*Questo è l'ultimo capitolo della prima parte che si svolge in Giappone. Non è un capitolo molto felice, sereno e tanto meno erotico. Vediamo un lato di Daiki molto fragile e spaccacuore, ho odiato un po' Taiga, ma non era ancora la persona più matura del mondo e si sa che lui ha sempre agito d'istinto convinto di sapere cosa fosse meglio, con la sua solita testardaggine e spesso ottusità. Daiki ha scoperto che Taiga partirà e la vive molto male, ma per fortuna il basket è e sempre sarà la loro dimensione, dove trovano la loro pace e il loro posto, è la loro comunicazione migliore ed in un modo o nell'altro torneranno a capirsi. Come sempre le fan art non sono mie ma trovate in rete e mi hanno aiutato a scrivere certe scene. Buona lettura. Baci Akane*
9. L’ULTIMA
Avrebbe bussato finché non si sarebbe arreso aprendo la porta, a costo di saltare la partita. Per fortuna Daiki non aveva intenzione di saltarla, perciò dopo un po’ di sonori rumori e chiamate, l’aprì presentandosi col muso furioso a pochi centimetri dal suo.
Senza perdere tempo né cercare di evitarlo ignorandolo, gli prese immediatamente il colletto della maglietta che intanto aveva indossato e lo attirò a sé brutalmente, poi a tu per tu, pochi centimetri a separarli, ruggì:
- Mi hai preso per il culo per una settimana. Una fottutissima settimana. Non me ne fotte da quanto lo sai, ma è da 5 giorni che scopiamo, cazzo. Non pensavi di dovermelo almeno dire?
Taiga ora capiva che forse avrebbe dovuto, ma non l’avrebbe mai ammesso nemmeno sotto tortura. Per questo lo prese a sua volta per il colletto reagendo allo stesso modo.
Male, ovviamente.
Non che potessero parlare e comunicare in modo normale.
In effetti, non comunicavano proprio a prescindere da come.
- Non ti ho preso per il culo! Per me non serve dire a chi scopo che me ne vado! Non sei più importante dei miei compagni! Loro non lo sanno ancora! Dopo averlo detto a loro l’avrei eventualmente detto agli altri!
Non era vero.
Non pensava che lui non contasse.
Non pensava di non essere tenuto a dirgli una cosa del genere, non pensava nemmeno che Daiki venisse dopo i suoi compagni. Non più.
Non dopo quella mattina.
Per questo l’aveva detto prima a lui che agli altri, alla fine.
Ma non poteva più ammetterlo.
Aveva agito sull’impulso del momento, sentendosi pieno di emozioni forti, dovute all’aver fatto sesso con lui in quel modo, ma non poteva farglielo sapere.
Aveva ovviamente sbagliato, avrebbe dovuto rimanere sulla sua idea iniziale e dirlo prima agli altri e giocare la partita.
Avevano faticosamente fatto in modo di andare d’accordo in campo, adesso probabilmente si sarebbero uccisi, pur di non passarsi la palla.
Tutto a quel paese.
“Certo, come se mi importasse qualcosa di quella stramaledetta partita del cazzo, ora come ora!”
Perché era vero.
Improvvisamente non gliene importava molto.
Anzi.
Per nulla.
Daiki lo spinse lasciandolo per non dargli una testata, profondamente ferito dalle sue parole. Non voleva che lo vedesse.
Non voleva che vedesse la ferita enorme che gli aveva appena inflitto.
Non era lo scoparlo e poi l’abbandonarlo.
Era il dirgli che non contava un cazzo.
Ci era cascato e non sapeva nemmeno come.
Quando diavolo era successo?
- Vaffanculo, sei un pezzo di merda come tutti! Non valeva la pena riprendermi la mia anima del cazzo se era per stare così male! Potevi rimanere là fuori invece di entrare a forza nella mia vita e cambiarmela fino a salvarmi! Sei uno stronzo, sei! Con me hai chiuso! - gridò furioso raccogliendo le proprie cose e gettandole alla rinfusa nel borsone, dopo averlo chiuso male a metà per la cerniera bloccata. Dopo di questo si raddrizzò, lo prese in spalla e scuotendo la testa scacciò con la mano Taiga come cercasse di dirgli che non ne valeva la pena, ma si capeva che non era vero.
- Che te lo dico a fare, tanto non te ne frega un cazzo, te ne vai, no?
Non attese una risposta che non arrivò, nemmeno per un disperato litigio nel tentativo di riprendere un po’ di tono per l’imminente partita.
Taiga rimase solo guardandolo andarsene.
Le proprie cose ancora sparse in giro da sistemare e mettere via. Il rumore sordo del silenzio, scaturito in seguito allo sbattimento furioso della porta, gli fece quasi male.
Si morse il labbro sentendosi gli occhi bruciare.
Non era ora di piangere.
Non poteva.
Non doveva.
Aveva deciso la propria strada, doveva percorrerla senza esitare e legarsi troppo a lui, l’avrebbe fatto deragliare perché aveva quel brutto vizio di mettere davanti il benessere di chi considerava importante.
I suoi amici.
Il suo compagno.
Ma Daiki non lo era. Non poteva diventarlo ora. Non lo sarebbe mai stato.
Era meglio ferirlo ora, farlo star male, ma evitare di peggiorare le cose.
“Allora non avrei dovuto dirgli nulla. Dovevo semplicemente partire e basta.”
Diede un calcio alle proprie scarpe che invece di indossare erano ancora a terra. Saltarono per aria per poi spargersi in posti diversi.
“Merda! Non dovevo scoparmelo proprio, ecco cos’è che ho sbagliato! Sono il solito coglione che prima fa, poi pensa!”
Con questo sbatté la porta del bagno facendo un gran chiasso.
Gli occhi bruciavano, bruciava la gola, bruciavano le mani, bruciava il petto, bruciava l’anima.
“Come può gridarmi così che gli ho restituito l’anima? Sei un idiota, Daiki Aomine!”
Ma sapeva di essere lui, l’idiota.
Per non aver capito di essere così importante per una persona che, forse, lo era altrettanto per lui.
Appena gli altri li videro a colazione, capirono subito che c’erano dei problemi fra loro.
Sembrava che le cose fossero tornate indietro nel tempo, a prima di quella settimana. Anzi. Prima delle partite che li avevano conquistati a vicenda.
Non c’era gelo, c’erano le scintille. Però non di quelle da Danger Zone che poi permettevano di fare miracoli.
Quelle scintille da prima volta, da odio profondo, da preludio apocalittico.
Tutti guardarono contemporaneamente Tetsuya in attesa di una spiegazione, convinti che lui di sicuro una ce l’avesse. Perché come minimo sapeva tutto quello che era successo fra loro.
Ma il giovane si strinse mortificato nelle spalle intendendo che non aveva idea di nulla.
In realtà l’aveva.
Cercando di incrociare lo sguardo di Taiga, iniziò a fissarlo insistentemente.
“Glielo hai detto, eh? Ma non era meglio aspettare a questo punto? O glielo dicevi subito o dopo. Ormai a questo punto era ovvio che era sbagliato farlo...”
Ovvio a tutti, perfino a Taiga stesso, ma non per questo era stato capace di agire nel modo giusto.
Convinto che la partita sarebbe stata molto più difficile senza l’attivazione della loro Zona Pericolosa in fase collaborativa, come era successo in allenamento, Seijuro era andato oltre il tentare di capire cosa fosse accaduto e se potesse sistemare. Comunque non era mai stato quel tipo di capitano, quello che anche se capisce, cerca di mettere pace nei problemi dei suoi compagni di squadra. Era sempre stato il tipo che invece trova soluzioni ai problemi pratici, tralasciando le questioni private che li scaturivano.
Se doveva fare a meno dei loro assi nella manica, allora avrebbe dovuto usarne altri, perciò non perse tempo con quei due che, al momento, per lui, erano alla stregua di due bambini deficienti.
Il basket comunque sbaragliò ogni problematica fra loro.
Non si parlarono e non ne parlarono, ma fu come se durante il gioco semplicemente risolvessero.
Fu così naturale che i suoi compagni nemmeno si chiesero se l’avessero fatto, diedero per scontato che avevano trovato un momento per chiarirsi. Altrimenti non si poteva spiegare il ritorno alla loro danger zone.
Quella perfezione di giocate in combinazione.
C’era Tetsuya di mezzo, ma non sempre.
Scattò nel momento giusto, quando non ci fu più nulla se non quello, se non loro due.
Daiki e Taiga, improvvisamente, senza un minimo cenno fra loro, semplicemente ed istintivamente, come facevano sempre ogni cosa, tornarono a connettersi.
“Basket!”, pensò Tetsuya notando che sembravano tornati a posto. “Questi due come sempre comunicano e si salvano solo grazie al basket. Senza quello chissà che fine avrebbero fatto...”
Lo sapeva bene che il basket era vitale nel loro rapporto.
Le cose erano migliorate grazie ad esso e si erano deteriorate perché avevano messo in mezzo altre cose, non legate allo sport.
“Può anche essere che stanno bene insieme solo in un contesto cestistico...” continuò a riflettere Tetsuya, vedendoli trovare delle combinazioni favolose che chiunque si sarebbe sognato.
“Eppure mi sa che troveranno il modo per stare bene insieme anche senza lo sport...”
Nonostante sapesse che Taiga se ne stava per andare, il giovane compagno di squadra lo pensò con una certa convinzione. Come se sapesse che in qualche modo ce l’avrebbero fatta.
Era veramente il basket ad avere merito per averli riappacificati.
Quando era servito, per non perdere contro quella squadra di stronzi contro cui giocavano, la danger zone si era riattivata. La loro esclusiva danger zone. E tutto, come per magia, si era riconciliato.
Entrambi si erano sentiti di nuovo a posto, una cosa sola. Connessi telepaticamente.
Perché non era forse dannatamente bello giocare insieme in quel modo? Riuscire a fare cose che nemmeno ai tempi della Generazione dei Miracoli della Teiko riusciva?
Non era la cosa più meravigliosa riuscire a fare robe assurde con un’altra persona, superare di gran lunga il proprio livello migliore solo perché giocava con lui?
Per entrambi fu come imboccare una strada senza scelta.
Non c’erano alternative.
Se volvano giocare a basket, e lo volevano, era impossibile non apprezzarsi e non divertirsi insieme.
Era impossibile non voler stare così ancora.
Eppure era l’ultima volta, no?
Mentre ricevevano il passaggio finale da Tetsuya, saltarono entrambi per fare l’ultimo canestro della vittoria e quando insieme misero le mani sulla palla, intrecciate insieme, e la schiacciarono nel cerchio facendo un canestro senza precedenti, bellissimo e che nessuno avrebbe mai dimenticato, si sentirono attraversare dai brividi.
“L’ultimo canestro? L’ultima partita? L’ultima volta?”
L’ultima volta così incredibile e meravigliosa insieme?
Era quella la fine di una spettacolare combinazione?
La fine della Danger Zone?
Mentre quella palla rimbalzava per terra, se ne resero conto entrambi, coi brividi che li ricoprivano dalla testa ai piedi, mentre i loro occhi si incontravano di nuovo, mentre le mani si lasciavano dopo il canestro.
“Non sarà la fine! Col cazzo che lo sarà! Non so come, ma non può essere l’ultima volta, questa! Fanculo! Non rinuncerò mai a provare una sensazione simile. Mai e poi mai!”
Pensandolo, Daiki prese istantaneamente la sua decisione.
Senza un solo dubbio, col suo tipico impulso indomabile.
“Andrò in America anche io. Non so come ma andrò da lui, nella sua stessa scuola. Cazzo, se ci andrò!”
Non ebbero bisogno di parlarsi e chiarirsi, stabilire di poter seppellire l’ascia di guerra.
Per entrambi fu chiaro che improvvisamente era tutto a posto.
Si guardarono, si sorrisero esaltati nella loro tipica maniera, col solito ghigno che si riservavano, con quella luce così viva, e si scambiarono il cinque per poi venir assaliti dai loro compagni per la vittoria della partita.
Pensarlo, affrontarlo mentalmente ed emotivamente era un conto, viverlo era diverso.
Daiki non ebbe dubbi, dopo averlo provato sulla pelle.
A quello non poteva rinunciare.
Non avrebbe rinunciato.
Taiga non lo comprese bene, realizzò solo che Daiki ora stava bene e che aveva fatto pace.
Con sé stesso, con lui, con qualunque cosa l’avesse fatto infuriare.
Forse si era arreso, si era detto secondo un minimo di logica. Aveva capito che non aveva avuto scelta.
Ma non ne era convinto. Aveva capito che c’era qualcosa di diverso, in Daiki. Qualcosa che non c’era prima della partita, dopo che avevano litigato. Qualunque cosa fosse, decise che sarebbe andata bene.
I festeggiamenti si erano fatti esattamente dove erano stati per tutta la settimana e dove avevano giocato la partita, nello stesso edificio che li aveva ospitati, l’allenatore aveva allestito un improvvisato festino con bibite e snack vari.
Oltre alla squadra, c’erano anche gli amici dei ragazzi, fra cui tutti i membri del Seirin.
Era il momento, si disse Taiga a quel punto, guardandoli tutti lì insieme su di giri, felici per la vittoria contro il Team Jabberwock.
Adesso non aveva scuse, doveva dirglielo.
Doveva dirgli che sarebbe andato in America e che non si sarebbero più visti. Non era facile, dopo che aveva giurato loro amore eterno, convinto di rimanere con per tutti gli anni delle superiori.
Aveva cambiato idea in modo alquanto volubile, ma era ora di farlo, si disse. Non ce la faceva più a mantenere il segreto, a guardarli in faccia, ridere, parlare con loro e scherzare così pur sapendo che sarebbero state le ultime volte.
Stava per chiedere di uscire che doveva parlargli, quando Daiki lo precedette.
La sua voce non era arrabbiata, ma era tesa in qualche modo.
Taiga si girò a guardarlo, ricordandosi solo allora che prima della partita avevano brutalmente litigato e che forse voleva riprendere il discorso.
Il ragazzo si morse il labbro indeciso se ignorarlo e aumentare la furia che stava probabilmente trattenendo a stento, oppure assecondarlo e permettergli di concludere quella loro non-storia strana di una settimana.
“Almeno questo glielo devo, suppongo...” pensò infine, seguendolo fuori dall’area festeggiamenti, quella che era stata la zona relax per quei sei giorni.
All’esterno vennero schiaffeggiati da una lieve brezza fresca serale. Il cielo era scuro e si vedevano le stelle, sarebbe stato bello, se non si fosse trattato di una questione ovviamente rognosa.
Rognosa non era nemmeno il termine giusto, ma non avrebbe detto ‘triste’. Perché di questo si trattava.
Si sistemarono su una delle ringhiere esterne che delimitavano lo spazioso perimetro dello stabilimento sportivo, Taiga si sedette appoggiando un piede sul ferro più basso, l’altro lo sosteneva da terra. Si afferrò con le mani ai lati e lo guardò camminargli davanti fissando per terra serio.
Daiki era torvo e concentrato, sicuramente era di nuovo furibondo anche se gli era sembrato che prima in qualche modo l’avesse perdonato.
Per un momento Taiga non immaginò cosa aspettarsi da lui e quando il compagno si fermò finalmente davanti a lui, in piedi a poca distanza, forse qualche centimetro, lo fissò con occhi fiammeggianti.
Ma non fiammeggianti di rabbia ed odio.
Fiammeggianti di lacrime.
Gli bruciavano. Taiga sospese sé stesso in un attimo e prima di rendersi conto di cosa stava per succedere, si ritrovò le labbra di Daiki sulle proprie, mentre una mano gli scivolava sulla nuca per tenerlo fermo.
Tremavano, le sue labbra. Ma si fermarono intrecciandosi alle proprie e lo sentì rilassarsi nel baciarlo, nell’infilargli la lingua e nel trovarlo.
Taiga rispose e gli mise una mano sul fianco, accettandolo ulteriormente.
Era un addio.
Lo capì mentre realizzò che quel bacio iniziava ad essere più bagnato e amaro di quanto non avrebbe dovuto essere.
Percependo infine il suo respiro tremare, Taiga si fermò e sollevando le braccia gli cinse il capo, immerse le dita fra i suoi capelli e permise a Daiki di nascondere il viso contro il suo collo e poi giù sulla sua spalla. Lo sentì ricambiare l’abbraccio, lo sentì anzi aggrapparsi alla maglia sulla sua schiena e stringere e tirare, mentre usava una forza immane per tenerlo a sé.
- Ti ringrazio per avermi salvato. Non rimpiango niente e fai bene a seguire i tuoi sogni. Anche io seguirò i miei e spero che si incroceranno di nuovo. - sussurrò senza aggiungere altro, cercando di gestire quelle lacrime traditrici.
Prove di un’anima ormai restituita da tempo proprio dal ragazzo che ricambiava il suo abbraccia sentendosi sempre più un’ancora di salvezza.
“Spero non torni ad affondare, senza di me.” pensò con la consapevolezza di ciò che era per lui e che aveva fatto.
La prima volta, forse, che lo ammetteva.
- Sicuramente ci rivedremo in America, perché tutti e due sfonderemo nell’NBA. - rispose Taiga senza rifletterci molto.
In realtà non immaginava come avesse ragione, come anche Daiki si fosse emotivamente ripreso, nonostante le lacrime e la tristezza momentanee, grazie a quel pensiero.
“Ti raggiungerò. Vedrai. Ma non te lo dico perché un giorno mentre giocherai a street basket da qualche parte, arriverò, ti ruberò la palla e ti batterò come sempre, tornando ad innescare subito la nostra danger zone.”
Daiki si figurò la scena di un futuro probabilmente non molto lontano. Poi sorrise cessando finalmente il suo pianto.
Sì che ce l’avrebbe fatta. Riusciva in tutto ciò che voleva e questo lo voleva. Cazzo, se lo voleva.