*Il tour del quarto album inizia, come sempre i tour per Jacoby sono un mondo a parte, così come lo è la composizione dell'album. Non sarà facile e Jerry lo sa, cerca di prepararsi mentre il bus li porta verso le prime tappe, però sa che finiranno distrutti come sempre. Ma per ora Jacoby è ancora in sé e cerca di rimanerci ed è qua che si rende conto che Jerry condivide davvero poco di sé, la cosa inizia a ferirlo. Buona lettura. Baci Akane*
46. DEMONI
"Vivo i giorni della guerra
Vivo le notti d’amore
Soffro per sopravvivere
Devo, devo, devo rimanere vivo
Sento i pianti di battaglia
I pugni sono verso il cielo
So per cosa combatto…"
Non capisco se quando mette piede su quel tour bus lui si faccia possedere da un demone e non capisco se sia volontario o no.
È come se fosse schizofrenico ed una personalità lo prende quando inizia il tour, ogni santa volta.
Credo che le sue paure riguardo l’essere una star lo divorino, quando scende dal palco e va a casa ne ha altre, può essere una persona normale ed affronta i problemi coi figli, con la moglie e tutto. Mi chiedo se anche con me sia un altro Jacoby, un’ulteriore versione di sé che affronta altre paure. Non credo che ce ne sia una dove sta bene. Quando facciamo sesso mi sembra stia bene, ma forse sono più momenti, non stati permanenti.
Il Jacoby del tour è truccato, i capelli in una posa da rock star, sempre rigorosamente neri, più tatuaggi ogni giorno, vestiti neri aderenti, accessori addosso.
Il tutto gli sta molto bene, non posso negarlo, ma non è lui.
Quando è con gli altri fa sempre qualcosa ed è sempre un nervo che si sforza di fare l’idiota allegro che fa scherzi o che non può stare inattivo.
Forse è vero, non può stare inattivo, perché se ci stesse tutti vedrebbero meglio la sua tristezza.
Quando si isola poi sembra che sparisca dal mondo. Non lo senti, non sai dov’è, che fa.
Quando forza la mano cerco di ignorarlo, mi dà fastidio anche se poi a volte ha delle uscite che mi fanno morire dal ridere.
Dice o fa qualcosa di estremamente buffo e penso 'lo fa apposta’ però non riesco comunque a non ridere e mi chiedo se in realtà in ognuna delle sue maschere ci sia una piccola parte autentica e si limita ad esaltarsi di proposito.
Sto andando in uno degli spazi del bus dove possiamo stare seduti comodamente a fare quel che vogliamo, ce ne sono due, uno è nel piano di sopra senza tavolino, un altro è nel piano di sotto ed è più un salottino perché c’è il tavolo e da una parte col frigo e fornelletti per preparare bevande o spuntini.
Io di norma vado in quello di sopra per stare da solo, potrei anche andare nella mia branda, sono divise una dall’altra anche se poi il divisore è ridicolo e c’è solo una tendina. Insomma, sembra di essere divisi in scompartimenti, come le sardine.
A Jacoby non piace tantissimo, nemmeno a me in realtà.
Vado nel pensatoio, così lo chiamiamo, e con sorpresa vedo proprio lui, stravaccato a torso nudo che si pizzica la pancia e guarda nel nulla con aria vuota. Rabbrividisco, prendo la macchina che avevo in mano con cui volevo fare un lavoro e gli faccio una foto. Lui si riscuote e mi vede così fa un mezzo sorriso ma non si alza e non cambia versione.
Chissà, forse con me è un po’ più sé stesso che con gli altri.
Chiudo la porta dietro di me e mi siedo dall’altra parte.
- Come stai? - Chiedo prendendo la memory card ed infilandola nel portatile appoggiato in un angolo dove c’è un ripiano che è una sorta di mensola adibita a sostegno per tecnologie varie, principalmente questo pc portatile che sta ad uso di tutti noi.
- Recupero le forze e le idee per dopo... - Dopo c’è un’intervista.
- Quando si unisce a noi Kelly? - Chiedo indifferente, sembra una normale conversazione fra amici se non fosse che stanotte mentre tutti dormivano lui mi ha fatto un pompino mentre cercavo di sospirare in silenzio. Quando ho cercato di ricambiare ho dovuto tappargli la bocca forte perché altrimenti svegliava tutti ed eravamo proprio sui sedili in cui è ora.
- Non so, fra un paio di tappe, forse viene anche il grande, ma io non sono molto d’accordo, non è un ambiente sano per un bambino di 4 anni... - Jacoby ha due figli, Makaile, il primo che ora ha appunto 4 anni, quasi 5, ed il secondo Jagger di 3 anni fatti da poco.
- Come mai? - Alza le spalle e rimane steso a parlarne come facesse terapia, sono contento quando lo fa anche se di solito mi parla di cose che mi irritano, ma del resto sono quelle che lo impensieriscono.
Ha molti problemi coi figli, anche se sono piccoli lui ne è terrorizzato e sa che loro lo sentono, non riesce a stabilire un legame.
- So che Kelly fa tutto quello che può per loro e per me, cerca di creare questo legame che non si è mai creato, ma so anche che sono io stesso che boicotto questo legame. Perché ho paura che prendano tutto il brutto da me e che crescano male come me. Io non voglio questo per loro. Per cui penso che più gli sto lontano, meglio loro stanno. - Sono bravo a non fare espressioni mentre guardo le foto, le scarico, cancello quelle che non vanno bene e sistemo quelle che invece mi piacciono. Guardo se lui vede il mio lavoro perché molte sono sue.
Ha quell’aria assorta e malinconica.
- Però un giorno quando saranno grandi e saranno estranei per te, te ne pentirai. - Questo lo so. - I figli crescono in fretta ed i genitori che fanno quel che devono trascurandoli, poi se ne pentono, ma il tempo non torna indietro e non puoi rimediare. - Jacoby non dice niente, così lo guardo per capire se almeno mi ha ascoltato ed ha una faccia ebete, realizzo d’aver detto più di quello che dico di solito. Si alza a sedere, si avvicina dalla mia parte e guarda quello che faccio, così becca tutte le foto che cercavo di mettere al sicuro.
Non dice niente, appoggia mite il mento sulla mia spalla spuntando come un bambino, quel bambino che non è mai potuto essere, forse, e che cerca di essere ora in tutti gli atteggiamenti che ha.
Sa che lo fotografo sempre, è il mio modo per amarlo, anche se in tour le cose sono sempre molto strane e tese fra noi, se non altro quando siamo in mezzo a quel migliaia di persone che ci girano intorno.
- È così con tuo padre? -
Alzo le spalle e sto zitto, così lui mi morde la spalla ed io mi lamento, ma poi insiste:
- Non parli mai di te, lanci solo vaghi segni. Io invece parlo sempre di me, non riesco a farne a meno. Perché non dici mai nulla? Andiamo... - il discorso infinito.
Alzo l’altra spalla, scuoto la testa indeciso e fisso lo schermo su una sua foto molto bella che evidenzia la sua anima divisa in due.
- Sai come sono... -
- Eh appunto... - Sorrido, ma lui non molla, rimane appoggiato alla mia spalla e così smetto di vagliare le mie foto, metto giù le mani in grembo e penso a cosa dirgli. Non è facile, odio parlare di me e di quel che è stata la mia famiglia.
- Sai, mio padre è stato in guerra, quando è tornato ha avuto un periodo terribile e si è buttato sul bere. In più è venuto fuori che mia madre l’aveva tradito quando lui non c’era, questo l’ho scoperto più tardi, da ragazzo vivi nel mito di quel padre che dovrebbe essere il tuo dio e non sai quel che succede dietro. L’ho visto essere grande, impormi un ordine rigido, le sue regole da seguire, il silenzio che imperversava. E poi l’ho visto crollare come se fosse fatto di carta. Si è sgretolato davanti ai miei occhi quando è tornato dal servizio in guerra. Io non so cosa può ridurre un uomo forte come era lui in quel modo. E mia madre faceva quel che poteva. Poi ne è uscito, ha smesso di bere e tutto è andato anche meglio. Per me lui è stato un eroe perché dopo essere crollato è risalito. Non è mai stato un uomo molto affettuoso, però non mi ha mai fatto mancare nulla. -
- Lei lo ha tradito?! - Chiede Jacoby colpito, io giro il capo verso il suo ancora appoggiato e vicino, ci sfioriamo e ci guardiamo così da vicino. - Sì, l’ho saputo molti anni dopo. Quando era in guerra, lei lo ha tradito. Ed io non so come ha fatto a non lasciarla, stava così male che non gli importava oppure che aveva comunque bisogno di lei, io non so. Da quella volta mi sono allontanato da mia madre inevitabilmente. Non ho mai voluto provare a capirla. E ho capito i regali che mi facevano, la chitarra prima classica e poi elettrica, il corso per imparare, tutti i dischi che mi facevano comprare di musica... comprava il mio silenzio, pensando che io sapessi? Non so, non ho mai voluto confrontarmi con tutto questo. Ho lasciato che la gestissero loro, non mi sono mai intromesso, però è lui il mio eroe. - Jacoby ascolta la storia completa che non ho mai raccontato bene a nessuno, assorto, assorbito e pensieroso.
Lascio un po’ il silenzio che ha del miracoloso con lui, poi mi giro di più e lo guardo bene in viso.
- Non sprecare nessun istante delle vite dei tuoi figli. Per nessuna ragione. Loro sanno che sei fragile e che hai problemi e ogni tanto cadi, però quando risali lo apprezzano, apprezzano di più questo che un padre assente perché spaventato dal dargli un brutto esempio. Dagli l’esempio del padre che si rialza e rimedia ai propri errori. Che non smette mai di provarci, che non si arrende. - Jacoby sta ancora un po’ in silenzio, colpito da quel che dico.
Mi guarda pensieroso, gli occhi scivolano sulla sua bocca, inevitabilmente quando siamo così vicini perché la desidero ogni volta. Lui però è con la testa da un’altra parte.
- Perché non mi hai detto niente di tutto questo? Hai scoperto di tua madre da poco, credo... ci conoscevamo già, no? - Alzo le spalle come se non fosse importante e torno a girarmi al computer, vedo che le foto si sono salvate nella pen-drive e la tolgo. Lui si raddrizza e sbuffa irritandosi.
- Lo vedi? Perché fai così? Mi tagli fuori! -
- Non è che ti taglio fuori, sono fatto così. Non penso che a qualcuno possano interessare certe cose... - E apriti cielo, lui si alza in piedi e comincia a gesticolare arrabbiato mentre mi fissa come se fossi un eretico.
- Ma come puoi dire una cosa simile? A me importano! Perché ti devi buttare giù così? Ti denigri da solo! Come fai a dire che a nessuno importa? - Io rimango seduto calmo e alzo una mano col palmo verso l’alto.
- Tu come fai a dire il contrario? Come fai a dire che invece a qualcuno importa questi casini di famiglia? Tutti ne hanno, nessuno vuole sapere, vogliono solo pensare ad altro e distrarsi fuori casa. - Sembra ragionevole, sono paziente e sicuro, lui mi fissa torvo, apre le mani ad artiglio davanti a me come per strozzarmi e per un momento penso che lo farà.
- Ma tu sei fuori! Non è che agli altri importa... è che tu devi aver voglia di condividere una cosa importante con chi è importante per te! Nemmeno io ho detto a tutti che ero un senzatetto e che ho la fobia dei ronzii! Ma l’ho detto a te, perché tu per me conti! - Credo che si senta ferito da questo. Se io non gli ho detto niente di importante significa che non lo ritengo tale.
Mi alzo e gli metto le mani sulle spalle agganciando il suo sguardo furente, a momenti sputa lava dalla bocca.
- Jacoby, non volevo ferirti. Sono fatto così. Non tiro fuori certe cose. - fa un passo indietro seccato.
- No tu non tiri fuori un cazzo! È diverso! Solo che se non lo fai nemmeno con me significa che per te sono solo un casino da tenere sotto controllo e basta! - Con questo fa per andarsene, l’ho ferito un sacco, ma lui è il solito esagerato. Gli prendo il polso al volo e lo trattengo.
- Jacoby non è così... - Ma lui si stacca e mi guarda ancora rabbioso e ferito, sempre così espressivo in tutto. E lo invidio in questo momento, da morire.
- E com’è allora? -
Così rimango senza parole a cercare di rimediare a qualcosa che non volevo fare. Non so che dire, so solo che non voglio non mi parli più. E che pensi di essere un casino da sistemare.
- Come tu hai i tuoi demoni, io ho questo. Mi blocco. Non riesco ad aprirmi anche se penso che vorrei e sarebbe giusto, io non riesco. Prima che l’ho fatto, e tutte le volte che ti ho accennato qualcosa in passato, è perché tu sei speciale. Però non è colpa tua, è colpa mia. Questo è il mio demonio. Non riesco ad aprirmi. Non è che non voglio. - Mi fermo, sempre io calmo e lui furioso, il broncio. - Perdonami. Non arrabbiarti con me. Non dopo che ti ho detto tutto quello... - Per me è stato difficile, devi capirlo.
Non sono espressivo, non parlo, non comunico. In un istante spero che però legga ancora una volta nei miei silenzi e proprio mentre sto per arrendermi, lui sospira ed io trattengo il fiato. Chiude gli occhi e mi mette una mano sul petto, poi appoggia la fronte sulla mia.
- Sei uno stronzo, se fai così non riesco ad arrabbiarmi. - Così sorrido rilassandomi e sono io a cercare la sua bocca.
Credo che fra il dire ed il fare c’è di mezzo un abisso. La cosa migliore sarebbe staccarci, ma chi ci riesce? Lui ha una calamita dentro di sé, io non riesco proprio a staccarmi e più vado avanti, più me ne rendo conto.