*Andate
in fondo e passate al nuovo capitolo...*
(La
stellina e il corsivo indica che parla Efestione, due stelline e
scrittura normale Alessandro)
Un'Altra
Storia
*Non è facile parlare di qualcuno che ti ha
dato
così tanto da permetterti di vivere di rendita per il resto
della tua lunghissima esistenza.
Se adesso ci sto provando è
solo perché ho un debito di riconoscenza verso chi mi ha
tolto
dall'oscurità, regalandomi di nuovo la speranza.
Speranza
che mai aveva abbandonato la mia anima ma che stava languendo,
sterile e vuota, davanti a colui che non mi voleva più.
Era
tutto li il mio tormento.
Alessandro non sembrava più
interessato a me.
Io ero li ad attenderlo, aspettavo un suo cenno,
qualcosa che mi facesse capire che mi sentiva ancora, che avevo
ancora motivo di sperare ma lui...restava chiuso in stesso.
Non si
apriva, non tornava da me.
Eppure...eppure io continuavo a
rimanere li.
Assurdamente, tenacemente... come solo chi è
profondamente innamorato poteva fare...o pazzo.
Il che non è
che sia molto diverso.
Alessandro era , è la parte più
profonda di me stesso.
Quella che non riesci mai a toccare,
quella che resta sempre sepolta in te affinché gli altri non
possano portartela via.
Oh...tutti sapevano che ci amavamo, ma
proprio tutti.
Non c'era nessuno che aveva dei dubbi in proposito
e non si sognavano di metterlo in discussione, nemmeno prima, quando
lui era il figlio del Re, un Re che era soprattutto un
conquistatore.
Quando poi prese il posto di suo Padre fu chiara
una cosa: Io ero suo.
Chiaro e limpido questo concetto rimaneva
sospeso tra tutti quelli che ci conoscevano e pensavano che la nostra
fosse una semplice passeggiata.
Una cosa da niente, giusto per
scaldargli il letto prima che lui salisse al trono.
La prima cosa
che fece quando diventò Re fu quella di venire in camera mia
ogni sera, quando non mi mandava a chiamare.
Quello che stupì
tutti fu la mia presa di posizione: Nessuno doveva mettersi fra noi.
Nessuno.
Se io ero di Alessandro lui era mio e questo non andava
messo assolutamente in discussione.
Tra tutti noi io ero il più
forte fisicamente, nonostante il mio corpo agile.
E pericoloso.
E
avrei usato ogni mezzo umano e non per impedire di fargli del male.
O
di portarmelo via. E Nessuno ci avrebbe nemmeno provato, fino a quando
io ero al suo
fianco.
**La
cosa che più mi colpiva era l'assenza di luce.Ero diventato
oscuro e nero come la notte. Non una notte qualsiasi però,
una
notte senza stelle e senza luna. Senza più nulla che potesse
orientarmi nella foresta impenetrabile in cui ero entrato
volontariamente.Non credevo più in nulla e in nessuno,
sopratutto in me stesso. Gli dei a cui in vita mi ero rivolto mi
avevano deluso profondamente, tanto da farmi perdere totalmente la
fede in loro.Gli uomini erano un pensiero lontano e negativo.Non ero
più nessuno e così mi andava bene, non desideravo
altro. Non desideravo più niente e nessuno. Il suo pensiero
era un sogno. Ero convinto che
Efestione non fosse reale ma un parto della mia fantasia malata.Un
ricordo di quando pensavo che ogni cosa fosse nelle mie mani, che lui
fosse mio, soltanto mio, e che ne dei ne esseri umani potessero
togliermelo. Ero pronto a uccidere per questo. Invece Efestione se
n'era andato, strappato vilmente da vigliacchi che avevano paura del
potere che avevamo insieme.Gelosi di lui. Di lui a cui bastava uno
sguardo più intenso per avermi accanto.Una mano tesa per
desiderare di afferrarla.La sua voce per volerlo con me.
Ho
imparato a non fidarmi di nessuno.
Se
da ragazzino era così ingenuo da credere almeno nei miei
migliori amici, in coloro che sono cresciuti con me e con me hanno
condiviso ogni cosa, crescendo ho imparato che quando ci sono terre,
oro e persone da assoggettare a te non esiste più
fedeltà
ne amicizia, mere parole che usi per avvicinarti a chi ha quello che
tu vuoi.Non mi fidavo più di nessuno, forse soltanto in uno
,
due a malapena. E Efestione. Su di lui non ho mai
avuto dubbi.
L'altra parte di me, quella pulita. La mia ragione. Colui che sapeva
cosa avevo con uno sguardo soltanto. Colui che vegliava su di me al
posto di quegli dei inesistenti. Ora lo so. Ora che
sono qui so che non c'è nessuno oltre a me stesso. E
all'oscurità. Così fino a
quando la voce di Efestione non ha passato la barriera oscura che
avevo costruito io stesso. Con le mie sole forze. La sua voce e una
dolce melodia nostalgica, piena d'amore e di fede. Quella fede che
per me era diventata utopia. E di
forza. Ma di questo
parlerò un'altra volta.
Non
avevo paura.
Così
come non ne avevo in vita se morire voleva dire permettere a lui di
vivere non ne avevo li, davanti a lui, nell'oscurità
più
totale.Sentivo distintamente che c'era qualcuno oltre a noi, qualcuno
che mi stava aspettando. Che si fidava di me fino al punto da non
forzarmi. Non faceva nulla per obbligarmi a tornare. Aspettava. Come
chi è sicuro della profondità del Suo amore.
Tornare.
Tornare a casa. Questo era quello che proveniva da Colui che mi
chiamava. Ma io da solo, senza Alessandro, non potevo muovermi. Senza
di lui non avrei fatto un passo e sentivo confusamente che Chi mi
stava aspettando era contento. Era questo che voleva anche Lui. E
così restavo li. Li nell’oscurità.
Guardando colui
che un tempo era Alessandro, con l’assoluta certezza che non
l’avrei lasciato al suo destino oscuro.*
**Casa.
Questa
parola per molti vuota e senza senso era per me il mio obiettivo, il
mio sogno. Ed ero fermamente convinto di riuscirci. Si. Avrei fatto
di tutto il mondo conosciuto un’unica casa, sotto una sola
bandiera. Con un unico Re. Io.Pensarci adesso, adesso che sono qui
davanti a me stesso e all’oscurità sembra
utopistico. Follia
pura. Eppure allora era sensatissimo. Perché no? Io non
volevo
“comandare” un popolo di schiavi sconfitti ma un
unico grande
popolo, fatto di culture diverse, di credo diversi ma uniti da un
unico cuore che avrebbe creduto in loro, badato a loro. Comandato su
di loro senza togliere loro dignità e orgoglio. Ma non ho
saputo accontentarmi. Volevo sempre di più, era diventata
una
droga per me. Non ne avevo mai abbastanza, come una droga appunto che
ti entra nelle vene, circola nel sangue e non ti abbandona
più.
L’unico che mi restava sempre vicino senza dire una sola
parola a
riguardo era lui, Efestione. Non cercava di convincermi a fare cose
che in realtà voleva lui, non voleva impormi la sua
volontà.
Lui voleva solo starmi vicino. Niente altro. Adesso che la sua voce
è
così vicina, adesso che la barriera
dell’oscurità ha
rotto gli argini costruiti con cura da me stesso e i ricordi entrano
con prepotenza mi rendo conto che Efestione non ha mai smesso di
credere in me e di amarmi. Come quando eravamo in vita anche adesso
fa la guardia alla mia anima così come prima la faceva al
mio
cuore, affinché io non potessi mai sentirmi solo. E con lui
mai lo sono stato. Come ho potuto dimenticarlo? Come ho fatto a
pensare che ogni cosa fosse cessata di esistere con la mia morte? Con
la nostra morte? Dovevo immaginarlo che la sua volontà era
più
forte della nera compagna che avevo voluto e bramato da quando il suo
respiro era cessato tra le mie braccia.
**
*Nella
notte che mi circondava si era aperta una breccia.
L’oscurità
attorno a lui non era più così densa, tutto qui.
Questa
era la breccia che sentivo, il piccolo appiglio a cui mi aggrappavo
per non farmi afferrare dalla disperazione che sentivo incombere in
me, attorno a me. Non era densa, vischiosa, terribile.
Era…quasi
amica. Dopo…quanti secoli? Millenni forse… non
so. La terra, per
quel che ne so, avrebbe anche potuto smettere di esistere. Non vuol
dire che non me ne importava ma che, semplicemente, non mi distraevo
un attimo. Ogni mia “energia” era tutta li, in lui.
Per aiutarlo,
per dargli calore, amore, fiducia. Non potevo permettermi di spendere
le mie forze per guardare altrove. Ma sapevo che la vita stava
continuando, lo sentivo in me. Negli ultimi tempi una
volontà
più forte della mia mi obbligava quasi a ricordare. A
ripensare ai momenti in cui lui era accanto a me, quando pensava di
essere lui a proteggermi e io glielo lasciavo credere. Quando mi
faceva arrabbiare perché non aveva cura di se stesso, non
pensava minimamente a lui e poi pretendeva che io, invece, lo
facessi.
“Parlami
di Alessandro”.
Questo
quello che sentivo in me. Come parlare di lui a chi non lo aveva mai
visto? Non ci aveva mia visto? Eppure tutto questo mi stava facendo
rivivere, in una maniera diversa da quella fatta fino ad ora.
Rivivere interiormente, non rinascere ma rivivere in modo tale da
indurmi a pormi delle domande pericolose. Quali ”ma io,
fin’ora,
che ho fatto veramente?” E io, per lei, per quella
volontà
che vedevo come luce calda, caldissima nel freddo in cui ero immerso,
ricordai E raccontai chi era Alessandro.
*
**
Stupore.
Quando
quella melodia mi riempì penetrando nella morte che mi ero
preparato quello fu l’unico sentimento che provai,
un’immenso
stupore. Come faceva a penetrare fin li quella musica? Non so se
erano già parole per me, per il momento quello che
distinguevo
era soltanto… musica. Assoluta musica per l’anima
mia che credeva
di non esistere più. E la sua musica mi portava alla memoria
un’altra, più antica. Quella che suonava per me il
mio servo
Persiano nelle notti in cui Efestione non poteva venire da me. Quando
stava male o era semplicemente via per seguire una parte del mio
esercito.
Il
mio sogno che lo teneva lontano da me. E questa musica era
l’unica
che mi dava pace. Ricordo una notte particolarmente difficile per me.
Sentivo acuta la sua nostalgia. Era poco più di una
settimana
che era via ma per me il tempo si era fermato nell’attimo in
cui
lui era partito. Senza di lui la vita li dentro mi era insopportabile
e già smaniavo per andarmene, per combattere…
qualunque
cosa…purché potessi uscire da li. Con lui
chiaramente. La
musica stava diventando via via sempre più debole, fra poco
non mi sarebbe bastata più, volevo lui, e basta. Due mani
calde presero il posto dei miei occhi e due labbra umide si posarono
sui miei capelli, mentre la melodia si spegneva per lasciarci soli.
Era
tornato.
Da
quella volta non lo lasciai partire mai più da solo. Mai
più.
Almeno fino a quando me lo strapparono dalle braccia,senza vita.
**
II
CAPITOLO
* Parlare adesso che la
luce ha avvolto la mia, la nostra esistenza,
di ciò che
eravamo prima, non è facile.
Adesso che sai
cos'è l'Amore, come fai a parlare di quello che
scambiavi per Esso?
La felicità,
quando avevamo un corpo, era stare insieme.
Un fuoco con gli amici,
il calore del vino che ti scivola in gola, il
mantello a scaldarti la
pelle e il suo sguardo per scaldare il cuore.
Questo, bastava per dire
a me stesso, che stavo bene e non desideravo
altro.
Leggere nei suoi occhi
la gioia che gli dava affondare lo sguardo nei
miei...
Avere la conferma che io
ero con lui.
Gli amici erano tali di
nome. Pochi di fatto.
Il vino dava l'illusione
momentanea di forza e di effimero benessere.
Il giorno che moriva,
portava con sé le debolezze, le fragilità, di
uomini che si illudevano
di essere grandi con la forza.
Eppure ci dicevamo
felici... quanto eravamo presuntuosi!
Adesso che vivo un
presente perenne, adesso che nella mia anima c'è
davvero l'Amore, so che
quando siamo sulla terra ci affanniamo per
le cose sbagliate e
rischiamo di perdere di vista l'essenziale.
Quello che è
invisibile agli occhi ed è racchiuso nella parte
più
profonda di noi...
Quanti giri di chiave ha
il nostro cuore?
Quante volte abbiamo
sotterrato la nostra capacità di amare?
Me ne stavo
lì a vegliare su di lui e questo bastava a me stesso per
dirmi felice.
Non chiedevo altro agli
dei che quello:
Vegliare, proteggere,
soccorrere il mio Re, colui che per me lo
era, prima ancora della
morte di Re Filippo.
Alzare lo sguardo
sull'uomo divenuto tale, contro ogni legge e regola
umana, per forza di
regalità.
Per diritto di nascita.
E trovarsi davanti la
ragione della mia vita.
Solo questo contava per
me. Niente altro.
Non rimpiango nulla di
quello che ho vissuto, provato e fatto sulla
terra.
Ma se avessi avuto la
coscienza che ho adesso, se non l'avessi fatta
dormire sotto strati di
polvere... polvere che erano le mie certezze
e le mie convinzioni,
avrei potuto dire veramente a me stesso, di
averlo amato con tutte
le mie forze.
E di essere stato
felice. *
**Che cos'era per me la felicità?
Non mi sono mai fermato a chiedermelo.
In effetti non era importante in quel momento.
Io vivevo nel presente, consapevole che ogni attimo passato insieme
era una conquista dura e faticosa.
Una conquista mia però, soltanto mia.
Da non dividere con nessuno.
Bastava, a far diventare degna una giornata, il suo sguardo che
scivolava su di me, i suoi occhi scuri che cercavano i miei, che li
accarezzavano.
Che bruciavano di un fuoco soltanto mio.
Per me lui era l'ancora di salvezza e, come ogni ancora, mi bloccava
lì, al suolo, fermando con la ragione i miei voli altissimi,
e
impedendo così cadute rovinose.
Anche se non ci riusciva sempre.
- Come si fa a impedire ad un falco di volare?- Impossibile.
Non mi ha mai abbandonato, nemmeno quando il mio comportamento
rendeva vana ogni ragione, ogni pensiero razionale.
Ed è stato il primo che ha creduto ciecamente in me, che ha
messo sul
mio capo quella corona simbolica, che faceva di me il condottiero
della Magna Grecia.
Colui che avrebbe riunito sotto la sua bandiera, tutte le terre
conosciute.
Ricordo come fosse adesso, l'ultimo mio colloquio con mia madre.
Mio padre era appena morto e il sospetto che lei ne fosse l'artefice,
non dava pace al mio spirito e faceva vacillare la mia mente.
Volevo da lei una rassicurazione, che non è mai avvenuta.
In lei leggevo solo odio, un odio sconfinato, che la stava
avvelenando e che mi stava togliendo le forze.
Come riuscii a non metterle le mani addosso, solo il cielo lo sa.
Il cielo così immobile e chiuso sui nostri piccoli drammi.
Chiedevo invano un aiuto, a chi non era altro che polvere e
immobilità.
Statue vuote, dei inesistenti e crudeli come solo l'uomo sa esserlo.
E fu in quel momento che capii di essere solo.
Ero solo!
Potevo contare solo su me stesso e sulle mie capacità.
Sul mio cuore che batteva nel petto.
Sul sangue che scorreva nelle mie vene.
Uscii dalle sue camere senza forze, devastato nel profondo.
E vidi Efestione che mi stava guardando dai giardini.
Era con qualcuno, stavano parlando.
Eppure, appena io passai accanto alla terrazza e mi fermai a
guardarlo, lui volse la testa.
Lentamente, tutto il suo corpo si voltò verso di me.
Si protese, richiamato dal mio sguardo.
E io ritrovai la ragione.
Non ero solo.
Anche se il mondo mi avesse voltato le spalle, io non ero solo.
Abbassò leggermente il capo e io, contro ogni logica, contro
ogni
apparente ragione... gli sorrisi. **
* I suoi sorrisi.
Quanto erano rari e
quanto erano preziosi.
Non parlo di quelli
fatti con gli amici mentre si mangiava e si
beveva.
O di quelli di
circostanza, dovuti quasi.
Ma dei sorrisi veri,
profondi, unici in quanto sentiti.
Non aveva molte cose su
cui ridere.
Il peso di un regno che
era diventato precocemente suo, un regno che
lui non voleva come
peso, ma come amore.
Amici che tramavano alle
sue spalle.
Generali che lo vedevano
troppo giovane.
Una madre malata, che lo
amava malsanamente e si serviva di lui...
Come poteva trovare
qualcosa per cui sorridere, in mezzo a tutto
questo?
Eppure qualche volta lo
faceva.
L'ho visto sorridere
davanti a un gioco di bimbi.
L'ho visto sorridere
davanti a una nuova vita, qualunque essa sia.
E ogni volta il suo
animo si apriva, facendomi intravedere l'uomo che
serbava nel profondo.
Quando poi sorrideva a
me, a me che ero nulla davanti a lui, mi
rendeva consapevole
della mia fragilità.
Del mio essere come cera
calda nelle sue mani.
Mi modellava con i suoi
sorrisi rari, mi uccideva a me stesso,
facendomi rinascere in
lui.
Quando andò a
parlare a sua madre, subito dopo la morte di Re
Filippo, fu il momento
peggiore della sua vita.
Quella vissuta e quella
ancora da vivere.
Cercava negli occhi di
chi l'aveva messo al mondo, una conferma alla
sua innocenza.
Il mio Alessandro.
Era diventato Re di un
popolo immenso e si rifiutava di credere che
sua madre arrivasse a
tanto.
Rivoleva indietro le sue
certezze, la sua seppur fragile umanità, che
derivava in gran parte
dall'amore per colei che gli aveva dato solo
rancore e odio verso chi
l'aveva resa schiava delle proprie passioni.
Ne uscì
sconvolto.
Aveva sul cuore un peso
immenso e l'anima ,completamente solitaria, si
cibava di dolore e
distruzione.
Deluso per l'ennesima
volta dal cielo immoto.
Privo del Padre e ora,
definitivamente, anche della madre.
Io stavo parlando nel
cortile con uno dei figli di un generale di suo
padre.
Un uomo giovane che
aveva verso di me del rispetto, misto a timore
reverenziale.
Mi guardava anche con
curiosità, che derivava probabilmente dalle ore
passate a chiedersi se
era vero quello che dicevano di me.
E con desiderio.
Io gli piacevo, lo si
capiva subito.
E se questo, in parte mi
faceva innegabilmente piacere, allo stesso
tempo, mi infastidiva
tantissimo.
Non volevo che qualcuno
potesse guardarmi in quel modo.
Quel modo
particolarmente caldo e avvolgente.
Io appartenevo a una
sola persona, anima e corpo.
Sentii su di me il suo
sguardo, prima ancora di percepirne la
presenza.
Trafiggeva il mio corpo
e quello del ragazzo accanto a me.
Come una freccia
scoccata in maniera precisa ed efficace la sentivo
colpire in
profondità e lasciarmi dentro tutta la sua disperazione
per essere rimasto solo.
La sua ira, per lo
sguardo di quel giovane uomo incosciente.
Il suo amore che mi
invocava...
Mi voltai lentamente
verso di lui, mentre già il mio essere, in tutta
la sua completezza, si
protendeva verso la fonte della sua esistenza.
I suoi occhi dorati,
profondi e capaci di piegare qualsiasi volontà,
mi incatenarono.
Mi fecero intravedere i
suoi abissi imperscrutabili.
Mai gli avrei permesso
di restare solo.
Mai.
E questo lui doveva
saperlo. Se davvero mi conosceva a fondo.
Mi inchinai a lui, al Re
che era diventato. All'unico essere che mai
se lo meritava.
Al proprietario delle
mie emozioni.
E lui mi fece vedere
quanto era grande il suo amore per me.
Con il suo sorriso. *
**L'ultima notte che passai nel palazzo dove c'era mia madre fu la
più intensa della mia vita.
E pensarci adesso che vedo oltre e che sento ogni cosa me la rende
ancora più cara.
La passai con lui.
Infischiandomi di coloro che vedevano tutto lo mandai a chiamare, non
volevo restare solo in quelle stanze pensate da "lei" per me.
Sarei definitivamente impazzito.
Del resto era normale per tutti, come se avessi mandato a chiamare
una donna.
Quello che cambiava per loro era che lui era Efestione, uno di "loro".
E avevano paura del potere che aveva su di me, ora che ero il Re.
Lui non era manovrabile e il suo amore per me era più forte
di ogni
cosa.
Ed era forte.
Molto più di tutti loro.
Lo temevano e in quel momento iniziarono ad odiarlo.
Quando eravamo insieme racchiusi l'uno nell'amore dell'altro, mi
decisi a fargli quella domanda.
Quella domanda che era un'affermazione ma che mi faceva sentire in
una qualche maniera vulnerabile.
<< Quel ragazzo ti ama>>
Tutto qui.
Del resto era una cosa certa.
Forse inutile ma certa.
Sentire il suo sorriso senza vederlo, sulla mia pelle mentre gli
cingevo le spalle.
E la sua frase che mi fece capire quanto il resto del mondo non
esisteva più per lui.
Quanto la sua vita ruotasse su di me.
<< Non importa>>
Basta.
Solo questo.
Non importa.
E lì disse tutto.
Lo amai quella sera come mai io avevo amato.
Con ogni fibra di me stesso.
Con ogni cellula del mio corpo.
Con tutto il mio sangue.
Eravamo noi due soli in un mondo che mi accingevo a fare mio ma che
non capivo.
E che mi rifiutava.
Mandai lontano quel giovane uomo.
Lo mandai in una delle terre di mio padre, con una scusa più
o meno
buona.
Non perché avevo paura che Efestione cedesse ma
perché non volevo che
il piccolo si illudesse ulteriormente.
Mai lo avrebbe amato.
Mi ero scoperto geloso e possessivo e per il suo bene era importante
che lo tenesse ben presente.
Quella notte scaldò la mia anima per molto, molto tempo. **