Mind Lost
CAPITOLO I:
ILVIALE DEI SOGNI SPEZZATI
“La via verso l’oscurità è un cammino
lento e lungo”
Il fumo si alzava sopra il suo volto e lui lo vedeva partire con dei disegni chiari e netti, sensuali si allungavano contorcendosi in curve perfette. Piccole e poi sempre più larghe. Cerchi che salivano e salivano come in un moto perpetuo per allargarsi in alto dove sbiadivano e si compattavano perdendosi. L’unica traccia del suo passaggio era una leggera nube grigiastra azzurrina che aleggiava proprio sopra di lui. Fissava il viaggio del fumo che partiva dalla sigaretta mollemente tenuta fra le labbra e sembrava totalmente assorto unicamente in quei movimenti quasi insignificanti. Non pensava ad altro se non a concentrarsi su quel fumo. Sarebbe stato ore a fissarlo. Non aveva ancora tirato una boccata. Solamente lasciata lì dritta che vegliava sulla stanza deserta.
La mente era vuota.
Gli occhi verde intenso, smeraldo, un verde che feriva da tanto era penetrante e abbagliante, che faceva piangere dalla struggevolezza di quello sguardo, di quel colore, di quella perfezione. Quegli occhi dalla forma di petalo leggermente allungato verso le tempie erano pieni di quel fumo. Sembravano assorbirlo.
Sembravano leggervi attraverso segreti e misteri preveggenti incalcolabili.
Forse si chiedeva se il dono della chiaroveggenza fosse come leggere nel fumo effimero e immateriale…c’era e non c’era. Interpretazione allo stato puro.
Il giorno era ormai inoltrato ma nonostante ciò lui stava ancora steso nel letto nella stanza semibuia. Arrivavano dagli scuri chiusi della finestra alcuni spiragli di luce solare che giocavano col muro candido riempito solo di mille e mille foto. Pieno. Non uno spazio libero per intravedere l’intonaco perfettamente dipinto. Persino nel soffitto vi erano foto. Ritraevano persone. Solo ed unicamente persone. Chi erano? Le conosceva? Una cosa sembrava chiara. Erano la sua fissazione.
Cosa? Le foto oppure la gente?
Magari solo ciò che interpretavano quegli oggetti, quei foglietti di carta che sfidavano il tempo e lo spazio ritraendo tempi e spazi andati altrove, passati. Lui amava le foto. Le invidiava. Le studiava. Le foto erano la sua mente, la sua vita. Catturavano, rapivano, sottraevano momenti importanti vissuti che non sarebbero tornati. Come facevano? Quella macchina si limitava a copiare ciò che si vedeva, ma nella realtà com’era?
Anche quel giorno la domanda rimase incompiuta poiché la risposta ormai era scontata.
Nonostante la mattina inoltrata e la solitudine che aleggiava nella stanza, lui rimaneva silente steso nel letto. La posa neutrale con le braccia aperte e le gambe divaricate, la testa dritta e la schiena sul materasso a due piazze, il lenzuolo disfatto sotto di lui non lo copriva nemmeno su un piede. Sembrava che dicesse:
‘vieni o fato a ritrarmi e rapirmi, mi befferò di te e non sarò mai tuo’
lui era nudo.
Totalmente nudo.
La pelle asciutta e liscia non mostrava segni di imperfezione. Non visibili sul davanti. Aveva un collo sottile, spalle non molto larghe ma nemmeno strette, un torace a dire il vero poco ampio e i pettorali come gli addominali dolcemente modellati senza risultare scolpiti da un artista greco. Le braccia dai muscoli allungati e sottili. Gambe affusolate. Non un corpo atletico e notevole, ma nemmeno magro e smunto. Un insieme piacevole da guardare. L’erezione fra le gambe era passata da poco, merito della visione notturna avuta e del pensiero di riuscire ad afferrare ciò che aveva sempre desiderato.
Le mani erano forse la cosa più bella che quel ragazzo possedeva. D’artista, curate, dita lunghe e affusolate, unghie corte ma non mangiate o rovinate. Erano belle.
Pallido. Era pallido il suo volto dai lineamenti enigmatici ed interessanti, non necessariamente bello o selvaggio. Aveva due occhi magnetici di un verde potente, una bocca dall’arco perfettamente disegnato, sottili e strette ma in una forma indecifrabile, esse stringevano come già detto in precedenza la sigaretta non ancora fumata che si stava consumando con tutta la cenere intatta. L’arco delle sopracciglia era disegnato nel modo più semplice e al tempo stesso sicuro che potesse esistere. Ma la sua espressione non rivelava altro che enigma, sicurezza e qualcosa che non si riusciva a catturare. Perennemente concentrato a dare risposte a domande non ancora espresse.
Era l’espressione di uno che sapeva.
Sapeva assolutamente tutto.
Non c’era scelta, scampo, volontà…lui sapeva.
Stop.
Da lì non si scappava.
Aveva capelli castano scuro corti che si spettinavano naturalmente per la notte appena passata. Quei capelli dicevano molto di lui. I capelli di una persona parlano e i suoi parlavano. Un animo in catturabile, indomabile…invincibile. Avrebbe sempre fatto quel che voleva come quei capelli che sfuggivano ad ogni legge gravitazionale o di semplice e puro gel. Stavano senza far capire nulla della piega che avrebbero preso entro la sera.
Lui era così.
Incalcolabile, inafferrabile…irraggiungibile. Altissimo…stava dove nessuno poteva raggiungerlo.
Un vincente nato.
Batterlo era veramente impossibile non perché possedeva forza fisica, non era così. Nemmeno perché possedeva dei poteri esp. Non ne aveva.
L’unico suo potere era la mente.
Era semplicemente e irrimediabilmente un genio.
Contro ogni logica e volere.
Geniale.
Nessuno arrivava dove arrivava lui.
Lui sfidava la scienza e raggiungeva vette mai toccate da nessuno.
Raramente uomini nella storia ci erano riusciti.
Lui era così.
Ma sulla sua purezza e sul colore che illuminava la sua mente e il suo animo non ci si poteva esprimere.
Nero e buio si intuiva dentro di esso.
La genialità non poteva essere compresa, così anche lui.
La sua mente non aveva bisogno di pensare in continuazione. Sapeva fermarsi anche solo per il movimento semplice di qualcosa che andava contro le logiche. Come quel fumo che si alzava quando la gravità attirava tutto verso il basso.
Camminava in una strada solitaria da sempre. Ma non era proprio totalmente solo. Come quella mattina non lo era stato da tutta la notte. Alle sette un ragazzo aveva lasciato quel letto per farsi una doccia ed uscire di casa come al solito. Quel ragazzo che gli era stato accanto da molto tempo…dal tempo della sua disfatta e rinascita. Ma era stata una strada inevitabile, l’unica che in fin dei conti aveva conosciuto, non sapeva dove portasse ma era la sua casa, voleva camminare solo, percorrerla anche se vuota…illudersi di non esserlo, illudersi che quel ragazzo prezioso ed essenziale non se ne fosse mai andato. Però lui sapeva che era una strada sbagliata….non era giusto portarci anche lui, eppure egoisticamente non poteva lasciarlo andare. Era un viale, quello dei sogni spezzati. Lui lo chiamava così quel periodo della sua vita partito dalla tenera età, mai sarebbe morto. La città dormiva in quel viale e lui era l’unico a camminarci…e l’unico a seguirlo incoscientemente anche se in un viale parallelo ma diverso, era quel ragazzo.
Michael vi camminava da solo e solo la sua ombra gli faceva realmente compagnia poiché aveva un cuore forte e debole insieme ma l’unico che pulsava realmente in lui, non la sua mente, non il suo sangue, non la sua anima ma quel cuore che troppo spesso fuggiva da lui.
Certe volte lo desiderava che qualcuno lo trovasse e lo tirasse fuori, ma arrivava solo quel ragazzo che forse la via in cui egli camminava era peggio della sua…sino al momento in cui qualcuno l’avrebbe trovato, avrebbe camminato da solo, come suo padre gli aveva insegnato.
Percorreva la via che divideva la sua mente dal limite umano azzardato, su quel filo camminava solitario da molto tempo.
Leggeva fra le righe.
Quello era il suo simbolo di riconoscimento. Lui era geniale per quello. Era sputtanato da tutti ma andava bene perché tutti lo temevano e lo rispettavano e quelli che non lo facevano duravano poco.
Controllava i suoi parametri vitali per vedere se era vivo dopo la vita che faceva e continuava in quel cammino.
In fondo era solo uno stupido viale dove tutti i sogni di bambino erano andati spezzati.
Prese fra due dita la sigaretta consumata e la spense a malincuore non potendo più osservare quel fumo perfetto e inafferrabile quanto la sua mente.
Poi spostò quegli occhi magici e illeggibili su un tavolino in un angolo della camera semplice e arredata con un gusto strano e suggestivo.
Foto, ancora foto e macchine fotografiche di ogni tipo. Troneggiava su tutto una cornice in argento e vetro. Vi era ritratta una ragazza giovane dalla bellezza di strada stupenda. Volto da gatta, capelli neri e folti lunghi fino alla schiena, occhi truccati di nero e una bocca invitante.
Lei non avrebbe dovuto pagare per gli altri.
Ma la gente come al solito era finta e dietro ad una bella facciata era nascosto un mostro.
Per colpa di quella gente lei aveva pagato.
Solo uno stupidissimo errore…incalcolato…irrisolvibile…testardo…e per quello lei non c’era.
Doveva tirarla fuori.
Non perché l’amava come una sorella.
Non perché era la gemella del suo fidanzato.
Ma solo perché se fra loro tre c’era mai stato qualcuno di innocente quella era stata proprio lei.
E la via oscura era percorsa già a metà.