltato. A lui non
interessava diventare ricco. Desiderava soltanto che
quell’incubo terminasse in un modo o nell’altro, e
di poter aver la possibilità di riabbracciare il suo
professore.
Però ad ogni passo avanti che compiva in direzione del
porto, sentiva come se stesse mettendo sempre più distanza
tra lui e Charlie, come se stesse scavando una voragine tra loro che
gli avrebbe impedito di ritornare indietro. Era una sensazione
claustrofobica che gli premeva sul petto, stringendogli forte il cuore,
pungolandogli l’anima. Era simile ad una sottile malinconia
che gli stava destando dentro una voglia incomprensibile di piangere.
In quel momento ebbe la netta sensazione che non ci sarebbe stato
nessun futuro per loro…
Charlie arrivò trafelato alla sezione del Fbi. Aveva
terminato da poco l’analisi che aveva promesso a suo
fratello, senza però ottenere alcun risultato. Aveva rifatto
più volte i calcoli nella speranza che l’analisi
gli confermasse che potevano fidarsi di Colby, per cercare di sbloccare
la situazione e spezzare una lancia a suo favore. Ma, per quanto ci
avesse provato, non aveva ottenuto nessun risultato certo: esistevano
le stesse probabilità che l’ex poliziotto stesse
mentendo o dicendo la verità.
Si fermò al centro del corridoio, osservando Don e gli altri
che discutevano animatamente oltre la vetrata dell’ufficio e
strinse forte i fogli con i calcoli a sé.
Megan era propensa a dare una certa credibilità
all’ex collega, ma Danny era quello più ferito tra
tutti loro e per questo si rifiutava categoricamente anche di
ascoltarlo. Don si trovava quindi tra due fuochi ed avrebbe dovuto
prendere una decisione che, se fosse stata sbagliata, avrebbe portato a
conclusioni disastrose.
In quel momento provò la sgradevole sensazione di vedere
tutte le proprie speranze sgretolarsi, si sentiva come in quel sogno
che faceva ormai da molte notte in cui si ritrovava a correre dietro
Colby che, ad ogni passo, si allontanava sempre di più da
lui, senza mai voltarsi.
Scosse la testa. Non era il momento di perdersi in simili pensieri,
aveva giurato che avrebbe fatto di tutto per ritrovare Colby sano e
salvo, ed era il momento di mantenere quella promessa.
Inspirò forte, cercando di schiarirsi la mente, ed
entrò nell’ufficio.
Da spezzoni della discussione in atto, comprese che avevano individuato
un cargo cinese ancorato al largo delle coste californiane, ed
sospettavano che fosse la nave dove Colby affermava di dover incontrare
l’agente Fbi che lavorava per la Cina e su cui aveva indagato
fino a quel momento.
- Cosa dice la tua analisi?- gli chiese Don vedendolo entrare.
Non sapeva più cosa pensare. Da un lato desiderava che tutto
quello che aveva raccontato loro Colby durante la sua fuga fosse vero,
ma dall’altro temeva di concedergli nuovamente quella fiducia
che aveva gettato via con noncuranza. Vide suo fratello stringere le
labbra in una smorfia e comprese che non portava buone nuove.
- L’analisi non ha portato a nessun risultato certo!- disse
il matematico mesto tendendo a Don i fogli che aveva in mano.
- Come può essere? Charlie avevi detto che…-
domandò Don incredulo.
- Sta mentendo! Ve lo dico io!- lo interruppe Danny sempre
più arrabbiato.
Colpevole o innocente Colby aveva mentito a tutti. Non gli interessava
sapere altro.
- Ho rifatto i calcoli più volte, ma il risultato
è sempre lo stesso. Però se mi chiedessi cosa ne
penso personalmente… - si fermò un attimo mentre
nella sua mente rivide Colby ammanettato al di la della recinzione del
carcere federale, che lo fissava con i suoi occhi di un azzurro limpido
e sereno e gli chiedeva di avere fiducia in lui – Ti
risponderei che mi fido di Colby!- disse fissando
il proprio sguardo sicuro in quello del fratello.
Non riusciva a comprendere né come né
perché, ma sapeva di non essersi
sbagliato a giudicarlo, che Colby era sincero. Era una sensazione che
sentiva pulsare irrequieta dentro di sé, sotto la sua pelle,
scorrere insieme al sangue senza dargli pace.
Don annuì un po’ perplesso dalla reazione del
fratello, per poi ordinare a Megan e Danny di preparare la squadra.
La goccia trasparente stillò dalla punta dell’ago,
catturando per un istante i riflessi dorati del sole morente. Legato
alla sedia e sotto l’effetto dei farmaci che gli erano
già stati iniettati, Colby la osservò ostentando
un’impassibilità ed una sicurezza che dentro di
sé non provava.
- Questo è l’ultimo farmaco, è la tua
ultima possibilità di salvarti. Dimmi tutto quello che sai e
ti risparmierò!- disse Mason Lancer con la sua calma
glaciale.
Colby serrò le labbra deciso a non parlare. Aveva
già guardato la morte in faccia altre volte e quella sarebbe
stata l’ultima per lui, ma non si sarebbe venduto, non quella
volta, sarebbe morto con onore così com’era
vissuto. L’unico suo rimpianto era quello di andarsene senza
essere riuscito a chiarirsi con Charlie. Distolse per un istante lo
sguardo puntandolo sulla finestrella indorata dalla luce del sole,
rievocando il volto rilassato ed imporporato del suo matematico, la
sensazione elettrizzante di avere le sue mani ruvide e calde sulla sua
pelle e quella dolce e piena della sua bocca sulla propria. E si
sentì inondare da una dolce calma, come se i ricordi legati
al suo compagno fossero così potenti da scacciare tutto il
resto, difendere la sua anima.
Ma si sentì ugualmente un po’ stupido per essersi
illuso di poter ritornare da lui e ricominciare daccapo di nuovo
insieme.
- Come vuoi!- la voce noncurante di Lancer lo distolse dai suoi
pensieri.
Colby riportò lo sguardo su di lui mentre, con un gesto
fulmineo, gli piantò l’ago della siringa nel
pettorale sinistro, proprio sopra il cuore, iniettando il farmaco.
Charlie!
Urlò disperatamente Colby nella sua mente, mentre il dolore
iniziava a serpeggiare come acido nelle sue vene, incendiandogli il
corpo, e la sua coscienza veniva risucchiata via, in un universo nero.
Mentre scivolava rapidamente nell’incoscienza
registrò vagamente il rumore ovattato e sempre
più lontano di spari.