17. IL FILM DEL PASSATO
Era come se si stesse svegliando da un incantesimo che l’aveva tenuto in uno stato di trance.
Da lì, lentamente, i suoi occhi si stavano aprendo e finalmente vedeva.
Aveva vissuto una vita intera chiuso in una fortezza di ghiaccio ed era stato così bravo a barricarsi dentro, che aveva finito per non provare più niente e dimenticarsene.
Dimenticarsi che una volta, invece, i sentimenti li aveva provati e che semplicemente li aveva congelati fino a scordarli.
Perché l’aveva fatto?
Forse perché quei sentimenti che da ragazzino aveva provato così facilmente, gli avevano non solo complicato la vita, ma erano stati anche motivo di grande dolore e vergogna.
Chiuso nella sua camera poiché non c’era uno studio dentro cui stare, passava le ore se non gran parte del giorno a pensare alla sua vita, alla sua infanzia e ad ogni momento significativo che poteva averlo trasformato in quell’automa privo di cuore ed emozioni.
La corazza l’aveva fatta saltare via Zlatan, ma una volta qualcuno l’aveva messa lì.
L’aveva messa lui, perché non ci era nato.
Cercando di risalire all’origine del suo gelo, realizzò d’aver dimenticato cose importanti, che non avrebbe mai dovuto.
Fu grazie ad una lunga conversazione con sua madre, chiamata proprio da una preoccupata Elina che lo vedeva sempre più chiuso e depresso visto anche come si faceva crescere capelli e barba, che se ne rese conto.
Fu lei che l’aiutò a ricordare e fu come un pugno allo stomaco, scaturito da un flash portato da una sua frase.
- Vuoi sapere da quando hai cominciato a chiuderti tanto in te stesso?
Insieme avevano ricordato, come anche era nella memoria confusa di Simon, che da piccolo era un bambino aperto e sorridente, molto disponibile, socievole ed espansivo. Ma ad un certo punto qualcosa era cambiato, in lui, fino a chiudersi in quel modo, mettendo a debita distanza il mondo intero e facendo solo finta, talvolta, di avvicinare qualcuno.
Come Elina, in quel caso.
Fino all’arrivo prepotente di Zlatan che con martello e scalpello aveva buttato giù mattone per mattone tutto il suo ghiaccio.
- Quando hai iniziato a fare calcio con più serietà. - le disse infine.
Simon, attento, percepì come una sensazione. Era la volta buona.
- Perché? - lei, come se capisse cosa stava cercando, proseguì calma, ma non come se stesse per raccontargli un segreto inenarrabile, bensì come una cosa di cui lei stessa era stupita che lui si fosse dimenticato.
- Hai iniziato a legare coi tuoi compagni, facevi gruppo con molti di loro, ma con uno in particolare ti sei legato tanto. Andavi alle medie, se non ricordo male.
I brividi corsero lungo la spina dorsale di Simon che si raddrizzò di scatto sul letto, vestiva una maglietta larga e sgualcita e dei pantaloncini larghi perché erano più comodi da mettere col tutore. I capelli lunghi e selvaggi erano legati in una coda scomposta e disfatta, la barba sempre più lunga ed ispida, mai pettinata e sistemata, così come i capelli stessi.
- Con un mio compagno di calcio?
- Sì...
- E ti ricordi come si chiamava?
Lei a quel punto gli disse il nome perché lo ricordava bene, ma nella mente di Simon non suonò alcun campanello. Non lo ricordava e impallidì nel rendersene conto. Come poteva non ricordarlo?
- Non lo ricordi? - lui confermò. - Strano, eri molto legato a lui, sognavate di andare insieme nelle giovanili del club in cui poi sei entrato.
Parlava del Midtjylland, il primo club serio dove aveva militato, ci era entrato a 15 anni, prima aveva giocato a calcio in un associazione sportiva della città in cui era cresciuto.
Simon continuava a non ricordare.
- Beh, niente, ad un certo punto hai litigato con lui, ma non mi hai mai voluto raccontare cosa fosse successo. Non l’hai mai detto a nessuno, sappiamo solo che è stato così brutto che ti si leggeva in faccia e sei stato chiuso in camera a lungo, uscivi solo per andare a scuola, ma hai saltato calcio per un periodo, pensavamo volessi smettere. Poi hai ripreso quando hai saputo che lui se ne era andato e aveva lasciato la squadra. Da allora tu sei stato più chiuso e composto, ma visto che sembravi esserti ripreso non abbiamo voluto approfondire. Era chiaro non volevi parlarne e ti abbiamo rispettato. Però non so cosa sia successo.
La conclusione di quella rivelazione sconvolse Simon, il quale non si rese conto che la madre aveva smesso di parlare.
Fissava ad occhi sbarrati la parete dove c’era un’ampia finestra, era giorno e le saracinesche erano aperte, ma il sole era mitigato da un tendone chiaro.
Il sole illuminava la camera carezzandolo indirettamente, filtrato dalla stoffa, però lui non sembrava più essere lì.
Come un flash che ti colpisce con uno schiaffo in faccia, si sentì trascinato ai tempi dell’associazione sportiva, quando aveva fatto calcio agonisticamente, prima di entrare nel professionismo.
Per un momento delle immagini, una forma, un volto riaffiorò, ma la sensazione sfuggì quando sua madre lo richiamò più forte, preoccupata del suo silenzio.
- SIMON! - egli si riscosse.
- Sì? - rispose come niente, tornando composto e pacato.
- Che è successo? Non rispondevi più...
- Sì io... non ricordo questa persona. Hai mica una foto di calcio di quel periodo?
Sapeva che aveva conservato tutte le sue foto da piccolo, perciò andò a colpo sicuro con quella richiesta.
Sua madre ovviamente confermò e comunicandogli che gliel’avrebbe mandata tramite il telefono, lo lasciò andare.
Una volta di nuovo solo con sé stesso, Simon tentò di auto ipnotizzarsi come prima, cercando di ricordare quel che era successo.
Fissò lo sguardo verso la finestra come a richiamare una di quelle giornate di calcio da adolescente.
Aveva pochi ricordi della sua infanzia, frammenti vari, ma niente di chiaro e particolare.
Quando si concentrò su uno di quei flash, una partita dove era stato particolarmente bravo ed aveva ricevuto i complimenti di tutti, lentamente il film cominciò a girare nella sua mente.
Quella era stata la prima partita dove aveva capito che il suo vero ruolo era il difensore, fino a quel momento aveva come tutti ricoperto i ruoli che servivano, ma non aveva mai avuto una vera e propria vocazione, fino a quel giorno, quando era diventato una sorta di muro. Non aveva fatto passare nessuno ed aveva ricevuto i complimenti di tutti, ma su ognuno ricordava una mano che gli aveva arruffato i capelli biondissimi, quasi bianchi.
La sensazione di gioia trasmessa da quella carezza, lo sconvolse per quanto ricordò essere bella.
Era felice, all’epoca, ma soprattutto...
- Ha ragione... - disse a sé stesso. - avevo un amico speciale...
Si ripetè il nome che le aveva detto sua madre e lentamente qualcosa pareva riaffiorare, come la consapevolezza d’averlo nominato spesso.
Ricordava altri nomi di compagni di squadra dell’epoca, non tutti, ma certi. E ricordava l’allenatore.
Ma lui faticava molto.
“Avrò litigato, ma come posso averlo dimenticato?”
Non se ne capacitava, ma intenzionato a venire a capo di quella stranezza che sentiva essere importante, tornò a concentrarsi sugli altri ricordi di quel periodo.
Ora ricordava quel ragazzo, ma solo che c’era stato e che erano stati amici. Il viso non c’era verso di focalizzarlo, fino a che sua madre trovando una foto di squadra, gliela spedì col cellulare.
Quando la vide fu come tuffarsi del tutto in un oceano da un’altezza esagerata.
Schiantatosi con la superficie, si traumatizzò sentendo un dolore senza precedenti, ma dopo lo shock si ritrovò immerso nel mare dei ricordi.
Ricordi che finalmente erano tutti lì al proprio posto.
Ora ricordava, ora ricordava veramente tutto.
“Ecco da cosa ha avuto inizio ogni cosa... Dio, ma come ho fatto a dimenticarlo? Ho sofferto così tanto?”
E mentre lo riviveva con la mente, si rese conto che le lacrime scendevano lungo le sue guance pallide, perdendosi nella barba ispida e lunga.
Se le toccò sconvolto con le dita senza però vederle veramente.
In quello, la porta della camera si aprì facendolo saltare spaventato, ma appena i suoi occhi misero a fuoco un sorpreso Zlatan, subito si sentì meglio, come sciogliere.
Allungò le mani verso di lui, ricordandosi che Elina era uscita per portare i bambini ad attività e che aveva detto a Zlatan di passare.
Entrato con le sue chiavi come di consueto, si affacciò in camera non trovandolo in altre stanze.
Era strano, di solito quando sapeva che doveva venire si faceva trovare in salotto.
Ormai stava meglio e non doveva nemmeno stare per forza sempre sul divano, a volte stavano in cucina.
Facendo capolino e vedendolo, realizzò subito che doveva avere qualcosa e lo capì prima ancora di mettere a fuoco i suoi occhi e le sue lacrime sulle guance.
Simon era seduto in una posa plastica, come se fosse una sorta di vegetale, come se fosse lì solo col corpo ma non con la mente.
Quando si voltò verso di lui per vedere chi era arrivato, Zlatan capì che non si era ricordato del suo arrivo, ma non fu quello a stupirlo quanto il suo viso shoccato.
Poi capì che piangeva.
Zlatan si agghiacciò e si irrigidì.
“Ci siamo? Mi lascerà?”
Fu il primo pensiero che ebbe, ma appena vide che allungava le braccia e le mani verso di lui, come un bambino che chiede di essere preso in braccio perché è disperato per qualcosa, quella sensazione, quella paura, venne spazzata via.
No, non era quello, se ne rese conto.
- Simon? - chiamò incerto prima di addentrarsi in quello che sembrava un antro, ma non oscuro poiché illuminato da una bella luce.
- Zlatan... ho ricordato...
Zlatan era agghiacciato da quella reazione, non sapeva cosa elucubrasse la sua mente pericolosa, sapeva solo che si era chiuso in uno stato eremitico perché doveva pensare, ma non capiva benissimo a cosa.
Sapeva solo che viveva nel terrore di sentirsi dire che lo lasciava, aveva il terrore di vederlo con barba e capelli corti, in quello che era il loro segno identificativo.
Ma i suoi capelli e la sua barba erano ancora lunghi e cespugliosi, non era quello.
A modo suo stava bene, anche se sarebbe stato meglio con un po’ più di cura.
Si avvicinò al letto e allungò a sua volta le braccia prendendolo e stringendolo a sé mentre gli rimaneva in piedi davanti. Simon si appese al suo corpo, strinse la felpa che indossava e tirò forte affondando il viso contro il suo stomaco.
Piangeva ancora.
Anzi, singhiozzava.
Zlatan impallidì alla ricerca di un indizio e finalmente lo trovò nella foto ancora aperta sul suo cellulare. Una foto inviata da sua madre.
Con una mano voltò il telefono allargando meglio l’immagine.
Era lui da piccolo, grossomodo doveva aver avuto 13 anni ed era con la sua prima squadra di calcio, probabilmente.
Lui era inconfondibile, biondissimo, magro, sorridente da morire.
Rimase colpito da quella foto, perché lì era così limpido e felice, così sereno.
Da quando l’aveva conosciuto ad ora non aveva ancora visto tanta leggerezza e spensieratezza.
“Era così diverso, una volta?”
Capì che doveva essergli davvero successo qualcosa e nel chiederselo mise insieme la sua frase.
- Cosa hai ricordato?
A quel punto una sensazione lo schiaffeggiò.
La consapevolezza che il puzzle di Simon si stava per comporre e forse c’era qualcosa nei pezzi mancanti che stavano per essere messi a posto. Qualcosa che l’avrebbe sconvolto o che, quanto meno, avevano sconvolto Simon.
Il desiderio di sbaragliare il tempo e lo spazio per cancellare qualunque cosa l’avesse turbato spingendolo a chiudersi nella sua fortezza di ghiaccio, gli fece stringere le braccia intorno a lui, mentre lentamente gli si sedeva accanto sistemandosi sul suo letto. Lo spinse in là per starci e gli cinse le spalle e la schiena permettendogli di mettersi meglio contro di sé.
Simon rimase aggrappato per lungo tempo, singhiozzando, fino a che si calmò.
Fu difficile, per lui, non gridargli contro perché doveva sapere cosa aveva ricordato. Non era di certo bello vedere il proprio ragazzo piangere così. Specie uno che non aveva mai pianto.
Lasciò che il suo respiro tornasse normale, si mise a contare quanti ne faceva al minuto e quando si rese conto che erano normali, fece un gesto col braccio e con la spalla spingendolo a sollevare il capo e a guardarlo.
Quando ebbe i suoi occhi azzurri sconvolti di lacrime cristallizzate, sorrise nel trovarlo bello persino in quella versione così disfatta.
- Sei un disastro... fra i capelli, la barba, queste occhiaie malaticce e il pianto...
Scherzando un po’ gli mise un fazzoletto in faccia, prendendolo dal comodino dove c’era la scatola dei cleenex.
Simon si staccò per pulirsi e soffiarsi il naso, a quel punto Zlatan prese anche la bottiglia d’acqua e lo costrinse a bere. Lui eseguì tutto mite e quando si fu ripreso, se lo riprese sotto il braccio, appoggiandosi alla spalliera del letto. Gli mise la testa contro il suo collo e iniziò a carezzargli i capelli lunghi senza forma.
Iniziava a capire cosa provava Simon quando lo faceva coi suoi, sebbene al suo contrario lui li tenesse bene e non così effetto barbone.
- Mi vuoi spiegare?
Era stato davvero molto paziente, ma se non si decideva a parlare, poteva iniziare a dare testate.
Finalmente Simon come se non aspettasse altro iniziò a parlare, come un fiume che esce da un argine tenuto per troppo tempo lì dove non doveva stare.
- C’era questo ragazzo a cui ero molto legato a calcio, quando lo facevo a livello agonistico. L’avevo totalmente dimenticato, mia madre mi ha aiutato a ricordare. È da lì che io sono cambiato, ma non ne avevo idea. Adesso ricordo...
- Che è successo con lui? - chiese calmo. Simon proseguì.
- È stata la mia prima cotta. Anzi, forse potrei dire il primo amore, anche se a quell’età che ne sai dell’amore? Però ero così preso, Zlatan...
Zlatan si raggelò nel sentirlo. Davvero aveva avuto già una cotta per un compagno?
In un attimo comprese perché un simile ricordo potesse mettere tanto in crisi uno come Simon.
- Com’è andata?
Era così ovvio come fosse andata, ma sapeva che doveva parlarne, specie perché lo aveva appena ricordato. Le dita che si bloccavano sui nodi dei suoi capelli rinunciarono a carezzarlo sulla testa scendendo sul braccio.
“Poi ti lavo i capelli e ti metto litri di balsamo, non si tengono così i capelli lunghi, dannazione!”
Ma non lo disse.
- Mi sono dichiarato, dopo una partita importante che abbiamo vinto, ho ricevuto molti complimenti per la mia prestazione. Eravamo tutti a festeggiare e su di giri e mi sembrava che i suoi segnali fossero chiari. In quel momento vedevo quel che volevo, ero un bambino, no?
Zlatan non lo fermò, si stava già auto analizzando da solo, ma aveva bisogno di parlarne comunque.
- Ovviamente mi ha rifiutato, ma non solo. Mi ha pesantemente insultato dicendomi che gli facevo schifo e che non intendeva più vedermi, minacciandomi di non parlargli e di non avvicinarmi mai più. Ha detto che quelle cose sono abominevoli... col senno di poi posso capire che erano gli stupidi insegnamenti della sua famiglia.
- Sono sempre stupidi insegnamenti di una stupida famiglia. - commentò basso ed infastidito Zlatan da come una famiglia potesse rovinare la purezza di un bambino.
- Però era quello che pensavano anche i miei e la maggior parte della gente che conoscevo. Se non tutti, in pratica. Ci sono stato malissimo e mi sono chiuso, in quel periodo ho provato ad indagare per capire cosa ne pensassero i miei, ma né loro né nessuno era assolutamente tollerante verso questa categoria, specie perché erano molto religiosi. A quel punto ho iniziato a notare tutti quei ragazzini bullizzati perché chiaramente gay ed ho giurato a me stesso che mi sarei protetto in tutti i modi.
- E con lui com’è finita? - era evidente che in qualche modo ne fosse uscito al lato pratico visto che poi era diventato calciatore.
Simon alzò le spalle come se fosse semplice.
- Se ne è andato, ha lasciato la squadra. Non l’ho più sentito e non so che fine abbia fatto.
- Ci ha perso lui. - replicò lo svedese sperando che sminuire una questione che sapeva era pesante, potesse aiutarlo a riemergere.
- Sì, ma che vuoi, ha seguito la massa. Forse non aveva nemmeno un pensiero proprio in merito.
Zlatan rimase colpito dal fatto che razionalizzasse la questione giustificandolo, ma al tempo stesso sorrise pensando che fosse una cosa proprio da lui.
- Perché sei così turbato, allora? È perché l’hai dimenticato?
Simon annuì e poi fece anche un altro cenno col capo sospirando. Rimase appoggiato a lui, mezzo aggrappato al suo petto, una mano invece cercava la sua e quando la trovò, la strinse.
- In parte è quello, mi ha sconvolto; quel che provavo era così chiaro e forte che non so come ho fatto a scordarlo così.
- Ti sei solo protetto come hai potuto.
Simon sospirò ancora, strofinando la fronte contro il suo collo mentre cercava più contatto e calore. La mano di Zlatan risalì dal braccio alla testa, ma rinunciò a infilarsi nei capelli.
- Sì, però questo cancellare totalmente l’accaduto e la persona mi ha spinto a nascondere a tutti, ma soprattutto a me stesso, l’oggetto dello scandalo. Ovvero il fatto che sono gay. O meglio, mi piacciono anche i ragazzi. Non so in realtà nemmeno cosa sono o... o cosa sarei stato se non mi fossi soffocato in questo modo per tutto questo tempo. Io... - a questo punto Simon smarrito alzò la testa e lo guardò in viso. - Io in realtà non so nulla di me. Per la verità non mi conosco realmente. Sono cresciuto in una menzogna che ho raccontato a tutti, me stesso per primo, per essere accettato e non avere problemi.
- L’hai fatto per proteggerti. Ognuno si protegge in qualche modo. Non puoi metterti in croce per questo. - ripeté guardandolo calmo negli occhi.
- Lo so, non mi rimprovero per il modo che ho scelto, ma alla fine dei conti l’ho fatto. E non so più realmente chi sono. Non so più cosa dovrei fare...
La voce tornò ad incrinarsi, gli occhi divennero di nuovo lucidi e Zlatan gli nascose il viso contro la propria guancia, baciandogli un occhio. Era bagnato e salato.
Lo strinse con forza cercando di trasmettergli la sua calma, ma sapeva che quello era solo l’inizio dell’iceberg.
Perché quelli come Simon erano fatti così.
- Va tutto bene, non c’è un’età entro cui devi sapere per forza chi sei. Non c’è un limite al numero delle volte che puoi ricominciare. Non ci sono divieti, obblighi o doveri. Sei una persona libera, Simon, e qualunque strada ti porterà a scegliere questo nuovo percorso, sono sicuro che troverai il modo di percorrerlo senza ferire chi ami. Né me, né i tuoi figli.
Perché lui sapeva che non voleva ferirlo, tuttavia volle ricordarglielo perché non era così maturo da poter accettare serenamente qualsiasi scelta.
Ma forse il coraggio era anche quello, dopotutto.
Fare comunque quel che ti spaventava semplicemente perché era giusto.
Zlatan pensò che a quel punto con tutto quel che avevano vissuto entrambi, erano tutti e due molto coraggiosi e ne sarebbero usciti vincitori ancora una volta.
- No, non ferirò nessuno di voi. È solo che devo capire alla fine... beh, chi sono...
- Va bene, - disse Zlatan baciandogli la fronte. - sono qua per aiutarti a scoprirlo. Lo vedremo insieme.
Sapeva che voleva fare l’eremita, ma aveva anche appena capito che se glielo avesse lasciato fare davvero, non ne sarebbe mai uscito.
A partire da quei capelli annodati osceni.
“È ora di prendere le cose nelle mie mani.”
Improvvisamente, sentendo che Zlatan l’avrebbe aiutato a capire e che non avrebbe fatto da solo quel percorso difficile e doloroso, Simon si sentì nettamente meglio.
Si rese conto di star respirando meglio e che i battiti del cuore non gli stavano più uscendo dalla gola, ma erano di nuovo calmi nel petto.
Si aggrappò a lui, sollevò la mano e la passò dietro il suo collo mentre si girava del tutto verso di lui abbracciandolo forte col viso nascosto contro il suo.
- Grazie, non lasciarmi solo.
Quell’accettare il suo aiuto fu uno dei suoi passi più importanti.
Note: ovviamente tutta la storia di Simon non è vera, è totalmente inventata da me. Ma mi serviva qualcosa che facesse un certo effetto e che lo sconvolgesse. Forse ho esagerato nella sua reazione, ma vivere una vita convinto di essere in un certo modo e poi ricordare qualcosa di importante che ti avrebbe potenzialmente cambiato tutto, potrebbe gettarti un po' in crisi. Comunque avevo bisogno di un Simon in queste condizioni. Alla prossima. Baci Akane