Un Sorriso Per La Felicità

 

 

 

/Don’t Cry – Guns ‘n Roses/

Un sorriso radioso e contagioso, un sorriso che coinvolgeva gli occhi azzurri ed ogni angolo facciale per arrivare fino all’anima, un sorriso che arrivava anche agli altri che lo vedevano e lo ricevevano.
Quel bambino di nome Alessandro dai biondi capelli mossi era capace di ridere di gusto, spensierato e felice.
A quel tempo lo era ancora poiché non aveva problema alcuno.
Era un bambino attivo come tanti, giocherellone, combina guai e sereno.
Voleva un bene dell’anima ai suoi genitori che a loro volta lo ricambiavano, economicamente benestante, era portato per il basket che gli veniva insegnato dal padre ed era bravo a ballare, insegnamento della madre.
Non avrebbe mai pensato che le cose per lui sarebbero cambiate radicalmente.
Non fino a quel punto.
Aveva 7 anni.
Quel giorno il sole era alto e faceva molto caldo, Alessandro si stava allenando da solo a basket, al canestro del campetto in paese, aspettava il padre per misurarsi con lui, aveva imparato una nuova mossa ed era impaziente di mostrargliela; teneva la fascia del genitore fra i capelli, gli stava grande e gli cadeva in continuazione ma lo faceva perché così gli sembrava di essere più uguale lui.
Aveva un gran bel rapporto con egli, si confidava e lo imitava in tutto per tutto, si dava molto da fare, ci teneva a raggiungere presto il suo livello, era un campione, hai suoi occhi lo era. Parlavano molto e anche il carattere attivo l’aveva preso da lui, l’egocentrismo dalla madre.
Era piccolo ma si poteva intravedere l’uomo che sarebbe diventato, un misto fra i suoi adorati genitori: bello come la madre, forte come il padre, un miscuglio di qualità fra positive e negative, qualcosa che era impossibile da ignorare.
Già allora lo era.
Dopo l’ennesimo canestro e l’ennesima caduta della fascia sugli occhi si era fermato per sistemarsela, asciugandosi il sudore. Era un paesino piccolo, non c’erano particolari pericoli per un bambino di 7 anni, ecco perché gli era permesso di andare al campetto da solo, da quel punto riusciva a vedere casa sua, se i suoi genitori arrivavano li avrebbe visti subito.
Poco prima che uscissero per andare in banca a depositare dei soldi sul conto comune, lasciandolo col nonno paterno, aveva fatto la solita ora di esercizi di break dance con la madre, lei era bravissima e quando l’aveva vista ballare con tanta energia le aveva chiesto di insegnargli, così come aveva fatto col padre ed il basket.
Era felice, una famiglia irreale come quella delle pubblicità ma stavano bene così e non si chiedevano se sarebbe durato a lungo.
Alessandro era difficile da tenere ed obbediva solo a mamma e papà, nessun altro baby sitter era in grado di trattenerlo così usciva in cerca di qualche amico con cui passare il tempo … peccato che tornasse sempre con qualche bugna in più o accompagnato da un genitore altrui inferocito.
Già, era felice ma difficile.
In fondo i genitori erano dei tipi tosti.
Guardò la strada per vedere se l’auto rosso fiamma giungeva nel loro quartiere ma così non era, ad arrivare fu un nuovo gruppetto di ragazzini più grandi che prepotentemente volevano mandarlo via dal canestro per poterci giocare loro, lui non era stato d’accordo e così si era messo a litigare, ci aveva messo poco ad arrivare alle mani, tuttavia a quel tempo era ancora un bambino e nonostante il carattere di fuoco si dimostrò tutto fumo e niente arrosto, le subì in modo vergognoso per lui, non poté far altro.
Non andarono fino in fondo, erano riusciti a procurargli un occhio nero ed un labbro spaccato nonché un brutto livido sulla schiena.
Li interruppe il nonno che correva verso di lui, ad Ale parve strano che lui accorresse in suo aiuto, non l’aveva mai fatto, era un tipo schivo che preferiva lasciargli fare le marachelle che voleva, non gli dava molte attenzioni. Però ora correva ed era molto preoccupato, i ragazzi erano pronti a giustificarsi, non avevano molta paura di un uomo anziano.
- Nonno … - 
Aveva mormorato con sforzo per il dolore, lui si era fermato al di là della rete e senza ascoltare le parole dei teppistelli, aveva parlato.
Eppure il piccolo biondo avrebbe voluto non averlo mai ascoltato. 
D’altro canto quali parole potevano essere adatte per dire una cosa del genere ad un bambino così piccolo? 
- Ale, i tuoi genitori hanno avuto un brutto … incidente. – 
Aveva cercato la parola ‘incidente’ ma non era uscita convincente.
Perché non era andato da lui abbracciandolo? Perché era rimasto lontano senza guardarlo in faccia?
Aveva un gran brutto carattere il nonno.
Poco tatto.
Poca pazienza coi bambini.
Poca esperienza.
- Cosa è successo? – 
Si era alzato in piedi ignorando gli altri che ascoltando la notizia avevano deciso di lasciarlo stare.
Aveva lo sguardo di un bambino che si apprestava ad ascoltare l’inascoltabile.
- Mi dispiace. Sono stati aggrediti da dei malviventi e sono … sono morti, Ale. – 
Il respiro si poteva trattenere per così tanto tempo?
No, forse era per questo che si era inginocchiato o forse perché non si sentiva più vivo, un gesto che valesse la sensazione di una bomba atomica che si prepara ad esplodere, qualcosa di gigantesco e tossico che prima implode ritirandosi in un nucleo spacciato e successivamente esplode potente, devastante, portatore di morte. Divora chiunque nel raggio di kilometri e kilometri e non lascia una particella di vita.
Porta solo morte.
Questo accadde ad Alessandro, il piccolo Alessandro, che per la prima volta in vita sua provò dolore.
Voleva piangere, sentiva che se non l’avesse fatto sarebbe morto, aveva BISOGNO di piangere, lui DOVEVA ma lo shock improvviso ed enorme glielo impediva, gli impediva qualunque gesto che non fosse l’inginocchiarsi sul cemento e fissare sconvolto il nonno che nemmeno riusciva a guardarlo.
Come poteva essere così?
Quelle particelle chimiche che componevano la bomba stavano in lui e si stavano ritirando per esplodere, quando sarebbe successo?
Lui stesso ne aveva paura.
Un bambino che sente qualcosa di devastante e pericoloso, di sconosciuto e mai provato, sente che sta uscendo e ne ha paura, ce ne ha perché non sa cosa accadrà ma sa che sarà brutto, forte ed incontrollabile.
Questo stato, per lui, si sarebbe prolungato fino ai 14 anni.
A scuoterlo era arrivata per caso la palla da basket dei ragazzini di prima, non l’avevano fatto apposta, se ne erano tenuti fuori da quella faccenda, non avevano nemmeno ascoltato; la palla aveva colpito Alessandro sulla schiena, questi si era riscosso guardandola rotolare accanto a lui come se avesse un verme strisciante, come se fosse la colpevole della morte dei suoi genitori, come se quella fosse la causa di tutto.
La guardava con occhi di odio, inorriditi da una smorfia sul volto che fece impressione, la guardava come guardava chi stava venendo a recuperarla, quando il ragazzino fu davanti a lui chino con le mani sulla sfera si era bloccato vedendo il suo viso.
- Che hai? – 
L’aveva chiesto con timore pensando che ce l’aveva con lui. Si era pentito d’averlo fatto quando per risposta aveva ricevuto la propria palla in pieno volto, calciata potente da Alessandro.
Non aveva detto nulla, aveva solo calciato la palla facendola arrivare in faccia al ragazzino, questi urlando si era accasciato a terra tenendosi la bocca con le mani che in un secondo si riempivano di sangue per il labbro e la gengiva spaccati, non contento tornò a fare il medesimo gesto ribattendola con forza sempre addosso al ragazzino che si copriva per non farsi ulteriore male, pensava che volesse vendicarsi e si vergognava di star subendo a questo modo da un bambino di 7 anni, lui ne aveva 10 in fondo. Se ne vergognava ma il dolore e le successive pallonate gli impedivano di reagire, sperava che i suoi amici intervenissero in fretta e così era stato, quando l’avevano fermato (loro, non il nonno) avevano notato il suo sguardo, odio.
Era di odio.
Odio e lacrime.
Quel bambino piangeva ed estranei non capivano cosa si agitasse in una persona simile.
Non potevano sapere che quelle erano le prime vere lacrime e che dove bagnavano gli bruciavano la pelle, non potevano capire come si sentiva, loro e nemmeno il nonno, portatore di una notizia tanto grave.
Era un bambino.
Alessandro era solo un bambino e non trovava parole per esprimere quanto dentro, dopo quello sfogo violento solo le lacrime diventavano espressione della sua anima ma non gli bastavano. Non gli bastavano ancora.
Sentiva che non erano abbastanza e che non lo avrebbero aiutato come prima aveva creduto.
Ora piangeva e non si sentiva meglio, solo privo di forze.
Con l’occhio nero e il labbro sanguinante del pestaggio di poco prima, si era accucciato a terra in posizione fetale, coprendosi il volto con le braccia e lasciando uscire completamente il dolore, sperando che anche quelle urla potessero aiutarlo, provando a giocare ogni carta.
Quell’urlo però faceva solo scappare spaventati i ragazzini non capendo che gli accadeva, pugnalava per il nonno che appoggiava la fronte alla rete sconfitto e faceva smettere di frinire le cicale lì intorno. 
Un urlo paragonabile all’ultimo passaggio dell’esplosione della bomba atomica, quando ormai rimane morte e fumo ed ancora non si vede nulla, non si capisce cosa è rimasto e non si capirà a lungo, per molto tempo, finché crescendo non arriva l’unica verità.
Non c’era nulla da vedere.
L’adulto voleva dirgli che gli dispiaceva, voleva confortarlo, tirarlo su, abbracciarlo, trovare qualche buona parola … ma era riuscito solo a pensare che da ora avrebbe dovuto crescerlo lui e che per colpa dei soldi quel bambino difficile aveva perso la sua famiglia.
- Come farò … ? –
Tutto quello che si udiva erano quelle parole, dopo il grido di dolore del bambino.
Solo quello e i singhiozzi rumorosi in mezzo alle lacrime che esteriormente sarebbero uscite solo quel giorno mentre interiormente per sempre.
In realtà non c’era niente che si poteva fare in una situazione del genere, niente.
Solo aspettare che il tempo riuscisse a far smettere di piangere.
Solo aspettare che la ferita si rimarginasse.
Solo aver fede e pregare che un riscatto, prima o poi, sarebbe arrivato anche per loro.


/The kids aren’t all right – The Offspring /

Un sorriso che sembrava più un ghigno di sadismo, freddo e fuoco insieme, qualcosa che colpiva nell’intimo chi lo riceveva fino a far fuoriuscire i brividi, un sorriso che non arrivava agli occhi e nemmeno ad altri angoli del volto. Un sorriso pericoloso e vuoto.
Quel ragazzino di 12 anni di nome Alessandro, a quel tempo, agiva già come se avesse vissuto abbastanza da poter terrorizzare gli altri.
Provocatore e persecutore.
Del resto qualcuno cresciuto in quel brutto quartiere da solo, non poteva venir fuori in altro modo che questo.
Viveva col nonno pensionato che non parlava ormai più, non aveva rapporti con lui e gli permetteva di fare qualunque cosa, il punto era questo.
Gli permetteva di tutto poiché non aveva forza e voglia di stargli dietro ed impedirgli gli errori, imporgli il giusto e indicargli la retta via.
Viveva col nonno – fantasma – in un quartiere povero dove l’affitto era basso. Non sempre riuscivano a mangiare, spesso non lo faceva per giorni per permettere al più debole anziano di farlo, spesso nemmeno aveva voglia di dormire per non fare incubi, spesso non tornava a casa per giorni senza dare spiegazioni, il nonno non se ne era mai preoccupato.
Il sorriso che lanciava in giro era solo un ghigno di sfida.
Usciva di casa salutando la foto dei genitori morti anni prima e si gettava nella mischia che subito trovava sul suo cammino.
Lì erano tanti come lui, si sentiva bene in mezzo a loro, uguale a qualcuno, nessuno lo vedeva con occhi diversi da come si guarderebbe un pezzente, cominciava a farsi un nome; l’aveva deciso subito trasferito lì, dopo aver ricevuto i pestaggi dei veterani del quartiere si era messo in testa di non subire più per non rendere tristi i genitori che da qualche parte lo guardavano. Era deciso a non farsi calpestare e lentamente a furia di calci e pugni ci era riuscito.
L’unico allenamento che aveva iniziato, dopo aver smesso col basket e col ballo, era stato qualcosa di simile alla boxe. Prendeva regolarmente a pugni un sacco rubato da una vecchia palestra sgangherata ormai chiusa, correva per ore e si faceva i muscoli alzando cassette di frutta al mercato per potersi guadagnare qualcosa. 
Andava a scuola ma non regolarmente.
Ciò che faceva regolarmente era andare in giro a far danni con la sua compagnia di disadattati, tutta gente che cominciava a chiedere il suo paraere e faceva attenzione a non farlo arrabbiare.
Avevano tutti sui 12 anni ma si atteggiavano a teppisti pericolosi. 
A quel tempo i pericoli che potevano combinare erano guai di poco conto, sciocchezze che facevano arrabbiare gli adulti, nulla di esageratamente serio.
Sarebbe stato più avanti che sarebbe stato pericoloso.
Era un bel adolescente, vestiva trascurato, da strada, con abiti strappati e sporchi, i capelli poco curati lasciati selvaggiamente intorno al viso, lo sguardo insolente con un fondo di odio per chiunque, la bellezza di una donna e l’ombrosità di un uomo forte.
In lui si vedevano i suoi genitori ma le qualità erano ancora così nascoste …
Aveva messo una pietra sopra ai loro insegnamenti, aveva voluto tagliare con ogni cosa legata a loro per soffrire di meno, per non star così male. Anche se comunque sentiva sempre freddo. Anche se comunque niente funzionava.
Niente lo impressionava e il desiderio di provare di più, sempre di più, per sentirsi vivo e non un guscio vuoto, cresceva in lui.
Lo divorava.
Ecco perché si affidava a quel gruppo di disadattati che andava in giro a provare nuove emozioni, rubacchiando, usando armi di poco conto e facendo brutti scherzi agli adulti.
Però era il sesso loro centro, il sesso tormentava i loro ormoni in subbuglio.
Il sesso non aveva però ancora fatto visita a nessuno di loro se non ad Ale. 
Accadeva un giorno di pioggia a scuola.
Uno dei rari giorni in cui ci era andato aveva scommesso coi suoi amici di riuscire a farlo con una ragazza, lui le sfide, di qualunque tipo fossero, le adorava. Era un po’ teso poiché era la prima volta e a parte i soliti film porno scaricati clandestinamente, non era mai riuscito a fare nulla che ci somigliasse.
Aveva un fisico d’adolescente che prometteva bene per la vita che faceva, era bello e piaceva alle ragazze ma le spaventava per quel suo modo di fare così pericoloso e provocante, lo vedevano come un teppista e ci stavano alla larga, gli era andato bene così finché non aveva capito che le ragazze erano il mezzo migliore per scaricare i bassi istinti adolescenziali.
Aveva lasciato che la pioggia lo bagnasse rendendolo più attraente e decidendo la sua ‘preda’ era andato da lei sfrontato, senza apparente paura, deciso e con una luce nello sguardo irresistibile.
Era una ragazza molto bella più grande di lui di 2 anni che l’aveva adocchiato da un po’ ed indecisa se starci o meno, quel giorno, vedendolo così, non aveva avuto più dubbi.
Alessandro non era ancora consapevole del suo fascino, credeva che lo ritenessero un moccioso stressante da star lontani eppure quel giorno aveva capito che così non era.
La corteggiava con la chiara intenzione e lei ci era subito stata. Con fare ingenuo aveva detto:
- Oh, ma sei tutto bagnato … non hai da asciugarti? Ti ammalerai … - 
Lui si era chiesto se per caso non vedesse troppi film, fece un grande sforzo per non riderle in faccia e per non farlo si era concentrarsi sull’unica parte veramente interessante, il suo seno prosperoso.
- No, non ho nulla con cui asciugarmi e sono bloccato a scuola per questa pioggia … -
Altrettanto ingenuamente.
In realtà ad essere sedotto era stato lui ma gli era andata grandemente bene, aveva proprio sperato che lei prendesse il sopravvento per mostrargli come fare, per avere un idea, per non fare una brutta figura.
Lasciava che lei facesse, lasciava farsi portare in una stanza che si poteva chiudere a chiave, lasciava che lo spogliasse e che gli sussurrasse parole più o meno dolci, che gli dicesse ciò che gli suscitava in lei lui ed il suo corpo bagnato, lui ed il suo bel visino da animaletto selvatico. Lasciava che lei lo baciasse e gli chiedesse di toccarla e assaggiarla, lasciava che lei si adoperasse su di lui lenta e sensuale, esperta e smaliziata, lasciava che l’eccitasse fino all’inverosimile e la lasciava farsi prendere da lui.
Aveva un aria stralunata ma non apertamente sconvolta anche se dentro di sé lo era, dentro di sé sentiva che oltre al piacere fisico non v’era quel che lui aveva sperato di trovare, dentro di sé si diceva che, forse, il vuoto si sarebbe riempito successivamente, magari con nuove esperienze simili, con una sua maggiore bravura, con nuova audacia crescente.
Si disse questo mentre in lei ed in quella prima volta di sesso cercava come un piccolo animale disperato, qualcosa che lo impressionasse e lo facesse sentir bene, sentir bene dentro e non solo fisicamente.
Cercava senza trovare, così si era lasciato fare fino alla fine rassegnato a continuare la sua ricerca la volta successiva, con una ragazza diversa, una che potesse soddisfarlo meglio anche intellettualmente o che sapesse eccitarlo di più.
Non avrebbe mai trovato quel qualcosa di buono in nessun sesso, pur facendone tanto; forse per questo tentò con i ragazzi, forse quando nemmeno con loro aveva funzionato, aveva preso strade ulteriormente diverse, pericolose, strane, fuori dal comune. Strade per sentirsi vivo, per cercare quello che da piccolo aveva perso.
La felicità.


/Lithium - Evanescence/

Un sorriso diabolico, poteva essere terribilmente sexy e far morire chi lo riceveva o semplicemente coprirlo di brividi per la sensazione di essere stato ‘fregato‘ in qualche modo dal proprietario. Poteva essere terribilmente piacevole o terribilmente agghiacciante. Lasciava sempre il segno. Era un sorriso sempre meno felice.
Alessandro dai biondi capelli ribelli poteva avere un ricordo molto tragico, triste e pieno di invidia del suo passato. Poteva ricordare i genitori e rifiutare una volta di più la loro morte a distanza di anni, poteva guardare il nonno e il quartiere povero in cui viveva e sputarci addosso in ricordo della villa lussuosa in cui aveva vissuto fino ai 7 anni, poteva osservare tutti gli altri studenti a scuola, quando ci andava, ed invidiarli fino alla morte poiché loro avevano genitori che andavano a parlare alle convocazioni generali con gli insegnanti, poteva sentire i discorsi degli altri coetanei sullo sport, sul ballo, sul basket e pensare che erano dei pezzenti confronto a lui poiché solo a 7 anni era già un prodigio in quelle categorie, poteva anche andare a guardare i bambini che felici venivano accompagnati dalle madri alle palestre per allenarsi a basket. Poteva fare un sacco di cose sentendosi sempre inferiore a tutti.
Ecco perché faceva sempre più in modo di non esserlo, inferiore a nessuno, anche se ci si sentiva sempre più, giorno dopo giorno. Come lo combatteva quell’insopportabile senso? Come si dimostrava più forte? Usando l’unico mezzo a sua disposizione, la violenza. Picchiando diventava lui il re, acquistava il rispetto e la paura degli altri, tutto ciò che gli uomini potevano sperare di avere dal prossimo. Quel tempo ragionava così. Se vedeva la paura per lui negli occhi degli altri si sentiva meglio, si sentiva anche lui forte ed in gamba, per qualche motivo poteva essere superiore agli altri e non inferiore.
Ecco perché finiva sempre così.
Ricordava in particolare d’aver visto gli allenamenti di un ragazzino, li vedeva di nascosto, andava da una squadra popolare in città, lì vi era uno che spiccava particolarmente, tale Gianluca. Era veramente bravo a basket e ad ogni canestro andava dalla madre fra il pubblico, insieme alla sorella e ad un bambino più piccolo, chiedeva se il canestro le era piaciuto, lei le dava un sorriso, una carezza o un ok con il dito e lui tornava contento a giocare, eppure solo a lui sembrava contento. Non sorrideva mai e non mostrava particolari segni di spensieratezza. Lui era convinto che lo fosse poiché aveva la sua famiglia a guardarlo e gli davano attenzioni preziose, attenzioni che lui non poteva avere.
Un giorno di quelli fu beccato dall’allenatore a guardare di nascosto, era un uomo alto e strano, con una buffa capigliatura, buffi occhiali scuri, buffi vestiti appariscenti e buffe movenze e modo di parlare.
- Tesoro, puoi vedere anche da dentro, se ti va … non ti facciamo pagare per questo. – 
Alessandro aveva fatto una smorfia e con aggressività aveva sgarbatamente risposto:
- Chi ti dice che voglio vedere quei perdenti? Non me ne frega nulla! – 
Lui non aveva mostrato stupore, aveva solo piegato la testa di lato, si era tolto gli occhiali scuri per guardarlo meglio in viso e aveva detto sempre con lo stesso tono scanzonato e femmineamente affettuoso:
- Oh, volevi partecipare? Puoi fare degli allenamenti gratis per vedere se ti piace, sai? – 
Sembrava solo un idiota così non lo prese seriamente, odiava gli adulti, sapevano farsi amare dai bambini ed una volta questi affezionati, se ne andavano per sempre lasciandoli. Odiava i grandi.
Quindi Ale si era allontanato sbraitando:
- Non farmi ridere, io odio il basket! – 
Come se non ci stesse a perdere o a farsi dare torto, aveva ribattuto infantilmente in fretta:
- Davvero? A me sembra più che altro che ti sforzi di odiarlo! – 
Ale aveva guardato l’uomo con un cipiglio truce tipico dei bambini, poi gli aveva fatto la linguaccia ed il dito medio, come se non riconoscesse per nulla l’autorità di un adulto, poi se ne era andato sentendo solo:
- Bè, la proposta è sempre valida, io sono qui! – 
Si era solo chiesto chi fosse quell’uomo, non gli passò per l’anticamera del cervello che potesse essere l’allenatore.
Spuntò a terra da ragazzo quando ricordò quel fatto, con disgusto non ci era più tornato … l’aveva fatto per non incontrare di nuovo quel tipo strano o per non dare più risposte che non sapeva? Magari solo per non vedere gente felice che praticava il suo basket. 
Il suo e di suo padre.
Col ballo non ci aveva nemmeno mai provato. Non era mai andato in nessun luogo dove lo ballavano, non aveva mai fatto nulla di nulla.
Il ricordo di sua madre era più sacro, per lui nessuno sarebbe stato pareggiabile a lei nel ballo della break dance.
Era stato bravo a star lontano da musica, movimenti di danza e a palle da basket. 
Però sentiva un terribile richiamo per quest’ultimo, sempre più forte.
Ce l’avrebbe fatta a resistere?
- Ale, andiamo, ci sono le tipe che ci guardano! – 
Uno del suo gruppo l’aveva riportato alla realtà, era diventato essenziale per loro poiché oltre ad essere forte era popolare fra le ragazze, piaceva un po’ a tutte e nessuna sapeva dirgli di no, lui aveva già molte esperienze e non gli interessava negarsi, non vedeva perché dire di no, non aveva detto no a nessuna esperienza pericolosa, infatti spesso si era trovato nei guai. Non a caso girava coi coltelli. Li sapeva usare molto bene, in quanto alle pistole uno di loro ne aveva rubata una molto abilmente ad un altro rivale per giocarci un po’ e lui si era rivelato in gamba con quell’aggeggio.
Non sapeva che sarebbe arrivato il tempo di usarla.
Entrarono nel locale, erano tirati e aveva imparato a tenersi meglio per poter far colpo sugli altri, affinché non potessero chiamarlo pezzente ed insultarlo, affinché lo guardassero bene e piacesse a chi di dovere. Come poteva farlo? Rubava, ovvio.
Una volta entrato nel locale aveva attirato l’attenzione di tutti, chi lo conosceva per qualche rissa fatta con lui, chi invece perché voleva ‘farselo’.
Coi soldi rimediati ai lavori al mercato si pagò da bere per tutta la serata e truccando la sua età abilmente per apparire più grande, si faceva notare bene. Adorava quegli sguardi di stupore e ammirazione e perché no, anche timore. Erano il suo pane.
Ci aveva impiegato un attimo e subito due ragazze di soli pochi anni più grandi erano andate da lui chiedendo se voleva offrir loro da bere, lui aveva previsto questo e lo fece, si guardarono occhi negli occhi, chiacchierarono un po’ del più e del meno ed ecco che cominciarono a strusciarglisi addosso per un chiaro messaggio, lui le cinse disinvolto con le braccia carezzando sensualmente la schiena, arrivando fino al sedere sodo, le due si erano premute a lui avvicinando il viso al suo chiedendo di accontentarle almeno con un bacio. Lo tenevano d’occhio da un paio di sere ed erano disposte a tutto pur di riuscire ad ottenere un attenzione simile da lui.
Era popolare.
Lui le aveva accontentate e con un sorriso malizioso accogliendo prima le labbra di una torturandola un po’ per non concedersi totalmente nell’immediato, poi quelle dell’altra.
Le cose cominciavano a scaldarsi quando ad interromperlo era arrivato un ragazzo adulto, un teppista di una banda rivale di quartiere. 
Lo sguardo di Ale si era indurito immediatamente.
- Seguimi fuori. – 
Aveva un espressione molto inequivocabile. Il biondo si era leccato le labbra cambiando sorriso, uno di quei sorrisi da brivido, specchi di morte, dove non v’era solo sadismo ma anche una promessa di non annoiarsi.
- Sei geloso? Ce n’è anche per te ma aspetta il tuo turno … sai che non dico no a nessuno! – 
Aveva scherzato di proposito poiché era un tipo così, che per non rivelare il vero sé stesso scherzava e diceva un sacco di scemate, il più delle volte erano pericolose per lui.
Loro l’avevano interpretato come un messaggio chiaro e se ne erano andate pensando che per quella serata avevano avuto ciò che aveva potuto dar loro.
Quel che pensava Ale mentre lo seguiva da solo, visti i suoi compagni defilati, era solo una cosa anomala:
“Speriamo di divertirci un po’ … ultimamente è così difficile.”
Continuava a cercare la sua felicità.
Si era trovato davanti la banda a cui uno del suo gruppo aveva rubato la pistola ed uno che tiene una pistola sicuramente non è poco pericoloso e nemmeno molto gentile … probabilmente odia anche scherzare.
- Hai una cosa che ci appartiene. – 
Erano solo di pochi anni più grandi di lui ma erano in un giro più brutto del suo, erano una banda decisamente pericolosa famosa per non avere scrupoli.
La luce degli occhi di Ale era tetra, l’opposto del sorriso ironico che vi aleggiava, un sorriso superiore.
Non aveva notato l’uomo che l’osservava di nascosto ma solo gli altri tirapiedi che lo circondavano. Fu un secondo che gli aveva fatto capire che non ne sarebbe uscito vivo, un secondo che si era visto morto con una pallottola in fronte e quel che faceva era insolitamente sorridere ancora provocante.
Dopo aver fatto alcuni passi avvicinandosi al capo, puntava al numero uno poiché i pesci piccoli non l’avevano mai interessato, aveva iniziato a fissarlo diretto negli occhi capendo che quelli potevano essere gli ultimi istanti. Avrebbe dovuto tirare le linee sommarie, vedere cos’era stato, chi l’avrebbe pianto, cosa aveva lasciato, se aveva rimpianti ma sapeva che sarebbero state tutte risposte poco felici. Rimpianti molti e forse solo uno sostanziale.
Non aver seguito i propri genitori.
Era un gesto lampo quel che aveva quindi fatto, così veloce che nessuno aveva potuto fermarlo o precederlo.
Un ulteriore pressione dell’indice e l’avrebbe ucciso, sarebbe successo e non se ne sarebbero resi conto se non dopo.
L’avversario si era trovato con la sua pistola premuta sulla fronte e gli occhi azzurri di Alessandro gelidamente e follemente spenti, senza una piega, un dispiacere, un esitazione, una preoccupazione per le altre pistole estratte contro di lui.
- Dovevi sparare subito. Ora morirai. – 
- Già. – 
- Lo sapevi, perché non l’hai fatto? – 
- Chissà … forse ho scrupoli ad uccidere … sono piccolo, no? -
Lo diceva veloce e freddo, con un fondo d’ironia nella voce, come se stesse giocando. Il ragazzo non si muoveva e non dava ordine agli altri di sparare. Aspettava, voleva capire quello strano ragazzo che non aveva paura di morire ma non aveva nemmeno sparato.
- Non è così, la luce che non c’è nei tuoi occhi dice che non hai problemi a sparare. L’hai già fatto? – 
Poteva essere così, poteva veramente essere così ed in effetti come se lo capisse meglio di chiunque altro perché erano della stessa pasta, ci aveva azzeccato, l’aveva fatto per caso ed in futuro, non potevano saperlo, l’avrebbe fatto ripetutamente per difesa, per sopravvivenza. 
- Chissà … -
Giocava ancora, l’altro l’apprezzò.
- Non ti interessa uccidermi? O forse speri che loro uccidano te prima? Sai che ti sparerebbero se tu minacciassi seriamente me. È così? – 
Ridacchiò divertito e rispose:
- Non essere contorto, qualcosa dovevo pur fare, no? In ogni caso morirò, questa era l’unica cosa che potevo fare. – 
- Ma non hai sparato e non lo farai. – 
Era diventato un discorso intimo e profondo, quasi.
- Già … tu sai perché? – 
Forse era vero, forse veramente non sapeva perché l’aveva fatto. 
- Vuoi morire. – 
- Già … - disse tirando fuori in tutta tranquillità una sigaretta ed accendendosela. - … in effetti mi annoio ormai. A quasi 14 anni ho già fatto tutto quel che mi pare. Non so più che fare. Hai ragione, volevo divertirmi e provare ad essere vivo ancora una volta ma non ci sono riuscito quindi rimane l’ultima, unica, grande avventura divertente. – 
- Morire. – 
Aveva risposto l’altro colpito da quella persona. Poteva diventare qualcuno, poteva essere il suo braccio destro. Poteva veramente.
- Vieni con me, ti divertirai fino a sentirti vivo. Non ti annoierai almeno per un bel po’ … - 
Alessandro aveva ascoltato attento, in fondo gli altri l’avevano abbandonato in un momento simile e non erano alla sua altezza, questa gente non aveva scrupoli ad ammazzare, girava con pistole e sembrava sapessero sentirsi vivi. 
A lui in quello stato gli pareva così.
Aveva fatto un sorriso obliquo che non arrivava gli occhi. 
- Ci devo pensare … - 
Erano rimasti a scambiarsi un lungo sguardo.
- Via i giocattoli, ragazzi. – 
Un tono autoritario e tutti avevano fatto sparire le armi, lentamente aveva fatto altrettanto anche lui, gliel’aveva restituita, quando l’altro l’aveva presa si era girato guardando provocatore gli altri, poi squadrandoli per bene con fare stronzo aveva detto:
- Tu vali di sicuro, amico, ma i tuoi sono una banda di perdenti … dovrei unirmi a loro? – 
L’aveva sentito ridacchiare, sapeva che gli piaceva già molto, non l’aveva fatto per questo, solo per sé stesso, perché gli andava, adorava essere libero e fare quel che voleva solo per il gusto di farlo e vedere che succedeva.
- Hai fegato, mi piaci, aspetto presto una tua risposta … intanto credo che loro vorranno risponderti. – 
Lui se ne era andato ed Ale era stato malmenato da tutti i componenti numerosi della banda.
“Lo sapevo, sono prevedibili … “
Non pensava altro mentre dopo aver ricambiato un paio di colpi era stato atterrato e picchiato fino in fondo.
Fino a che … fino a che qualcuno non li aveva fatti andar via.
No, non se ne erano andati per loro volontà, aveva sentito qualcuno arrivare ma i suoi sensi ormai erano andati via, grazie alla fame ed alle forze per il cibo che non aveva ingurgitato per diversi giorni.


/Viaggia insieme a me – Eiffel 65/

Quando aveva aperto gli occhi si era trovato in una casa calda, su un letto morbido, in un ambiente pulito e profumato di cibo, nonché silenzioso.
Non si sentivano rumori di moto, di risse, di urla e di auto che correvano a tutta velocità.
Era tutto calmo e tranquillo.
Quando l’odore di cibo era arrivato al suo stomaco questo si era contratto in crampi potenti di fame, si era mosso ma aveva sentito dolore ovunque e nemmeno la bocca aveva intenzione di farlo parlare, l’avevano colpito in faccia e non riusciva ad parlare senza provare atroce dolore, lo stomaco probabilmente era pieno di lividi come sicuramente il suo viso, lo sentiva tirare come fosse ferito anche al sopracciglio e sotto il naso. 
Dannazione, aveva solo fame però era sicuro che se apriva gli occhi e si metteva a sedere il mal di testa l’avrebbe ucciso.
Però stava bene, era comodo. La prima sensazione piacevole dopo anni ed anni.
Era riuscito a sospirare.
Forse era questo a far sì che l’uomo nella sua stanza che lo vegliava, si accorgesse di lui.
- Buon giorno, caro! Hai dormito per due giorni … sarai affamato! – 
“Porco cane se sono affamato … in totale non mangio da una settimana … sto morendo! “
In effetti lo stomaco gli doleva più per i crampi che per le botte e realizzando questo aveva aperto gli occhi, nell’istante aveva visto il suo salvatore e lì la sua voce gli era parsa familiare.
Lo conosceva?
Poi era riuscito a ricordare, come dimenticarlo?
Era l’uomo più bizzarro e buffo che aveva mai incontrato!
Proprio davanti a lui!
- Merda, di nuovo tu! – 
Avrebbe riso di gusto dandosi del mago per aver pensato a lui proprio ore prima di rivederlo, sul momento però aveva solo voglio di mangiare.
- Non esultare troppo, sono anche io felice di rivederti … certo l’ultima volta eri un marmocchio fastidiosamente maleducato ma nessuno è perfetto! Non ho scoperto chi sei così ti ho portato a casetta mia. Eri svenuto … in realtà ti avevano pestato per bene dopo averti minacciato con delle pistole vere, però tu avevi fatto altrettanto, non è stato intelligente, anche se ammetto che hai avuto fegato a provarci. – 
- ‘Fanculo, ho fame! – 
Che modo di ringraziare era?
- Prego, sono felice di averti salvato la vita! – 
Non si perse d’animo.
- Voglio solo mangiare, poi tolgo il disturbo, rompipalle! – 
Aveva conservato di lui l’immagine invadente, non voleva averci a che fare … e poi sembrava ricco, che voleva capirne lui? 
- Abbassa le alucce ragazzino, dovresti baciarmi le chiappe per quel che ho fatto per te … comprendi? – 
Offeso e diffidente, proprio come un bambino, gli veniva da ridere mentre pensava se non fosse gay. Da come parlava lo sembrava … 
- Sei strano … voglio solo mangiare o non riuscirò ad alzarmi dal letto per andarmene … - 
Non sapeva come convincerlo a nutrirlo e basta, non sapeva farci con le strategie psicologiche ed era semplicemente maleducato di natura.
- Io ti faccio mangiare se tu mi ringrazi, amore dolce! Mi sembra il minimo … e poi per due giorni che non mangi sei esagerato! – 
- 7. – 
- Che? – 
- Con oggi in totale sono 7! – 
Si era stupito apertamente:
- E perché? Fai sciopero della fame? Lo fai per la pace? È nobile, ragazzino, ma pericoloso per uno magrolino come te … anche se noto che sei in forma. Fai qualche sport? – 
Parlava decisamente troppo e sorpreso di trovarsi davanti ad un vortice di parole, rispondeva spiazzato:
- No, non avevo nulla da mangiare, quel poco l’ho dato a mio nonno che gli serviva di più … non faccio sport, la strada è il mio sport. Le risse. – 
Non voleva farsi passare per uno sportivo come lo era suo padre.
- Ecco perché non ti alzi … - 
- Già … -
- Immagino vorrai mangiare … -
- Come ti dice la tua strana testa con le corna … - 
Lui si era toccato teatralmente la testa dove capelli spettinati formavano mille corna scompigliate:
- Sono cornuto? No, mia moglie mi ama … -
Non poté far altro che ridere apertamente, ci credeva. Quel tipo ci credeva veramente alle sue parole, non si capacitava come potesse esistere una creatura così strana ma gli piaceva.
L’aveva capito in un istante, quello che bastava ad un animale selvatico per categorizzare un estraneo.
- Come ti chiami, cornuto? –
Non aveva coraggio, era solo insolente … sempre per il famoso problema del non accettare l’autorità!
L’altro non capiva se scherzasse o meno, comprendeva in un istante solo una cosa essenziale di lui.
- Mi chiamo Jack, tesoro … in realtà Giacomo ma non mi piace, fa troppo Uncino. Così siccome il mio pirata preferito non è lui ma Jack Sparrow, mi faccio chiamare Jack! Non mi trovi somigliante? – 
Alessandro si era passato a fatica le mani fra i capelli ingarbugliati ridacchiando divertito, si sentiva a suo agio, potevano essere compatibili … magari l’avrebbe adottato se gli andava bene e avrebbe risolto tutti i suoi problemi! 
Su questo pensiero gli era tornato in mente il nonno. Due giorni solo, chissà come stava.
In fondo l’adulto era lui, sicuramente era vivo!
Semplificava così, non voleva essere seriamente preoccupato per nessuno.
- Ci somigli come un cactus ad un fiorellino di montagna! – 
Jack aveva spalancato inorridito gli occhi e sempre teatralmente si era alzato in piedi indietreggiando, l’aveva guardato come fosse un insetto che bestemmiava.
- Ma tu sei … sei … sai chi sono? – 
Alzata di spalle.
- Jack! – 
Punto sull’orgoglio aveva detto offeso:
- Sono un adulto, caro … e tu sei piccolo! Porta rispetto! –
Questo aveva fatto scoppiare a ridere di gusto il ragazzo che seppur a fatica e debolmente mostrava insolenza.
Non aveva paura di nessuno, di niente.
Così sembrava.
Si era fatto serio e si era avvicinato guardandolo coi suoi occhi scuri, erano belli e lui era affascinante. 
Gli ricordava un po’ suo padre.
- Sai una cosa? Non sei coraggioso, sei solo insolente … fai le cose perché ti senti libero, quel che fai lo fai per il semplice gusto di farle, solo perché vuoi e basta, per vedere che succede, se accade qualcosa di divertente, degno di nota. Non sei nessun Simba sulla roccia dei Re, in realtà … sei solo un Nemo sperduto nell’oceano infinito! – 
Ale era rimasto serio e veramente colpito da qualcosa, per la prima volta dopo molti anni.
Sconvolto, quasi, dall’aver capito che lui era diverso, che lui l’aveva visto dentro. Non si sentiva più un figo da seguire o temere.
Un nodo saliva in gola, un nodo così grande che gli impediva di sentir fame ma non di provare l’istinto di piangere.
Lui che piangeva.
Ci aveva impiegato anni per diventare quello che era ed ora … ora solo per un uomo così strano tutto finiva nel cesso.
- Perché non sei venuto a giocare a basket? – 
Non voleva parlare, avrebbe pianto, però lui si aspettava una risposta e non voleva mostrarsi emozionato o debole.
- Io non sono bravo. – 
- Bella bugia. – 
- Non ho soldi per giocarci … -
- Ti facevo provare gratis! – 
- E poi che mi ci ri affezionavo dovevo smettere perché non avevo soldi di pagare le tue fottutissime rette di merda! -
- Che problema hai? – 
- Ho una vita intera per dirteli? – 
- Se sono solo soldi … - 
- Si, sono povero e mio nonno non so quanto vivrà! – 
- Se sono solo soldi ti pago io la retta, sono l’allenatore, faccio tacere tutto. – 
- Che ti frega di un moccioso? Hai quel tipo bravo … - 
- Gianluca è solo uno, io ne voglio molti come lui! – 
- Io non sono bravo! – 
- Dovresti fare l’attore! – 
- Che cazzo ne sai tu? Mi conosci? No! Allora non parlare se non sai nulla di me e della mia vita di merda! – 
La testa gli girava poiché si era rivoltato di scatto con un ira crescente, prima era stato solo fastidio poi era arrivata la rabbia, non era facile parlare di questo per lui. Amava profondamente il basket perché oltre ad essere lo sport dell’adorato padre, era ciò che più gli piaceva veramente, che lo faceva sentire vivo e divino, da piccolo. Sapeva che sarebbe stata la sua svolta ma ne aveva paura, aveva paura di non reggere il ricordo del padre che non l’allenava più, di non farcela ad essere alla sua altezza, di piangere ad ogni palleggio che avrebbe fatto. Ed il nodo crebbe ancora in lui.
- Io non so niente, piccoletto, ma nemmeno tu. Se lo sapessi sapresti che io so perfettamente una cosa, ovvero che riconosco alla perfezione con un’occhiata sola un perfetto giocatore di basket, uno che il talento ce l’ha nelle budella. Me l’hanno detto i tuoi occhi di allora e me lo dicono quelli di adesso.-
Lui era veramente uno che non aveva paura.
Veramente.
E che capiva subito chi aveva davanti.
Un dono per uno così stravagante, insolito.
Alessandro si era bloccato a bocca aperta e sguardo shockato ed arrabbiato insieme, voleva ribattere, voleva rispondere male ed andarsene, voleva chiudere di nuovo quel capitolo doloroso eppure sapeva non ci sarebbe riuscito. Sapeva che quegli occhi scuri gli impedivano ipocrisie con sé stesso. Affrontare la realtà … non era presto? Non poteva rimanere nella sua favola marcia ancora per un po’?
- Hai paura del mondo e di vivere, non è che cerchi di sentirti vivo. Sai cosa dovresti fare per esserlo, hai solo paura di vivere. Paura del mondo. Paura di te stesso, di essere troppo felice … perché non te lo meriteresti, vero? – 
Non sapeva quel che diceva, sentiva solo di doverlo dire, perché il suo istinto gli suggeriva che era un teppista così, un teppista per paura di vivere.
Eppure la verità era uscita dalla sua bocca e lo capiva quando boccheggiante Alessandro senza nemmeno la forza di alzare un braccio e coprirsi il volto, aveva lasciato uscire le lacrime dagli occhi, lacrime liberatorie … finché sommessamente a fatica aveva ammesso la verità:
- Non lo merito per loro … - 
Colpa, il senso di colpa è la bestia più terribile per ognuno.
Jack si era sistemato in piedi senza sembrare una normale creatura umana, aveva messo poi le mani in tasca, era serio, così serio da risultare strano più del solito.
- Chiunque sia morto ha diritto di vederti felice. – 
- Anche se loro non potranno esserlo? –
- Tu eri la loro felicità, basta che tu sia felice e anche loro lo saranno. – 
Non ci voleva un genio per capire di cosa parlava, che parlava dei genitori e che era cresciuto come un disadattato perché era senza genitori.
Non ci voleva proprio nulla.
Aveva l’istinto di abbracciarlo ma uno come lui sarebbe scappato. Uno come lui aveva solo bisogno di piangere da solo per capire che era la cosa giusta, per capire che arrendersi era bene e non male, che felicità era il suo merito dopo tanto dolore.
- Loro non possono più aiutarti come sicuramente avranno fatto in passato ma posso farlo io, ne ho il potere, fidati. Tutto ciò che so te lo insegnerò, tutto ciò che ti serve te lo darò fino a che arriverà il giorno in cui tu riuscirai a fare a meno di me e vivrai bene anche da solo. – 
Alessandro faceva fatica a parlare e non gridare per piangere, gridare come allora, faceva fatica ad ascoltare e pensare ma con violenza su sé stesso ci aveva provato, riuscendoci:
- Come farai? – 
- Si può fare qualunque cosa se si decide con serietà. Basta volerlo veramente. – 
Non si trattava solo di basket, non si trattava solo di soldi, si trattava di vita, di cambiare lentamente tutto, stile e modo di essere, di pensare, di agire.
Non era facile ma si doveva fare.
Si poteva fare.
Lui lo voleva perché era stufo di sorridere per finta.
Voleva sorridere per davvero, per felicità.
Un lungo silenzio in cui aveva sentito i suoi singhiozzi, singhiozzi non di un moccioso ma di un ragazzo che già aveva vissuto abbastanza da aver motivo di piangere.
Aveva deciso di lasciarlo solo per un po’ approfittando per andare a prendergli da mangiare, era rimasto serio per uno dei suoi rari momenti anche se le sue posture buffe, come le sue espressioni, non lo denotavano.
Quando era tornato Ale era seduto sul letto, appoggiato alla testiera del letto, con gli occhi asciutti ma gonfi e arrossati, quel che aveva visto era un sorriso timido, lo stupiva.
- Ma non voglio stare in squadra con quel Gianluca … voglio essere il re di una squadra mia, non condividere quel posto con un riccone snob spocchioso! – 
Jack aveva capito che si era arreso ed aveva deciso positivamente per la propria vita. 
Non sapeva come mai ma un moto di contentezza si era fatto strada in lui, come se veramente avesse salvato qualcuno di importante, come se lo sentisse come suo figlio e qualcuno passasse attraverso di lui, magari il vero padre che voleva ringraziarlo.
Credeva in queste cose, credeva in tutto ed era per questo un tipo eccentrico e amato.
Per versi molto simile al futuro Alessandro.
- Va bene. Per ora ti accontento … ma poi dovrai concedermi la mia squadra imbattibile … comprendi? – 
Il sorriso seguito a quest’affermazione mezza scherzosa e mezza seria, era arrivato come una ventata di aria fresca in piena estate.
Era un sorriso sereno, di chi sapeva che da ora sarebbe andato pian piano tutto bene.
Era un sorriso radioso e contagioso, un sorriso che coinvolgeva gli occhi azzurri ed ogni angolo facciale per arrivare fino all’anima, un sorriso che arrivava anche agli altri che lo vedevano e lo ricevevano.
Un sorriso vero.

… tutto il resto è storia … !

FINE